MEGARECENSIONI Vol. 13 — Novembre 2017 Pt.1
Take me back to November, take me back to November, Hawaiian shirts in the winter, cold water, cold water
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Amenra — Mass VI
Formatisi nel 1999, gli Amenra si sono dimostrati in grado di portare il pesante fardello di “paladini” dello sludge, raggiungendo livelli di profondità e ricercatezza sonora accomunabili, ma non a mio parere equiparabili, a quelle dei Neurosis. Bisogna subito dire che dal loro primo album non hanno apportato modifiche sostanziali al loro sound, riuscendo però ad affilarlo e temprarlo, grazie alle forti tinte atmosferiche e distese. Per i maniaci della classificazione, un atmospheric-sludge-doom-metal con influenze post-rock. Con i fratelli maggiori Neurosis, gli Amenra condividono un apparato tematico, verbale e sonoro, tendente al misticismo e alla catarsi. Musica come mezzo per raggiungere altre sfere, sospinti dal sempiterno vento del dolore e dello struggimento. Essi rimangono uno dei pochi interpreti di un bagaglio culturale ed emotivo antico come l’umanità, che negli ultimi tempi è stato vittima di troppe prese di posizioni pacchiane e superficiali. Cercando di non perdersi in riflessioni astratte, possiamo soffermarci sul mirabile lavoro delle chitarre, che risultano azzeccatissime sia nelle parti più melodiche, grazie ad arpeggi lineari, ma efficacissimi, sia nelle spazzate più distorte e caotiche. La voce di Colin H. Van Eeckhout è un sempreverde della loro produzione, un ruggito acherontico che scuote nel profondo, che affascina e trascina incessantemente lungo tutte le tracce. Una semplicità tecnica ed esecutiva profonda e ricercata, che potremmo definire come genuina manifestazione di esercizio artistico. Se si va a studiare la discografia degli Amenra, Mass VI non è originale, per nulla. Nonostante questo riesce a creare ancora un’immane tensione emotiva, una barriera sonora onnilaterale che si insinua nelle orecchie, striscia lentamente ed esplode nei meandri della mente. C’è da dire che Mass VI non è un album per tutti. Gli Amenra non sono per tutti. Sono uno di quei gruppi che se ne frega di far aspettare cinque anni per il loro disco, se ne frega di abbandonare o modificare il proprio sentiero sonoro per non cadere nello scontato e soddisfare un maggior numero di individui. La bellezza di un cigno, la morte pacifica ed inevitabile che coglie impietosamente, lacrime che sgorgano e che in un battito di ciglia si trasformano in rabbia demoniaca. Questo sono gli Amenra, sono rimasti ciò che sono, da sempre. Prendete un paio di cuffie e una stanza buia, avviatevi e alla fine, forse, capirete. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: A Solitary Reign
8½/10
Belize — Replica EP
Quando c’è il sentimento di mezzo è sempre difficilissimo giudicare una qualsiasi produzione artistica. Per i quattro Belize (Riccardo, Mattia, Yed e Federico) provo un sentimento antico e semplice chiamato voler loro bene, in quanto ci possiamo definire amici. Proprio per questo l’EP Replica, che dal primo ascolto mi aveva fatto innamorare di una band che già amavo per il primo disco Spazioperso, l’ho girato ad altri due redattori (dei cui gusti musicali mi fido moltissimo) con una semplice domanda: “Io a questo EP vorrei mettere un voto alto, ma ho bisogno di conferme”. E quando anche loro due se ne sono innamorati ho tratto due brevissime conclusioni: 1) allora non è solo il cuoricino a parlare, ma è la musica (è bello poterlo scrivere), 2) posso ritenermi fortunato di stare assistendo da vicino alla crescita artistica di un gruppo che si sta dimostrando tra i più interessanti e capaci del momento. In questo EP i Belize decidono di spingersi verso un’esplorazione ancora più approfondita della vastità del concetto di pop, utilizzato oggi in maniera oserei dire indecente da parte di moltissimi. Quello che portano alla scena milanese (e italiana, possiamo ufficialmente dirlo) è qualcosa di grande, importantissimo per tutti noi che amiamo la ricercatezza nella