MEGARECENSIONI Vol.15 — Gennaio 2018 Pt.1
“Ogni anno, ogni Gennaio, cambiamo il calendario e trascriviamo i compleanni e le scadenze”
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Alessandro Cortini — Avanti
Vedersi tutto scorrere a velocità inumane attorno o vedere le stesse cose rallentare sino a diventare immobili, diventare parti di filmati o quadri intuendo la fallibilità della propria memoria. Intuire l’importanza dei ricordi, del saperli mantenere e del coltivarli nel giusto modo. Alessandro Cortini con Avanti presenta al mondo sette tracce pregne di sentori nostalgici, piccoli estratti di filmini con i parenti e di meditazioni silenziose. Mari di sintetizzatori battono tra di loro sui timpani dell’ascoltatore per stabilire il predominio sul sentimento dominante: sia questo il soddisfarsi, il perdono, l’attesa e così via. Un lavoro quasi ambient, dove però l’ ambiente è inteso come il silenzio che ognuno di noi si è trovato davanti in particolari momenti della propria vita. Si fotta, allora, la non necessaria accessibilità di determinati sentori e melodie, si fottano quelli che non ascoltano i dischi perchè cercano solo emozioni burrascose o determinati canoni musicali. Il benvenuto è riservato agli stanchi, ai tristi, a quelli che vogliono andare avanti trascinandosi frammenti di cose da non gettare mai; Avanti è un disco musicalmente privo di forma e stilemi classici, pieno invece di sensazioni, colori e sapori. (Graziano Salini)
Ascolta: Nonfare
7+/10
Black Rebel Motorcycle Club — Wrong Creatures
Oggi quando si ascolta un album come l’ultimo dei Black Rebel Motorcycle Club il giudizio di alcuni incontra un bivio: c’è chi sceglie di credere alle banalissime frasi indispettite in stile Rolling Stone («Il rock è finito? Cazzate!») che vorrebbero questo alternative rock ancora vivo come un tempo; oppure chi sceglie di non accontentarsi di fronte all’ennesima già sentita manifestazione chitarra-basso-batteria che lotta per sopravvivere attingendo a piene mani dagli idoli shoegaze in un panorama musicale che si muove in tutt’altra direzione. Come spesso accade a mio parere, nel caso di Wrong Creatures la verità sta in una zona grigia fra queste due correnti di pensiero: la band di Hayes, Been e Shapiro sopravvive benissimo pur pubblicando un disco che si regge in piedi principalmente grazie ai brani dalle sonorità più “dreamy” del suo arsenale. L’ottavo lavoro del gruppo di San Francisco ha diversi colpi in canna di tutto rispetto: se i pezzi riusciti meglio sembrano essere quelli più nebbiosi, alla Jesus And Mary Chain per intenderci (Echo e Question of Faith), a fare da contrappeso vi sono tuttavia brani dal muso sporco e duro (Spook, King of Bones), abbastanza aggressivi per i ritrovi di motociclisti sulla Route 66 ma poco coinvolgenti e nel complesso trascurabili. In definitiva, nonostante Wrong Creatures abbia punti deboli evidenti, i BRMC riescono a far piacere ancora un certo rock d’annata (non certo tra i migliori viste le pietre di paragone) senza zoppicare eccessivamente. (Marcello Torre)
Ascolta: Haunt, Echo, Question of Faith
6½/10
Bologna Violenta — Cortina EP
Esiste un punto nel travagliato percorso sperimentale in cui, per fugare il rischio della costrizione in un campo di regole noto e rassicurante, è importante fare un passo indietro ed abbracciare l’intera ricerca intrapresa, comparare origine e contemporaneo e sfruttare questo iato come slancio di rinnovato vigore. Nella parabola disegnata da Bologna Violenta Cortina rappresenta sia l’apice che il superamento di questo punto. Intriso di tradizione e prospettiva questo EP già dai titoli strizza l’occhio ad un certo passato, da considerare con l’attenzione di uno storico; in copertina l’abbandono del Trampolino Italia di Cortina D’Ampezzo, la tracklist divisa in dieci Criptomelodie, che già da sole richiamano lo spettro della musica progressive, sintesi di forme e modelli di un passato cristallizzato che è limite e sbarramento, piuttosto che appoggio. Una cortina per l’appunto, di ferro o mentale che sia che separa l’innovazione dal presente grazie alla paura del superamento del limite, del nemico al di là del muro, del buio oltre la siepe. Una paura che il duo Manzan-Vagnoni non si esime dal considerare nel tentativo di forzare questo sbarramento, catalizzata in composizioni articolate che escono dal seminato per disegnare scenari possibili, terreni inesplorati. L’invito è un salto nel vuoto carico di tensione, come nei giorni che furono del Trampolino Italia, che Bologna Violenta affida al dialogo esclusivo tra violino e batteria — analogica per l’occasione — in brani non edulcorati, in cui l’assenza della raffinatezza chirurgica delle produzioni precedenti si fa elemento essenziale dell’espressione. Dopotutto infrangere le barriere richiede sforzo e una certa dose di violenza, un’operazione non priva di spigolosità e spasmi, riarrangiati in Cortina nella classica foggia di tracce brevi, brevissime, come lampi a volte: esplosioni di una materia sonora magmatica e viva, complessa e dalle emozioni contrastanti, mai aperta al compromesso e sempre, sempre, in prima linea contro ogni confine.
