MEGARECENSIONI Vol. 13 — Novembre 2017 Pt.2

Take me back to November, take me back to November, Hawaiian shirts in the winter, cold water, cold water

La Caduta
La Caduta 2016–18

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A.V — Hyperdub Presents: Diggin’ in the Carts.

Diggin’ In the Carts è una dichiarazione d’intenti. Papà Steve Goodman e Nick Dwyer realizzano un’ antologia di cosa la chiptune era in origine prima di sfondare come il punk nel mondo dell’elettronica. Essa corrispondeva alla sonorizzazione, temi per livelli colorati e difficili in grado di acchiappare il giocatore con melodie indimenticabili e ritmiche alle volte forsennate affinché altri gettoni/minuti venissero usati sul titolo in questione. I videogiochi presenti nel roster della compilation viaggiano tra il leggendario (Gradius, Actraiser, Liquid Kids, Thunderforce IV) ed il misconosciuto (Mahjoung Touhaiden e Alchaest, ad esempio) animati da nomi più o meno storici come Yuzo Koshiro o il Konami Koheiha Club. Ciò che fa brillare il disco è il suo valore storico assoluto, diventando un bignami di pezzi ed autori che in un modo o nell’altro hanno virato le fondamenta di un media intero. Dimostrazione di come all’epoca le software house possedessero vere e proprie resident band dal fortissimo spirito identitario. Taito che smanettava con la fusion dei suoi Zuntata o il Konami Kuheiha Club e il loro metallo neoclassico ad onde quadre sono due degli esempi rintracciabili all’interno dell’antologia. La valutazione di questo disco si basa su canoni diversi, di natura prettamente storica. L’ascolto spassionato è consigliato a curiosi e non per l’incredibile valore temporale più che per la qualità (estremamente alta a mio avviso) della musica. Goodman e Dwyer hanno raccolto e raggruppato trentaquattro pezzi in grado di far immaginare, senza problema alcuno, quella stanza in cui tutti abbiamo avuto una console anni ed anni fa. (Graziano Salini)
Ascolta: A Planet of Plants, BGM3, King Erekiman, Waltz of Water and Bubbles

s.v.

Cali — Kid Soogo

Non ero riuscito ancora a parlarvi di Cali, rapper padovano da tenere d’occhio perchè forse l’unico fuori dagli schemi (infatti Cali se ci leggi sentiamoci che volevo proporti delle cose) perché sentendo il suo L’uomo con due cuori, disco di sedici tracce con un mix di hip hop, trap, soul e funky che mi sono ricordato di un vecchio chicopiscopo. In ogni caso, prima di recuperare questo LP, potete dare un orecchio a questo Kid Soogo, EP di 7 pezzi uscito un paio di settimane fa e coprodotto con Strage. Cali smooth criminal srotola le storie di tutti i giorni tra scazzi, nervi tesi e amori non corrisposti, sopra suoni liquidi e caldi. Tutto sembra molto suonato, come se fosse registrato in presa diretta e questo eleva la resa di canzoni come Suonerà la sveglia o Liquid Soogo. Il passo successivo è aggiungere un po’ di pepe ar culo, alzare i bpm (vedi La filastrocca dello stronzo), lavorare di nostalgia e sintetizzatori (Palm Springs 1996) e il gioco è fatto: Cali ci rapisce definitivamente perché rielabora con particolarità e personalità la matassa hip-hop (arrivi e partenze) dando nuova linfa e letteralmente nuovi suoni. Dieci punti perchè Cali è giovane vero e si trova la sua strada, altri dieci perché invece dell’autotune sperimentiamo con altro, perché ci sono violini e fiati, perché c’è cura e rispetto, ricerca musicale e linguistica. Cali trasforma, plasma, fa un po’ quel che vuole, è giovane&selvaggio e io non ho altro da dire: forse è meglio che diate un ascolto. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: tutto