musica: brani pop rotondi, perfetti, che ammiccano soltanto a loro stessi, che guardano alla banalità della vita con occhi intelligenti e scaltri, grazie a testi profondi e una scelta dei suoni grandiosa (ascoltate bene le geniali linee di basso di Yed, i suoni assurdi di chitarra di Mattia e le ritmiche alienanti di batteria di Federico). C’è spazio per la dolcezza malinconica (Gillette), per la vita di tutti i giorni di un Clark Kent che desidera solo Netflix and Chill e invece deve salvare il mondo (Superman), per relazioni pseudo-amorose che si poggiano soltanto su dipendenze scomode (Iride). Poi vabbè, c’è Pianosequenza che ormai è un po’ una hittona senza avere una struttura da hit e se ve la foste persa, mi viene da chiedere dove avete vissuto. In ogni caso Replica è un EP, un piccolo banco di prova per una promettente/in fase di affermazione band italiana, che porta con sé un messaggio chiaro e semplice: il pop si può ancora fare, senza rinunciare alle proprie scelte stilistiche, senza rinunciare all’essere “un po’ fastidiosi”, senza buttare nel cesso la propria persona. Io questo bel voto lo metto di cuore, ma citando Iride vi dico anche che se fosse amore, tu non ti fidare. (Edoardo Piron)
Ascolta: tutto
8½/10
Converge — The Dusk in Us
Ma voi sapete chi sono i Converge? Si? No?! … non m’importa, è uscito il loro nuovo disco e bisogna assolutamente dirne qualcosa. Per quei pochi bischeri che non li conoscono, i Converge sono probabilmente uno dei gruppi hardcore più importanti e prolifici dell’ultimo quindicennio, facilmente riconoscibili grazie al loro timbro sonoro. In primis la voce di Jacob Bannon, che dir straziante e aggraziata risulta ossimorico, ma esatto; dietro le pelli abbiamo Ben Koller, terremotante come al solito, e alla chitarra Kurt Ballou, particolarmente ispirato proprio in quest’ultimo disco, The Dusk in Us. Lanciarsi in un’analisi passo-passo attraverso la giungla di tecnicismi ed intrecci di cui i Converge risultano capaci è fuori discussione per il sottoscritto, ciò che si può fare è , come spesso accade, schematizzare e chiarificare. Tralasciando la solida e imprescindibile base hardcore, le influenze sono molteplici. Già nella prima traccia, A Single Tear, emergono sonorità ed aperture melodiche care al post-rock più sognate e al math-rock più schizofrenico, estremizzato e rafforzato dalla componente intrinseca dell’Hardcore. Queste influenze portano maggior ricchezza rispetto agli album precedenti, segnando, di fatto, un altro gradino superato dai nostri. Diverse influenze che vanno a produrre un risultato unico nel suo genere, un nucleo di coerenza ed armonia al di sotto di un immenso tappeto i suoni distorti a velocità alterne e sregolate. Dall’allungata The Dusk in Us all’irrefrenabile Cannibals, si percepisce il sentimento, un qualcosa di inspiegabile a parole, ma che trova la sua spiegazione nell’ambivalente contrasto insito in tutte le cose . Lungi dal voler apparire superficiale e pressappochista con questa affermazione, il mio intento è situare i Converge nel mezzo di un vortice di emozioni e sensazioni. Sospesi tra un caos dionisiaco e incontrollabile e una stasi salvifica e inattaccabile, loro stanno, con i loro sconfinato bagaglio i espedienti artistici. Arrivati al decimo album non si smentiscono, sfornando un disco che ricorderemo a lungo, leggermente diverso dai loro precedenti capolavori, ma che conserva inalterato il nocciolo della loro arte. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Broken by Light
8½/10
*Gomma — Vacanza EP