(Giacomo Bergantini)
7/10
C+C=Maxigross — Nuova Speranza
I C+C=Maxigross hanno sempre cercato una dimensione internazionale, dal cantato in inglese fino ai concerti al Primavera Sound di Barcellona, ma con Nuova Speranza hanno fatto una scelta che in pochi purtroppo hanno il coraggio e il buonsenso di fare a posteriori: provare a cantare in italiano. E i tre pezzi che compongono questo EP — Nuova Speranza, L’averla, Torna a Casa — premiano questa decisione della band veronese. Decisamente più psych che folk, Nuova Speranza ha un suono quasi esotico e tropicale, con dei caldi riff di chitarra e delle ritmiche simili all’afrobeat dei primi Vampire Weekend. L’approccio al cantato in italiano risente dell’ombra di Lucio Battisti che copre ormai tutta la musica indie (esiste ancora?) del nostro paese ed è un po’ un peccato, perché a livello di suoni è stato fatto un lavoro, al contrario, piuttosto originale rispetto alla “concorrenza”. Leggo che i testi parlano anche di migranti ma, per quanto a rileggerli successivamente qualche elemento fa accendere una lampadina, non si può dire che in questi tre brani ci sia un messaggio sociale forte, che non avrebbe di certo guastato, anzi. Nel complesso un ascolto piacevole, soprattutto Torna a Casa, che sono convinto che dal vivo mi farebbe ballare di brutto. Se Nuova Speranza fosse stato più lungo di almeno un altro paio di pezzi si sarebbe meritato anche un voto più alto. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Torna a Casa
6½/10
Cioran — Bestiale Battito Divino
Un quartetto padovano, i Cioran, ci propongono un EP da 25 minuti, più che sufficienti per esporre i loro argomenti. Bestiale Battito Divino si presenta come un connubio sanguinolento di black metal e incisività hc, che funziona bene e viene eseguito altrettanto piacevolmente. Condensazione di massicci riff black metal all’interno di una base ritmica ambivalente, che oscilla tra mattanza blast beat e cadenza hardcore-punk (si veda per esempio Silicio). Nonostante il sottofondo concettuale e sonoro rimanga inalterato, le cinque canzoni si susseguono con leggerezza, ognuna aggiungendo un qualcosa, riuscendo a non annoiare. Come nelle ultime due tracce, che si distendono dando maggior risalto ad una componente sludge che in precedenza giaceva sopita. Un prodotto maturo, che porta dentro di sè spunti eterogenei, cristallizzati in un black metal-hardcore graffiante, oscuro e incisivo. Una discesa agli inferi che parte in quarta con Sogno organico 90, che nella seconda metà raggiunge vette notevoli, e che finisce con Petricor, che mette in risalto ulteriori influenze sonore, tendenti ad un black metal più atmosferico, sempre ben saldo al sottofondo musicale emerso in precedenza. Un lavoro più che discreto per un gruppo di cui mi pento di non aver mai sentito parlare, a cui ho voluto dedicare poche parole, vista l’eloquenza del disco stesso. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Tuono
7+/10
Claver Gold — Requiem
Requiem è una narrazione dal tema funereo incentrata sulla memoria di un passato fangoso, da cui è difficile liberarsi. Claver Gold ha lottato contro i propri ricordi nel confezionare un prodotto carico di sofferenze, che porta a galla errori e perdite che inevitabilmente hanno fatto del rapper di Ascoli Piceno la persona che è adesso, capace di tirar fuori le emozioni più pure dalle proprie cicatrici. Murubutu, Rancore, Ghemon, Fibra e molti altri lo accompagnano in una spirale di ricordi la cui importanza pesa tanto quanto il dolore che portano con sé, celebrato come nell’elogio funebre dal quale questo disco prende il proprio nome. Tra incubi terrificanti (La notte delle streghe) e amore come droga (Quando sei con lui), i rimpianti di una vita sembrano sempre più impossibili da affogare mano a mano che ci si addentra nell’io di Gold, messo a nudo con una vividezza e una maturità difficilmente riscontrabili altrove. Requiem è un disco triste, violento, che vi farà male, vi darà dipendenza: ne vorrete ancora, sempre di più e una dopo l’altra consumerete le sue diciassette tracce per sentire i mali che hanno da raccontare. La messa è servita. (Marcello Torre)