7½/10

Charlotte Gainsbourg — Rest

Non deve essere facile essere figli d’arte, specialmente se tuo padre era Serge Gainsbourg e tua madre è Jane Birkin e tu di mestiere fai sia la cantante che l’attrice. Eppure Charlotte Gainsbourg si è sempre distinta per il suo talento personale, lontano dall’ingombrante eredità dei genitori. Il suo ultimo album, Rest, è l’ennesima conferma. La prima volta l’ho ascoltato più per noia che per interesse, ma mi ha subito stupito per l’eleganza con cui è confezionato ogni brano, 11 tracce che a livello di struttura potrebbero rappresentare un canone della canzone pop. C’è qualche momento eccessivamente legato alla tradizione sonora francese (Kate e Dans Vos Airs), ma in generale la parigina sembra più ispirata che mai quando canta delicatamente sia in francese che in inglese sui synth di SebastiAn. Il produttore di casa Ed Banger è fondamentale per far sembrare Rest una sorta di versione più pop e più soft dell’ultima ondata di French Touch dei suoi colleghi (Justice e Breakbot su tutti). Charlotte Gainsbourg si inserisce perfettamente in questo contesto e dal flanger dei primi arpeggi di Ring-a-Ring O’ Roses, tra l’altro brano di spicco del disco, si capisce di essere davanti ad un album che merita di essere ascoltato attentamente. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Ring-a-Ring O’ Roses

7+/10

Foo Fighters — Concrete and Gold

L’ottavo disco, il documentario, il tour poi la pausa. Poi la smentita, il singolo, il video e il ritorno ufficiale con Concrete and Gold. Se c’è una certezza in questa vita, è che Dave Grohl non riesce mai a stare fermo. È più forte di lui. Se c’è un’altra certezza però, è quella che che i Foo Fighters non saranno mai una band di culto, non lasceranno mai veramente un segno nella storia della musica. Sono da sempre in quella imbarazzante posizione tra l’essere una grande rock band — una delle ultime rimaste in circolazione, così si dice — e un gruppo mediocre intrappolato nella propria monotonia (come molte altre del panorama internazionale) e segnato dall’ombra imponente di un personaggio come Grohl. Vivere in una situazione del genere produce quindi alti e bassi. E il nuovo, nono disco, si posiziona sopra la metà nella scala di valutazione; viste le premesse, già poco non è. Concrete & Gold rappresenta quel misto tra sperimentazione e conservatorismo che, bene o male, caratterizza da sempre la band. Troviamo quei solidi (ed estenuanti) singoli rock che ti si pietrificano nella testa, come Run e The Sky Is A Neighborhood, vicino ad oggetti di maggiore complessità e interesse come La Dee Da, Dirty Water, Sunday Rain, l’omonima Concrete and Gold. In quest’ultime, si scorgono, per la prima volta, influenze dal classic rock dei ‘60/’70, che rappresentano uno degli aspetti più stimolanti del disco. Erano sei anni, dai tempi di Wasting Light — la migliore opera dei FF in assoluto — che non si rimaneva felicemente colpiti da alcuni brani di Grohl e soci. Meglio di così, probabilmente, non si poteva chiedere. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: La Dee Da, Dirty Water, Sunday Rain