Inizio dicendo che Toska non mi aveva entusiasmato granché: in effetti forse è la scena emo italiana a non avermi mai detto niente (a parte Noicomete dei Lantern e poco altro), ma finalmente sentire un gruppo italiano proporre un emo più controllato e musicale all’American Football, invece del rumorismo adolescenziale e scoordinato dei Mineral, che da noi si è tradotto in concerti urlati da 8 minuti in cui nessuno capiva niente — tra musica, testi, tatuaggi in faccia, poghi sconclusionati e gente immobile — sinceramente fa piacere. Soprattutto ora che la scena indipendente italiana ha deciso di scrivere musica che possa piacere anche ai non-adepti, è interessante vedere un gruppo emo spuntare gli artigli e fare concessioni al pubblico generalista: il che non significa farsi scrivere le canzoni da Tommaso Paradiso, Dio ce ne scampi, ma significa portare “la maggior quantità di benessere al maggior numero di persone possibile” come insegnava Adam Smith. I Gomma fanno musica semplice, sincera e diretta e con Vacanza iniziano a far quadrare il cerchio — in dieci minuti, tre canzoni suonate bene, funzionanti e dalla produzione cristallina — che correggono i difetti esibiti dalla prima prova: la band suona più coesa che mai e finalmente Ilaria canta più rilassata, fluida e armonica — in breve, più matura. Speriamo che il timone resti virato in questa direzione per il secondo disco, confermando le aspettative che la stampa italiana sembra aver riposto in loro. (Enrico Del Bianco)
Ascolta: Vacanza
7+/10
Iron Monkey — 9–13
Ritorno in grande stile per gli Iron Monkey, dopo l’abbandono del progetto nel 1999 da parte dei loro membri fondatori; aventi tra le fila un nuovo batterista, questo power trio ritorna sospinto in avanti dai forti venti della Relapse Record ritornando agli antipodi con le loro sonorità, sapientemente sospese tra hardcore e sludge, con una leggera spolveratina di ritmiche stoner. Ma, in sostanza, che cos’ è 9–13? Per essere coincisi e cristallini, lo si potrebbe interpretare come una raccolta delle mirabolanti avventure di un gorilla posseduto da demoniaco furore alle prese con la routine giornaliera di una grande città: sangue, proiettili di sterco e una grossa e grottesca clava. Riuscendo a filtrare il suono graffiante e la lordura dello sludge più marcio ed integrandolo con una carica e una cadenza hc senza mezzi-termini, gli Iron Monkey ci propongono un concentrato di pesantezza sonora puro al 100% . Pesante è l’aggettivo semplice e banale che riassume il disco, perfetta sintesi dei pochi, ma ben impiegati, modelli sonori qui presenti. Destroyer e Toadcrucifier, impietoso tripudio hardcore, servito con contorno di ruggiti animaleschi e tappetto ritmico trita-tutto; the Rope e Moreland St. Hammervortex, ridondanza sludge e riffoni concreti ei tribali. Piccoli frammenti di un puro semplice atto di catarsi animalesca, un ascesi alla rovescia verso la cruda realtà di un primate. Quest’ultimo ci guarda con aria birbante dalla copertina del disco, non resta che seguirlo e vedere dove tutto ciò ci porterà. Un gran bel ritorno per le gli Iron Monkey, che per intransigenza e spirito animalesco rimangono un valido e cristallino esempio per i loro contemporanei. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: ToadCrucifier
7 — /10
King Krule — The OOZ
Dite che è troppo tardi per una piccola recensione? Dite che non ne vale la pena di parlare ancora un po’ del nostro caro Archy Marshall, che ci delizia a piccole dosi e sulla lunga distanza, che ci fa ben percepire lo scorrere del tempo? Sono passati 4 anni da quando compro, nel novembre del 2013, il numero di Rumore con King Krule in copertina: è ancora lì sul tavolo, in sala. 6 Feet Beneath the Moon esce a maggio di quell’anno o almeno magicamente compare nella sezione Scopri di un nuovo e sconosciuto Spotify. Ascolta: un bella botta. Di lì a poco, tra partenze e deliri vari, del disco mi scordo completamente. Lo riprendo dopo un anno: così lo consumo. In quel momento Archy ha 19 anni, io pure: guardo dov’è lui, dove sono io, dove stiamo andando. Aspetto la sua prossima mossa mentre strutturo la mia. Ma siamo sempre in ritardo, e ci vuole un tempo per fare le cose per bene. Poi quest’estate arriva Czech One, dal nulla, una ballata sporca ma tirata e lucida: noto i cambi di direzione improvvisi, il caos che nasce in un momento dall’ordine, fa capolino e poi scompare. Aspetto ancora con pazienza. Poi l’uscita di Dum Surfer, poi Half Man Half Shark, infine l’intero The OOZ, che mi metto ad ascoltare a