Ascolta: Requiem 55, Notte Di Vino (ft. Davide Shorty), Il Meglio Di Me (ft. Rancore)
8½/10
La Colpa — Mea Maxima Colpa
Tre tracce, quaranta minuti e la piena disponibilità a subire le conseguenze delle proprie scelte sono tutti gli elementi necessari per immergersi nelle profondità tragiche di Mea Maxima Culpa, primo lavoro ufficiale del quintetto alessandrino La Colpa. Uscito a settembre per Toten Schwan Records, il disco sommerge l’ascoltatore con nient’altro che l’espressione della propria identità, sviluppandosi tra bordate drone e gusto black metal. È la colpa, appunto, a farla da padrone: non quella cristiana, astratta e spirituale, ma quella concreta, responsabile. Quella di cui parla Mea Maxima Culpa è la colpa verso la realtà del mondo, ciò che ci circonda, ciò che no ma avrebbe potuto; la colpa della società, dell’uomo come Storia. Una colpa radicale e reale, orchestrata in un lunghe composizioni lancinanti di atmosfera black su tappeti di droni, spezzati dall’acidità delle chitarre e dalle interruzioni metalliche memori di un certo industrial sperimentale. Un gorgoglio ribollente in cui si insinua una voce utilizzata al pari di uno strumento rituale, che con la sua confessione esprime e aggrava la sofferenza della colpa, restituendo il dramma dello specchio e del confronto con le proprie azioni. Una confessione quella dei La Colpa che non è pulizia della coscienza e remissione ad un potere superiore, ma tragica assunzione di responsabilità, individuale e collettiva: un lucido sguardo sul mondo, un dito puntato contro il volto di tutti. (Giacomo Bergantini)
6/10
Dark Polo Gang — Sick Side
Quando l’anno scorso è uscito Twins sembrava l’inizio della fine per la Dark Polo Gang: le idee sembravano finite, il disco — tanto atteso e anticipato — non aveva soddisfatto le aspettative e la critica aveva iniziato a prendere le distanze dalla crew romana. Poi all’inizio dell’anno nuovo è arrivato (quasi) a sorpresa Sick Side, un lavoro più essenziale e con molte meno pretese che ci ha riportati ai tempi dei primi mixtape. Quasi tutti i pezzi sono brevissimi e si chiudono saggiamente prima di diventare ripetitivi, Sick Luke è nuovamente ispirato e Dark Side si è dimostrato il membro della gang con le barre meno pacchiane. Sia chiaro, la DPG è sempre la DPG, suona ancora come un Bello FiGo meno demenziale e non siamo ai livelli di Succo di Zenzero; però in Sick Side le hit non mancano. L’Intro è una bomba (“attaccato alla mia città come Cristiano Lucarelli”), Diego Armando Maradona è il singolo perfetto per il disco, Amorevole è una bellissima trappata ignorante (“mia madre mi ha fatto bello / mia nonna educato”), Cheescake è talmente nonsense che fa il giro e diventa seria (soprattutto grazie a Wayne: “sto così in alto sembro un alpinista / porto regali alle bitch con la slitta”) e Lullaby è la perla del disco, dove Luke si diverte anche con la cassa dritta. Il rimpianto più grosso è Fiori d’erba, dato che le parti di Hermit G si potevano (e dovevano) tranquillamente lasciare a Pretty Solero. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Lullaby
7+/10
Jeff Rosenstock — POST-