7 — /10

Gastone — s/t

Non avevo previsto di ritrovarmi a scrivere ancora di un amico, non pensavo di avere modo di raccontarne ancora un pezzo di storia, di portarla avanti. Eppure è così, Lenni-boy: quest’anno dispari che si sta per chiudere ci ha portato una matassa di vita non indifferente, tra delusioni semi-previste e novità non del tutto inaspettate. O no? Comunque, di mezzo, c’è il lavoro quotidiano, l’esistere nell’attimo: un caffè in un giorno di pioggia, noi che si gira senza ombrello nonostante Milano sia l’unica città che pecca per mancanza di portici, davvero sinceri in quel che diciamo in quel che facciamo, se si dedica il tempo a sogni e passioni da qualche parte si finirà.
Gastone è il fratello di Bertu, il cugino di Paperino, ma è senza fortuna. Cammina e scodinzola, anche se è triste, tendenzialmente d’inverno, sul lungomare privato di lettini, ombrelloni e bagnini. Gastone crede nel vero amore, ma poco lo trova, poco lo applica. Gastone è un coacervo di Marche che non son marche, groviglio di strade nella terra di nessuno, lingua di terra contesa e libertaria. Gastone ha lasciato da parte il romanticismo, ha abbandonato la meta per la cruda fisica dell’amore. D’estate mangia una piada all’ombra di un pino mentre maledice il caldo e le ragazze strane, e mentre maledice la sua prematura crisi di mezz’età (e santifica la sua caparbietà) c’è una parrucca blu che lo guarda: visioni di champagne e mari di rose e corpi coperti di stelle. Allora Gastone moltiplica tutto per sette, mentre ascolta Bertu costruire l’ultimo arpeggio — Bertu che ogni tanto alza lo sguardo per salutare le onde (lo fa con la mano). Gastone la sera ha una luce di malinconia perché ripensa sempre a quella volta in cui entrò con Lilli nella foresta e ne uscì senza. Gastone la sera guarda Bertu e scodinzola, ma l’espressione del suo muso contempla sempre solo le sopracciglia all’ingiù, da quando Lilli non c’è più. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: tutto

7½/10

Godflesh — Post Self

I Godflesh sono, senza ombra di dubbio, una delle incarnazioni musicali più alienanti e sonoramente pesanti degli anni ’90, fautori di una musica dalle forti componenti industrial, ritmicamente dissonanti e splendidamente distruttive, unite ad una altrettanto forte ispirazione hardcore/sludge. Un connubio, questo, fondamentale per l’evoluzione della musica generalmente denominata “metal”, la quale mostrerà sempre più compiacenza ad influenze sonore a lei estranee. Quelle della musica elettronica, con i Godflesh, raggiungono i risultati più produttivi; risultati che trovarono una chiara definizione nei precedenti sette album del progetto di Justin Broadrick, fondati su un definito numero di espedienti compositivi che nel corso del tempo rimangono pressoché invariati, riuscendo a non cadere mai nella banalità. Con Post Self i Godflesh si sono spinti più avanti, sottolineando sin da prima dell’uscita del disco un cambio di rotta riguardante le sonorità. Quest’ultimo non risulta però netto, sia chiaro. L’abrasività e la pesantezza sonora son rimaste, Broadrick non ha rinunciato al lato più “metal” del suo progetto; allo stesso tempo, però, lo arricchisce inserendo sonorità legate alla scena post-punk/synth-punk degli anni ‘70/’80. In pezzi come No Body riemergono più chiaramente i vecchi Godflesh: growl demoniaco, chitarre dissonanti, batteria metallica, stridente e ovattata e un basso mastodontico. Poi emergono l’ambient e la dark wave, in brani come Be God, con un uso del synth rivolto verso tinte oscure e uno scream distorto e disorientante; subito dopo l’album riesce a spiazzare di nuovo, con Cyclic End, che mostra al massimo il lato post-rock, quasi shoegaze, che Broadrick non ha mai nascosto in altri suoi progetti. Con Post Self i Godflesh si sono evoluti e superati, dimostrando una sapienza compositiva che ha pochi eguali tra le uscite degli ultimi tempi. Riuscire a reinventarsi, o meglio ancora, a rileggere il proprio bagaglio sonoro ed emotivo sotto una lente più ricercata e distesa, senza rinnegarlo, è un risultato indefinibile. La nostra generazione ha bisogno di album di questo tipo, necessari per esplorare ed apprezzare la sotterranea movenza sincretista che caratterizza la scena musicale estrema dei giorni nostri, capace, in alcuni casi, ad imparare e assimilare la Tradizione precedente. Post Self è un album inestimabile. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Cyclic End