mezzanotte, appena uscito, in silenzio sul divano, con lo sferragliare degli ultimi tram prima della fine del turno, con gli ammortizzatori della novanta che sfiatano. Vedo lo smog che sale lento dall’asfalto verso il cielo e mi sento già un replicante, dubito della mia umanità (qualcuno mi verrà a ritirare?), il mio Logos è una musica per un’apocalisse, una cerimonia condotta dal King che mi fa scivolare piano verso la mia epifania, la mia fine; il mio punto di incontro è l’incrocio sotto casa, i binari del tram che tagliano la piazza a metà, un barbone affezionato alla bottiglia su una panchina ringrazia per il freddo che stenta ad arrivare. E ora, che è arrivato, la sera non c’è più nessuno. Di notte la piazza piange e c’è un lamento che sale da lontano, un tripudio di sassofoni, una voce rauca, siamo ormai arrivati, prossima fermata La Lune. Il cadetto ha finito l’addestramento, è salito di rango, ha imparato a sparare. Ora può andare a dormire. All’alba del suo ventitreesimo compleanno, ha sbarcato il lunario, ha le copertine, ha l’attenzione. Artista dell’anno, dicono. Miglior artista contemporaneo, dicono. Lui sente solo un peso al petto, e torna alla chitarra. E chiama i suoi amici per fare un giro. E si fuma dell’erba. S’annichilisce un po’ per portarsi sempre avanti, passo per passo: senza scalpore, in silenzio. Fa il suo, così ora può tornare a dormire. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: curre, curre
10/10
*Latente — Monte Meru
I Latente sono nel giro dal 2008 ed io, con molta onestà, ammetto di averli conosciuti solo ora. E devo dire che un po’ mi pento, perché quello che la band dell’hinterland milanese propone è un genere molto personale, che si destreggia tra i primi Ministri e i primi Verdena. Monte Meru è un disco di dieci tracce ben prodotte, intrise di una loro violenza e al contempo malinconia non da sottovalutare, perché sì, oggi fare alternative misto a grunge non è facile, in un periodo in cui i synth stanno in qualche modo sovrastando i chitarroni, ma restare fedeli alla propria linea è sempre onorevole. E se le chitarre si muovono tra riff melodici, accordi sporchi e suoni quasi noise-apocalittici, il cantato è perfetto per il mood del gruppo: grattato, sporco, ma sempre intonato e mai fuori luogo. Così come i testi veri e forti, a volte un po’ troppo ansiogeni (ma non è per forza un male). Insomma, c’è un qualcosa di anacronistico in tutto questo ma ritornare a vivere questo genere di emozioni è sempre bello, fa bene all’anima di chi, come me, è cresciuto sognando band e umori su questa linea. (Edoardo Piron)
Ascolta: Alchimie, Lucido
6½/10
Liam Gallagher — As You Were
Pare che alla fine Liam Gallagher ce l’abbia fatta a sfornare il suo tanto atteso album solista. Dopo averlo ascoltato e riascoltato più volte la sensazione è di non aver perso tempo inutilmente, nonostante si tratti senza ombra di dubbio dell’ennesimo già sentito tentativo di ruggire da parte di un brit pop che proprio non ce la fa a spegnersi definitivamente o a reincarnarsi in qualcosa di nuovo. As You Were supera di gran lunga in forma e spirito entrambi i dimenticabilissimi lavori dei Beady Eye, complice sicuramente l’apporto alla scrittura delle firme più disparate, da Greg Kurstin (Foo Fighters, Adele, Sia) a Andrew Wyatt dei Miike Snow. D’altronde non è un mistero, il Gallagher bravo a scrivere è sempre stato Noel. Lo sforzo collettivo di co-writing non impedisce purtroppo al corpo dell’album di impantanarsi in un eterno alternarsi fra quel già citato ruggito (mah…) rock e la ballad post-oasisiana. Mamma mia quante ballad. Eppure, e sorprendo perfino me stesso nel constatarlo, qualcosa che funziona c’è: l’ingranaggio gira lo stesso nonostante nulla sia degno di nota, e Liam riesce a salvarsi in corner grazie all’appeal decisamente radiofonico di una Wall Of Glass o di una Bold, brani d’apertura che inevitabilmente finiscono per stabilire l’impronta di un disco godibile se preso a morsi qua e là, ma nel suo insieme noioso. (Marcello Torre)
Ascolta: un pezzo a caso.