Alcuni sentimenti emergono flebili, placidi; uno di questi è la sorpresa di trovarsi davanti il nuovo di Jeff Rosenstock (ex di mille progetti), uscito così, senza preavviso, senza pubblicità, senza tour, senza giri di radio — roba da buoni propositi per il 2018 — che però, passata la tenue atmosfera di sorpresa, Rosenstock non sa già più se riuscirà a mantere. Paradossalmente questo nuovo lavoro, uscito così di soppiatto, sembra essere la sua produzione più procacemente politica, meno dedita ai frizzi e ai lezzi, come ancora era Worry. Ad essere onesti, però, ce l’aspettavamo: Jeff stava chiaramente cercando di spingere la sua musica in direzioni in precedenza inesplorate, con un tocco di AOR e un tocco di stoner, che ben si struttura in USA o in Let Them Win. Tutto ciò, tuttavia, non aiuta a discostarci da una scrittura pesante, molto punk, poco incisiva e piena di ridondanze. Forse dieci anni fa un disco del genere avrebbe avuto tutt’altra direzione, ma con la proliferazioni surreale della scrittura autocritica, questo fluttuante disturbo borderline della personalità ci sa di posticcio come a dire, capisco tu ti stia confessando, ma dovresti smetterla di citare; apprezziamo, invece, alcuni luoghi più tersi, quali la riflessione sulla ristrettezza della sua voce come strumento, politico o meno che sia, e tutto l’ambaradan di ansie sociali indotte dalla impotenza sessuale, fino ai più biechi e teneri sentimentalismi. I più spietati potrebbero dire che Jeff questo disco l’ha già scritto, ma i migliori di noi sanno che sicuramente l’ha scritto meglio oggi di come avrebbe potuto scriverlo prima. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: 9/10
6+/10
King Gizzard & The Lizard Wizard — Gumboot Soup
Con l’ultimo dei cinque dischi annunciati per il 2017, i folli australiani chiudono un anno creativamente esplosivo che li ha consacrati e lanciati in vetta all’olimpo dell’acid rock, casomai ci fosse ancora bisogno di discuterne. Se ad ogni loro nuova opera ci si aspetta sempre una buona dose di viaggioni allucinogeni dai toni epici forse questo tredicesimo lavoro riesce a stupire con l’aggiunta di toni più soft del solito: sebbene non manchino i suddetti trip più hard e schitarrosi (Greenhouse Heat Death, All Is Known), a svettare è stavolta la rilassatezza di una band ormai conscio della propria classe, una psichedelia quasi beatlesiana (Beginner’s Luck, I’m Sleepin’ In) accompagnata da ammiccate al miglior funk/soul ubriacante di Thundercat (Down The Sink). Non paghi di tutto ciò i KG&TLW vanno persino oltre, jazzando il finale dell’album con una magnifica The Wheel. A onor del vero va detto che Gumboot Soup non osa così tanto rispetto ai lavori più acclamati dei ragazzi di Melbourne: l’impressione (ma si tratta forse di una mia pignoleria) è che manchi ancora qualcosa perché un loro disco lasci un solco indelebile nella mente dell’ascoltatore. Tuttavia dopo tredici bellissimi dischi sarebbe presuntuoso aspettarsi l’opera d’arte totale da un gruppo che ha già pienamente dimostrato il proprio valore e sa bene come divertire i propri fan ad ogni nuova sparata. Godiamoci dunque tutta la genialità sbarazzina di questi sette pazzi senza troppe pretese, perché Gumboot Soup è tanto semplice quanto entusiasmante. (Marcello Torre)
Ascolta: Down The Sink, The Wheel
8 — /10
Loreen — Ride