8½/10

*His Electro Blue Voice — Mental Hoop

Da quando ho incrociato Maple Death Records, alla fine dello scorso anno, non sono più riuscito a staccarmene. Vuoi o non vuoi, sarà perché ha fatto uscire, finora, solo ottimi dischi. Il MDR020 è a opera di His Electro Blue Voice e si chiama Mental Hoop. Il nome non risulterà nuovo a tanti: HEBV è in giro da diversi anni e dopo un primo LP di quattro anni fa e il magnifico Split con Havah, arriviamo a questo secondo disco acido e totalmente fuori di testa: fischi, fuzzoni, sferragliate dark e tanto tanto rumore. Un salto mentale nel vuoto post-punk che si viene a creare con Scum Rat e prosegue in Jaws, Mental Hoop mi sembra la deriva del mondo, l’apocalisse dietro l’angolo, riuscire a possedere un genere musicale tanto da modificarlo, riesumare qualcosa di antico e di conosciuto per plasmarlo e creare qualcosa di nuovo. Diventa naturalmente piacevole riconoscere, nell’ascolto, i vari rimandi: Crystal Mind ha il passo della cavalcata punk, ma c’è qualcosa tra le righe e i riff che emerge, dandole profondità inaspettata e luce nuova; il divertissement di Earthworm che ci accompagna verso la lunga e psichedelica Onieut, suite lisergica che chiude il cerchio. Mental Hoop riesce a parlarci, a comunicarci un presente completamente distopico e bipolare, chiuso in se stesso, fatto di scenari sonori cupi e inauditi, a ricordarci che il tempo scorre veloce e che se le cose stanno peggiorando, beh, c’è da tirarsi su le maniche, incanalare la rabbia, distruggere (ricostruire?). (Pietro Giorgetti)
Ascolta: Onieut, The Wizz, Crystal Mind

7½/10

Katla — Mόðurástin

Si sa la vendetta è un piatto che va servito freddo e in alcune occasioni le lame si affilano con pazienza e cura per impedire al nemico di scamparla. Quando la discussione raggiunge un livello incontenibile compare il conflitto e quest’ultimo non porta mai buone conseguenze. Ce lo hanno insegnato i Sόlstafir, o meglio, ce lo ha dimostrato il perseverante genio di Gudmundur Oli Palmàson. Dopo il brusco allontanamento dalla formazione ufficiale dei Sόlstafir i riflettori erano puntati dritti su di lui e fino ad ora avevano solamente proiettato ombre tetre. Lo sventurato Gudmundur tuttavia non è di certo uno sprovveduto, macchinando tra luce e ombra ha pianificato la sua rivincita. Appoggiato da Einar Thorberg Gudmundsson ha scritto e inciso un disco strepitoso dove il gelo dei ghiacciai e il bollore lavico dei vulcani si scambiano la scena vicendevolmente. Mόðurástin intende affrontare gli ultimi lavori dei Sόlstafir a muso duro sullo stesso campo senza assi nella manica. Si tratta sostanzialmente di un disco di metal atmosferico, di quelli che non sarebbero potuti essere concepiti fuori dall’Islanda. Il suo punto forte è il contrasto che si avverte ascoltando l’album nella sua totalità in cui il passaggio frenetico dal black metal al rock ’n’ roll ci sballotta tra lava e iceberg. Il caldo infernale sprigionato dalla title track viene immediatamente seguito dal gelido bagno abissale di Kul. Ma dopotutto l’intera track list segue questa filosofia che risulta indubbiamente vincente. Gudmundur Oli Palmàson pare sia arrivato, per così dire, ai ferri corti con i suoi ex compagni facendoli vacillare dal loro trono, una silenziosa vendetta si è compiuta in terra d’Islanda. Mόðurástin è un disco che chiunque dovrebbe almeno provare ad ascoltare con attenzione, è un lavoro pieno di sfumature e di anfratti in cui l’ascoltatore può infilarsi per trovare chissà cosa. Una delle ultime sorprese che questo sfavillante 2017 ha deciso di consegnarci. (Matteo Sputore)
Ascolta: tutto il disco