6 — /10
Majid Jordan — The Space Between
L’R&B canadese targato OVO Sound continua per qualche ragione a convincermi. Saranno i paesaggi notturni a cui si accompagna facilmente, forse quell’aria synthpop un po’ mielosa che si respira: tutti caratteri che fanno breccia dentro quell’angolo melanconico della nostra personalità che a mio parere tutti possediamo. Sicuramente è questa l’atmosfera che pervade il secondo album del duo di Toronto Majid Jordan: prodotto per la maggior parte dagli stessi Majid Al Maskati e Jordan Ullman, The Space Between è un’immersione in sonorità theweekndiane che già avevano fatto le fortune del protegé di Drake con il suo Starboy l’anno scorso. Qui non siamo molto distanti dal lavoro di Tesfaye anzi, probabilmente siamo un po’ troppo vicini: stessa vocalità, ambientazione sonnambula e alticcia, beat licenziosi (il reggaeton di Body Talk si può perdonare) e tanto altro di familiare. I due riescono comunque a cavarsela con un disco sincero, non eccessivamente lungo o forzato e con episodi interessanti tra cui One I Want e My Imagination, realizzati rispettivamente assieme a compagni d’etichetta come il rapper PARTYNEXTDOOR e il duo dvsn. Se avevate apprezzato Hold On, We’re Going Home, successone del solito Drizzy con cui i Majid Jordan si erano fatti conoscere, sicuramente The Space Between non vi deluderà. (Marcello Torre)
Ascolta: Gave Your Love Away, One I Want (feat. PARTYNEXTDOOR)
6½/10
Ne Obliviscaris — Urn
Giunti alle luci della ribalta per aver scelto come mezzo di sostentamento il caro Patreon, i Ne Obliviscaris arrivano alla terza release sulla lunga distanza non lesinando qualità alcuna e regalandoci l’ennesimo candidato all’album metal dell’anno. Nei quarantacinque minuti che compongono Urn troviamo gli stilemi che il gruppo ha sintetizzato nel corso degli anni passati in perfetta e cristallina forma. Dopo la dipartita di Brendan Brown ad inizio anno e l’arruolamento dell’italianissimo Martino Garattoni (già bassista degli Ancients Bards) il gruppo è ora in tour negli states nel tentativo di esportare la loro personale visione del metal estremo. Urn continua sul filone dei precedenti Citadel e Portal of I con una commistione ipercinetica di metal estremo e identità progressiva. Nei sei brani che compongono l’album trova spazio un solo intermezzo, il resto è frammentato in pezzi il cui minutaggio minimo supera la mezza dozzina di minuti. Flamenco, virtuosismi chitarristici e build up con cori indemoniati si intrecciano nel corso delle tracce con una fluidità ed una maestria compositiva incredibile; sebbene tecnicamente siamo già su livelli di assoluta eccellenza nota di merito và alla coppia di voci composta da Xenoyr e Tim Charles, rispettivamente growl e clean in grado di incrociarsi e supportarsi melodicamente nel corso degli duetti. Urn è eccellente sotto tutti i punti di vista e rappresenta, di nuovo, uno dei migliori lavori metal mai concepiti in ambito progressivo nel corso degli ultimi anni. Preso insieme al resto della discografia dei neo zelandesi denota soltanto una tensione minore alla sperimentazione, stavolta abbandonata per far fronte ad un indole più orchestrata ed easy senza però, lesinare in qualità. Ce ne fossero di dischi così all’anno. (Graziano Salini)
Ascolta: Eerye ed il suo duetto chitarra/violino da lacrime agli occhi.