Sembra necessario rivolgere la nostra attenzione al nuovo della cinerea svedese Loreen, Ride. Vincitrice dell’Eurovision con la sensuale Euphoria, perla pop sui generis che ha conquistato il mondo nel 2012. Con Heal, l’album di debutto, uscito all’indomani della vittoria, ha fatto il salto. Dopo un paio di false partenze e di EP, abbiamo finalmente il follow-up. Per chi ricerca nel pop solo e sempre il tragico delle nottate buie, questo lavoro risulterà senza dubbio indigesto, o quantomeno antipatico, come mi figuro andrà di traverso ad una fan-base ancora troppo fresca e ballereccia. La composizione del disco, infatti, non va affatto sottovalutata, gli arrangiamenti sono rigogliosi e sapientemente pop, se non velatamente dream-pop, sempre alla ricerca di un sound organico. Indubbiamente ciò che rende apprezzabile il lavoro è la presenza di un registro apollineo, che non rifiuta in toto un certo modo di fare musica, ma vi sovrappone delle variazione sul tema che richiamano una progressione naturale, una crescita spirituale. Il problema fondamentale dell’album è che se funziona molto bene nella sua economia interna, da ascoltare tutto d’un fiato; come singoli, invece, non garantisco sul risultato. I singoli sembrano canzoni di contorno, come quelle che fanno da riempitivo ai singoli, con I Hate the way I love you che la fa da padrone, mentre le successive si trastullano nell’atmosfera da sogno, travolte dall’ambigua e preziosa Love me America, appassionante. Manca tutto sommato un singolo potente, spudoratamente pop; il risultato è quello di una polarizzazione sottile negli ascoltatori, ma non è detto che sia prassi sconveniente. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: I Hate the way I love you, ma se non siete frettolosi, Love me America.
6½/10
Lucy Anne Comb — Letting You Go
Lucy Anne Comb è Guido Brualdi, giovane ragazzo di Pesaro. Letting You Go è la prosecuzione dell’EP Yourselfie. Le canzoni si susseguono una dietro l’altra, rincorrendosi tra melodie e ambientazioni, Guido concepisce un folk un po’ elettrico un po’ tribale, e poi la sua voce ha un che di incredibile, a tratti ha un po’ di Jeff Buckley. Letting You Go è un’autoproduzione, realizzata insieme ai due amici Erica Terenzi (Be Forest) e Luca Sorbini. Guido ci regala sette canzoni in cui a parlare e a essere nominate sono tutte le ansie e tutte le gioie dell’avere vent’anni oggi, tra l’ossessione per l’ICT (Daily News) e quella di succedere (Wannabe), fino a autoritratti che Lucy Anne riesce a disegnare con la musica come Guido lo fa coi pennelli e i pennarelli. Letting You Go è un lavoro sincero, un momento di raccolta, va ascoltato come foste in un rituale, in silenzio e con attenzione. Potete già farlo, cliccando qui. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: Lucy Anne, Windir, September
7/10
Monkey Onecanobey — Moco
Un duo da Spoleto, chitarra-voce e beatbox. Un’impostazione blues arcaica “rinfrescata” dalla presenza del beatboxer Phill che crea le ritmiche al cantante/chitarrista Sav. Partiamo dalle note positive: i riff sono ben scritti e ben suonati, anche se risultano un po’ già sentiti ma si sa che il blues nel 2018 fa questo effetto, e la voce è davvero potente e oggettivamente bella. Si sfiora la psichedelia con questi ritornelli molto dilatati che creano un bel muro di suono ed è tutto molto piacevole. C’è solo una cosa che non riesco bene a capire, ovvero la presenza del beatbox e non di una batteria vera e propria. Mi pongo questa domanda perché, nulla togliere al capacissimo Phill, il compito che svolge è esattamente uguale a quello di una batteria, senza però l’impatto che ha lo strumento rispetto all’utilizzo della bocca. Non riesco davvero a capire, però va detto che resta comunque un lavoro interessante e se si darà uno spazio differente al beatbox nei prossimi lavori probabilmente conquisteranno pure me. (Edoardo Piron)
Ascolta: I know
5½/10
Night Skinny — Pezzi