7½/10

King Gizzard & The Lizard Wizard — Polygondwanaland

I King Gizzard & The Lizard Wizard sono instancabili macchine sforna-dischi: chi ha ancora dubbi dopo l’uscita del quarto dei cinque album annunciati per il 2017? La vera domanda è: come riescono questi australiani a progettare ogni nuova stramberia con una tale cura da sfiorare il maniacale? Polygondwanaland si apre con la colossale Crumbling Castle, che dà il via ad un trip dalle tinte epiche, per non dire leggendarie; il tutto è condito dagli arabeschi misticheggianti delle chitarre e dalle progressioni cosmiche dei synth (come in The Castle In The Air). Stu Mackenzie e soci ci hanno abituato da tempo a questi deliri allucinatori: se un momento prima si è avvolti da nebbie flautate basta un attimo e si è teletrasportati à la Rick & Morty in mondi geometricamente asfissianti come quelli di Tron (Loyalty, Horology). Ai fedelissimi del gruppo il disco non suonerà così audace rispetto allo sperimentalismo microtonale del Flying Microtonal Banana di febbraio (seguito alcuni mesi dopo da Murder of the Universe e Sketches of Brunswick East): nonostante infatti la “scossa” data non sia quella di precedenti lavori heavy come I’m In Your Mind Fuzz (2014) e Nonagon Infinity (2016), esso si conferma un più che discreto album psych-rock, nella (buona) media della produzione KG&TLW. Apprezzabilissima anche la sua formula di lancio: la band lo ha reso disponibile gratis fin da subito assieme agli artwork e ai master perché chi volesse potesse stamparselo autonomamente (si può scaricare dal sito ufficiale), dichiarando su Facebook amore incondizionato verso i propri fan: “We do not own this record. You do. Go forth, share, enjoy”. Possiamo star certi che se i nostri sette eroi continueranno con questi ritmi prima o poi ci scapperà il capolavoro. La saga del mago lucertola intanto continua. (Marcello Torre)
Ascolta: tutto e tutto d’un fiato, senza fermarsi alla opening track.

7½/10

Lorenzo Senni — XAllegroX/The Shape Of Trance To Come

Ormai sappiamo tutti chi sia Lorenzo Senni e della grande rivoluzione sonora che sta portando nel campo della musica elettronica mondiale. Il nostro genietto è dentro la squadra di Warp e, dopo lo splendido album Persona, è tornato a fine settembre con un EP di due tracce XAllegroX/The Shape Of Trance To Come. Undici minuti in cui siamo in grado di capire perché ad oggi è uno degli artisti più in forma e capaci del momento, sia dal vivo sia su disco. Ispirandosi al sound della elettronica rave mista alla trance Lorenzo Senni riesce a ricreare atmosfere ultraterrene, che ci portano in altri universi. Senza una sezione ritmica tradizionale i brani scorrono su costrutti complicati e intelligenti che non negano la possibilità di muoversi a tempo, proponendo semplicemente qualcosa di straordinario. La musica del Lorenzone nazionale è difficile da descrivere a parole ma facilissima da amare: un solo ordine arriva da me per voi, ascoltate ascoltate ascoltate. (Edoardo Piron)
Ascolta: tutto

8/10

Macklemore — GEMINI

Quel biondiccio irlandese di Benjamin Haggerty aka Macklemore era da un sacco di tempo che non si faceva vedere e, a dirla tutta, un po’ ci stava mancando. Dopo la nascita della prima figlia e due anni vissuti da semplice papà lontano dai riflettori, il nostro amico è tornato con un nuovo disco d’inediti, GEMINI. E siamo tutti contenti della notizia, peccato però che le aspettative sono state tutto deluse (o quasi).
Macklemore decide di rimettersi in proprio, ma senza Ryan Lewis, l’aspetto musicale ne risente parecchio. Nella loro simbiosi c’era la sintesi di due personalità musicali opposte ma affini: Macklemore era il mattatore, Lewis il regista ed entrambi si completavano a vicenda, dando vita a un loro versione molto colorata e funky dell’hip-hop. Senza Lewis come producer, rimane certamente l’aspetto divertente e scanzonato interpretato dal rapper, ma manca quel disegno olistico che alzava l’asticella della qualità. E in GEMINI, questo, si sente fin troppo. Macklemore gioca a fare il burattinaio, con scarsi risultati: in un totale di 15 brani, un coacervo di featuring, solo in uno (Ten Million) corre da solo e, scherzo del caso, è anche migliore. La tattica è molto semplice: nel tentativo di staccarsi dallo stereotipo del rapper un po’ fuori luogo, cerca di mostrare i muscoli cimentandosi nelle più varie sfumature del genere. E nel farlo, usa gli altri artisti come rampe di lancio, sfruttando caratteristiche (e fama) di ognuno. Con Kesha e Skylar Grey aggredisce la classifica Billboard a suon di banali ritornelli pop, con Lil Yatchy e Offset si avvicina in malomodo al mondo della trap, con Reignwolf ripropone quei mash-up rap/rock che sono nella maggiore forzatissimi. Rimane sui suoi lidi invece in tracce come Ain’t Gonna Die Tonight, Church o Excavate, e anche se i risultati non sono terribili, alla lunga quella formula inizia a stancare. Insomma, ci vediamo alla prossima Mac. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: Ten Million