8½/10
Ross from Friends — The Outsiders
Ross from Friends, oltre ad avere lo pseudonimo migliore della storia della musica, è uno dei massimi esponenti della lo-fi house, un genere che nell’ultimo anno è riuscito a sfruttare gli algoritmi dell’internet per crescere e far salire l’hype attorno a sé. Personalmente me ne sono accorto grazie al video di Winona di tale DJ BORING, costantemente sulla mia home di YouTube, e successivamente gli ascolti consigliati di Spotify mi hanno condotto al nostro caro Ross Geller. Se non vi basta questa spiegazione, qui c’è un articolo molto più dettagliato su come i reindirizzamenti hanno reso grande questa nuova corrente. Tornando a noi, dopo aver sentito la hit Talk to Me You’ll Understand ho colpevolmente perso d’occhio il producer, rendendomi conto solo pochi giorni fa del suo disco The Outsiders uscito in agosto. Dico colpevolmente perché si tratta di uno degli album di elettronica più interessanti che ho ascoltato quest’anno, tra sample impolverati, suoni analogici e un’estetica a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Sfido chiunque a non iniziare a muoversi ascoltando brani come Crimson, Romeo, Romeo e The Outsiders. Vi sfido davvero, non è un modo di dire. PS: inizio già ad incrociare le dita perché gli organizzatori del Club To Club prendano in considerazione Ross from Friends per la line up del 2018. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Crimson
8+/10
San Diego — Disco
San Diego si è presentato al pubblico prima dell’estate, facendo girare alcuni brani, caricati su Youtube, nei gruppi Facebook dedicati alla musica italiana, ai meme e all’hype. Un progetto grafico ben definito, che riprende le tanto inflazionate estetiche vaporwave, quindi un sound rallentato, con suoni che vengono dall’italo-disco anni ’80; il tutto fatto per rientrare nell’etichetta indie, quindi canzoni che parlano di amori distratti, situazioni imbarazzanti e surreali allo stesso tempo, che tanto ci fanno immedesimare nelle nostre goffezze. Passata l’estate, poi, è uscito il disco, che si chiama Disco, che passa sotto l’ascolto senza produrre sussulti o qualsivoglia interesse. Forse perché la vaporwave in sé è stata interessante solo nel primo momento, forse perché è estremamente percepibile il manierismo e la ricerca di una formula che piaccia a tutti i costi, o forse semplicemente perché manca un quid, il disco delude. Nonostante l’insieme non tenga, ci sono alcuni pezzi gradevoli, come Meme, o il pezzo con Lo Sgargabonzi, Conchiglie, ma tutto questo non basta per fare qualcosa di veramente notevole partendo da internet, che tante cose buone è riuscito a creare in questi anni. (Andrea Capodimonte)
Ascolta: Meme
5½/10
Sequoyah Tiger — Parabolabandit
Sequoyah Tiger è un nome che nell’underground gira da un po’, ma che personalmente non ho mai veramente approfondito. La conosco di nome da anni per via dell’etichetta per cui pubblica, ovvero la tedesca Morr Music, da sempre focalizzata su artisti islandesi o comunque di un certo genere. Questo genere non si può realmente definire, ma basti guardare gli artisti della Morr per capire l’andazzo: troviamo per esempio Soley, Mùm, Lali Puna, tutti e tre in giro (anche per l’Italia) a portare le relative ultime uscite. Dopodiché possiamo incappare anche in questo Parabolabandit, partorito da Leila Gharib, songwriter and singer with a constantly shapeshifting voice from Verona, Italy — come dice il comunicato stampa. Ed è grossomodo quello che si sente e si percepisce ascoltando questo esordio. Dopo un EP che devo ancora recuperare, Sequoyah Tiger si addentra, attraverso questi 10 brani, nei meandri dell’elettronica, dirottando talvolta verso il pop, talvolta verso il noisey, dando respiro e struttura alle canzoni, così da farle volare ancora più verso l’alto. Esempi eclatanti sono la crasi di Where Am I? (Broadcast incontrano Gotye) e A Place Where People Disappear (Broadcast incontrano Arcade Fire). Un dischetto niente male, da ascoltare con attenzione, pronti ad andare alla deriva, pronti a vedere una ragazza veronese, fortissima, costruire la sua torre di Babele, per poi mostrarcela, sorridere, girarsi e distruggerla. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: Punta Otok, Cassius, Brilliant One