The Night Skinny (TNS) è un producer milanese che ha iniziato a farsi notare negli ultimi anni (sue “Bocciofili” di Dargen e “Sissignore” di Rkomi) e questo Pezzi è il suo sparo alla Luna: ha radunato su queste sue tracce tutto il meglio della grande mela italiana, da Gué Pequeno a Tedua, da Ernia a Lazza, fino al suo preferito Rkomi, che non esita a definire su disco «il Nas italiano». Nonostante lo stile resti simile lungo tutto il disco e la monotonia resti sempre in agguato, TNS è riuscito a tirar fuori il meglio dai ragazzi della nuova scena milanese, dando spazio anche a veterani come Noyz Narcos e Luché — e pure agli inglesi 67 (la sua “Let’s Lurk” vi ricorda niente? 😂) e Pagey Cakey; così facendo TNS ha dimostrato di essere bravo soprattutto a trovare il rapper giusto per il pezzo giusto (Tedua, Lazza, Ernia e tutti quelli con Rkomi, ovviamente). Speriamo che Skinny continui a fare i giusti abbinamenti… perché, in caso contrario, l’hype potrebbe sgonfiarsi come un palloncino. (Enrico Del Bianco)
Ascolta: Michael J. Fox, Houdini, Male, Fuck Tomorrow
7 — /10
Omake X Shune — Raw
Raw, nato dall’incontro tra il cantautore anticonvenzionale Omake e il duo di musica elettronica Shune, è molto di più di una semplice collaborazione. L’album, uscito il primo dicembre per Arroyo e distribuito da Believe Digital, è una sfida che si è trasformata in scambio reciproco di energia, in una fusione di mondi musicali per crearne uno nuovo. Le dodici tracce che lo compongono sono, infatti, frutto di una produzione curatissima e di una meticolosa ricerca sulle sonorità e sulle atmosfere. I differenti significati del termine inglese del titolo possono trarre in inganno: non c’è niente di “grezzo” e “non raffinato” nel lavoro del trio, ma c’è invece tantissimo di “crudo”, c’è la volontà di mettersi in gioco, spingere l’acceleratore e lasciare indietro tutto e tutti, facendo scelte coraggiose e allontanandosi da prodotti ruffiani e preconfezionati. La messa a nudo la si intuisce anche dai testi, racconti personali dell’io più intimo di Omake, e dalle scoperte influenze (Frank Ocean, il Bon Iver di 22, A Million), immediatamente riconoscibili nella trama delle canzoni. Tutto risulta omogeneo e coerente in Raw e tutto sembra corrispondere ad un’idea non solo musicale ma artistica di estetica estatica, incluso il video psichedelico, sensuale e rilassato di Truths&Enemies, realizzato da Bonasia & Narcisi. Il lavoro di OMAKE X SHUNE è un esperimento riuscito, una sorpresa nel mare magnum delle produzioni italiane, un viaggio di scoperta da gustare traccia per traccia, arrendendosi alle onde lunghe dei suoni e lasciandosi trasportare senza farsi troppe domande. (Elisa Frioni)
Ascolta: Honda 95, MFL, A-Villain
7½/10
OSC2X — Sell Everything
Un ritorno che fa felice me e che dovrebbe fare felici tutti voi quello dei regaz bolognesi Osc2x, Vittorio Marchetti e Luca Rizzoli. Il disco precedente, under the sun all night long, mi era stato donato direttamente da Vittorio durante una serata un po’ folle a Milano e da lì l’ho consumato senza perdermi in chiacchiere. Esordisco dicendo che Sell Everything mi piace ancora di più. Sei brani + un remix di pop ballabile e preso bene che poggia su synth e batteria dritta, con un cantato alle volte soul alle volte R’n’B davvero di ottima fattura. Un’attitudine alla musica che straborda dai confini dell’Italia per risalire l’Europa fino al Nord più freddo ed estremo, con l’intento però di creare calore nell’ascoltatore, non di congelarlo. La tripletta finale composta da Peniko, Life Companion e What Kind Of Life Is This poi mi si è fissata direttamente nel cervelletto senza dare spazio ad altri pensieri e direi che non è poco. Da ascoltare e riascoltare Sell Everything perché gioiellini come questi non escono tutti i giorni. (Edoardo Piron)
Ascolta: Peniko, Life Companion, What Kind Of Life Is This
7/10
Pulsatilla — Anemone