5/10

Mastodon — Cold Dark Place EP

La pubblicazione di nuovo materiale da parte dei Mastodon, a distanza di appena sei mesi dall’uscita del settimo disco Emperor of Sand, è stata una piacevole sorpresa. Sia perché nel corso della loro lunga carriera, i quattro non ci avevano mai abituato a questi ritmi creativi, sia per la qualità compositiva presente in questo nuovo EP. Cold Dark Place infatti è un interessante esperimento: sotto la guida del lead guitarist Brent Hinds, autore principale del disco, i nostri ritornano nei territori progressive già esplorati nel capolavoro Crack the Skye, ma sotto differenti spoglie. Vengono diminuite le lunghe e tenebrose fasi eteree in favore di arpeggi più allegri e melodici — grazie anche alla presenza delle miglioratissime doti canore di Brann Dailor — e lasciata da parte, nel complesso, la cattiveria e la durezza dello sludge in favore di ritmi stoner rock più puliti, ordinati. La novità principale di questi nuovi quattro brani è il ruolo egemonico della vena country di Hinds: già parte importante del suo essere — basti pensare a come ogni riff/assolo del nostro sia figlio di una impostazione da banjo — in Cold Dark Place permea ogni singolo istante di musica, creando una sublime maglia intrecciata di metal raffinato. Se questi sono i risultati, allora i Mastodon stanno davvero tornando a prendersi sul serio. E questa non può essere che un’ottima notizia. Nota di merito, infine, per la notevolissima copertina curata dall’artista Richey Beckett. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: dura 20 minuti, ascoltalo tutto dai, non fare il pigro

7+/10

Protomartyr — Relatives In Descent

Con The Agent Intellect due anni fa avevamo pacificamente archiviato la pratica “consacrazione dei Protomartyr”. Cosa ci aspettavamo da Relatives In Descent, quarto album del quartetto di Detroit?
La possibilità più auspicabile era un’ulteriore crescita e in Relatives Of Descent quella si può ammirare incantati. Sono tornati più complessi, più vari e dinamici, senza perdere l’impatto da assalto, sonoro e verbale.I testi filtrati dal caleidoscopico immaginario politico, sociale e letterario di Joe Casey, restano un unicum. L’album, scritto all’indomani dell’elezione di Trump, evoca la sua presenza in tutto l’album. Dalle “Vile trumpets” di A Private Understanding alla torre assaltata nella devastante Up The Tower (“Defenestrate the king”, all’urlo di “throwm him out”), fino a Don’t go to Anacita dove un novello Nick Cave canta nei Sonic Youth lo squallore di una città di zombie anti-abortisti, bigotti, razzisti.
RID è un album incentrato sull’impossibile ricerca della verità (ridotta a sorellastra), sul disorientamento di convivere con i dubbi che ne conseguono. Meno Detroit-centrici rispetto ai lavori precedenti, i Protomartyr sembrano oggi più che mai a loro agio nel trovare soluzioni per mantenere accattivante un suono di chiara matrice post-punk (si sente forte la lezione dei classici: Joy Division, Pere Ubu, Wire su tutti). Un suono che viene però affinato, strutturato, aggiornato, ampliato e resta comunque inconfondibile e personale. Le atmosfere di RID sono angoscianti, gelide e scure, pervase da una claustrofobia senza compromessi, condotte da uno sguardo tagliente, amaro e sarcastico sull’America contemporanea. Si esplorano scenari macabri e assurdi (ci sono pure cavalli parlanti!), dove solo a tratti fa capolino una luce fioca, come nella maestosa Night-Blooming Cereus. La sezione ritmica, secca e nervosa come da manuale, è il telaio sopra cui le chitarre in minore di Greg Ahee frustano (la potente Caitriona, l’inno antipatriarcale Male Plague), colorano (Windsor Hum), aggrediscono e regalano sfumature noise, psichedeliche e quando serve liquide e dolenti (Half Sister, The Chuckler).
Niente di più lontano dagli indie-fighetti i Protomartyr: Joe Casey con il suo look trasandato da insegnante di matematica degenerato, giacca, pancetta, birra e sigaretta sempre in mano, dietro al microfono si trasforma in un performer travolgente e la sua poetica lo colloca fra i songrwriter più visionari della sua generazione (che poi sarebbe quella precedente, visto che ha dieci anni più dei suoi compagni di band). La sua voce baritonale, frulla insieme Nick Cave, Matt Berninger e Mark E. Smith che hanno bevuto e fumato troppo, declama sfiducia e tuona disagio, inchiodando l’ascoltatore.
Un album politico, vitale, attuale, ispirato. Diamante sporco di una band in ascesa formidabile. (Andrea Bentivoglio)