7½/10
Skepta — Vicious
“Theresa knows Britain is mine”: questa frase dal testo di Worst basta e avanza per racchiudere il ruolo di Skepta all’interno della scena grime e più in generale dell’industria discografica inglese. Joseph Junior Adenuga ha 35 anni ed è in giro dal 2006, ma è negli ultimi due/tre anni che è diventato il massimo esponente della seconda ondata del grime, l’ultima vera british invasion. Il valore di Skepta non si ferma comunque a questo: ha portato a Londra Drake e la A$AP Mob, ha influenzato con le sue tute nere il mondo della moda e grazie a quel discone di Konnichiwa ha vinto un Mercury Prize nell’anno di Blackstar di David Bowie. Questo Halloween il rapper è tornato con un EP a sorpresa, Vicious, quasi interamente prodotto da lui e con Lil B, i Section Boyz, A$AP Rocky e A$AP Nast come ospiti. Le premesse erano buone, ma Skepta produttore si auto-cita continuamente e i suoi testi suonano più didascalici del solito. I brani che un po’ si salvano sono No Security, la tamarrissima Worst e Vicious, ma le prime due sono uscite un anno fa e la terza a febbraio. Il resto sembra un freestyle svogliato dopo qualche canna di troppo, specialmente Ghost Ride, dove i due membri dell’A$AP Mob tirano fuori alcune delle loro peggiori barre sopra degli scratch improbabili. Ovviamente Skepta è talmente bravo che anche un disco del genere non è poi così inascoltabile, ma se il Regno Unito è effettivamente suo questo non basta. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Worst
6/10
Weezer — Pacific Daydream
I fan dei Weezer si dividono essenzialmente in due categorie: quelli che adorano la festa surf del primo Blue album e quelli che invece abbracciano la profonda tristezza del secondo Pinkerton. Detto da una persona che ama entrambi, la cosa più deprimente sul gruppo resta il fatto che l’importanza storica e musicale della band si sia fermata nel 1996, mentre il loro output “creativo” non abbia mai accennato a diminuire, in un crescendo orrorifico giunto finalmente al suo acme. I detrattori delle chitarre, che sostengono ogni anno con più veemenza che il rock sia morto, non potrebbero trovare migliore esempio nell’ennesimo lavoro-spazzatura Pacific Daydream — un disco così plasticoso e tirato a lucido da sembrare il prodotto dell’ennesimo burattino di X-Factor. Già dalla prima canzone alla voce sembrava esserci un Harry Styles, un Sam Smith o qualche altro manichino intercambiabile — peccato che quella voce artificiale e già sentita mille volte si sia rivelata proprio quella del buon vecchio Rivers Cuomo, ormai né buono né rispettabile: acconciatosi da giovane come il vecchio di Morte a Venezia, il suo tentativo di assomigliare ad Ariana Grande è tanto ridicolo e disgustoso quanto sembra… Che delusione allora si prova confrontando questo album di mestiere (ed è il mestiere più antico del mondo) con quei due classici degli anni ’90 che pochi mesi fa hanno preso un doppio 10 retrospettivo su Pitchfork, a suggello della propria miracolosità. Se il rock non è ancora morto, purtroppo la demenza senile si sta facendo sentire — e va bene che Rock’n’roll can never die, ma è sempre la stessa canzone a ricordarcelo: It’s better to burn than to fade away. (Enrico Del Bianco)
3/10