Qualcosa di nuovo è arrivato in città, suoni soavi, melodie antiche, che ci riportano a certi momenti felici di un passato prossimo di giovinezza e pubertà: i Pulsatilla fanno un qualcosa che era indie-rock (ma oggi cos’è?) con dei testi in italiano che volano rapidi sopra e leggeri sopra le dieci tracce che compongono questo primo disco Anemone, che riprende il discorso appena accennato dell’omonimo EP uscito il maggio scorso. Comunque il disco si caratterizza per belle chitarrine, liriche accorate e soprattutto pulizia e precisione nel suono, composizioni e arrangiamenti belli, in un misto di indie-dream-pop dal sapore così 2008–2009 che mi son tornati in mente i Little Joy di Evaporar o gli Strokes più sognanti e malinconici. Comunque (x2) ai Pulsatilla basta aggiungere una ventata di Rimini e Romagna per dare ancor più profondità e linfa nuova alle canzoni: Bella di Notte e Madame, Adieu (Aritmia) hanno il giusto piglio per portarci dentro l’ascolto del disco, che prosegue ininterrotto, fino alla fine, con piacere, con tranquillità. Bravi Pulsatilli, bel lavoro. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: Trentuno, Psora II, Madame, Adieu (Aritmia)
7+/10
Summoning — With Doom We Come
A mio parere i Summoning sono un gruppo di cui è difficile parlare in maniera negativa, soprattutto per coloro che conoscono a fondo la loro evoluzione e i loro leitmotif musicali. Silenius e Protector, i due artisti che stanno dietro questo progetto musicale sin dagli anni ’90, hanno fatto loro e arricchito uno dei bagagli più importanti e affascinanti della letteratura mondiale: Tolkien. Sin dall’LP di debutto, Lugburz, i Summoning hanno dato vita ad un modello compositivo e narrativo unico nel suo genere, che possiamo definire senza rimorso come pionieristico. Partendo dalle narrazioni tolkeniane, dall’universo sconfinato che questo autore ha plasmato, hanno costruito delle sonorità fondate su delle forme che rimangono immutate sino a questo With Doom We Come: uno scream deciso e ruvido, drum machine profonda come un tamburo da guerra orchesco, tastiere e cori degni delle più eleganti condottieri elfici, oltre che un apparato di strumenti variegati che si presentano con costanza sullo sfondo. Insomma, hanno creato un atmospheric black metal dalle tinte epicheggianti e misteriose, che non tarderà ad ispirare moltissimi giovani artisti. Un suono che è rimasto immutato fino ad ora, manifesto di una scelta artistica chiara e unilaterale. Detto ciò non voglio sicuramente nascondere la palese superiorità dei loro album precedenti rispetto all’album qui preso in questione. Dopo l’ultima canzone di Oath Bound risalente al 2006 (ossia Land of The Dead, che personalmente annovero tra le più alte vette che il Black metal abbia mai raggiunto), i Summoning sono entrati in stasi per sette anni, per poi tornare nel 2013 con Old Mornings Dawn. Qualcosa inevitabilmente si era affievolito, come una stella che pian piano si spegne. Ciò che mantiene in ogni caso la bilancia in equilibrio sta a monte dei singoli album, è l’idea stessa che rimane dietro il loro modo di raccontare una storia. C’è un qualcosa nei loro album, nelle immagini che grazie alle loro aggraziate e laceranti note riescono ad emergere davanti agli occhi; chi conosce Tolkien riuscirà a capire con più immediatezza: armate di orchi in marcia, il ponte di Khazad-Dum, Morgoth e Sauron fiammeggianti, tutte immagini che si fanno carne e roccia, anche in quest’ultimo album. Come le Ere che passano, anche loro sembrano perdere luminosità , il declino sembra imminente, ma c’è ancora tempo per un’ultima sortita, l’ultima ( o forse no) marcia dei Summoning. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: With Doom We Come
7 — /10