9/10

Quicksand — Interiors

Di ritorni sulla scena dopo anni di assenza ce ne sono stati parecchi e ormai non stupiscono più di tanto, ma con i Quicksand la cosa è peculiare vista la loro più che ventennale pausa di riflessione, ventidue anni per l’esattezza. I più ferrati con la scena post-hardcore anni ’90 forse li ricorderanno per il loro Slip, del 1993, che rappresenta un bellissimo esempio di quella peculiare espressione musicale, fiorita in territorio americano. Facendo il punto del discorso, il post-HC può essere visto come il frutto della sperimentazione sonora di artisti dediti inizialmente a sonorità propriamente hardcore. Questa sperimentazione trova i maggiori influssi dal post-rock, o più in generale da sonorità ricercate, tendenti all’atmosferico e spesso accompagnate da una perizia tecnico-esecutiva più ricercata e sperimentale. I Quicksand sintetizzarono questo approccio sin dai loro primi album e con Interiors il lato più propriamente “post” emerge cristallinamente, lasciando solo sul sottofondo delle sfumature hardcore, che in ogni caso si fanno apprezzare. In primis la produzione è trasparente e pulita, riuscendo a mettere ancora più in evidenza le sognanti melodie delle chitarre, che come su Cosmonauts si rivelano a dir poco struggenti, e la cristallina voce di Walter Schreifels, che non ha perso il suo smalto nemmeno dopo vent’anni. In poche parole, Interiors è un album post-hardcore, molto “post” e poco HC, debitore molto di più alla corrente dell’alternative rock, ma che sotto sotto conserva anche un lato più cadenzato e incisivo, come su Fire this Time e Sick Mind. Per concludere, non posso che consigliare questo album a tutti, vista la sua fruibilità, digeribilità e semplicità; un album leggero e discreto, che sicuramente non lascerà chissà quale segno profondo nella storia delle uscite musicali recenti, ma che riesce a soddisfare sotto i punti di vista della resa sonora e delle scelte artistiche. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Cosmonauts

7/10

Sassy 009 — Do You Mind EP

Do You Mind si apre con Summin’ You Up: la nebbia, delle voci sconnesse che si intrecciano e una frustata finale di distorsione. Subito dopo torna la nebbia e da lì esce fuori il beat ossessivo di Pretty Baby, un singolo ascoltabile sia prima di andare a dormire che strafatti nel club. Nessun album uscito quest’anno ha un’apertura così coinvolgente e la cosa più sorprendente è che delle Sassy 009 non si sa quasi nulla: sono tre ragazze esordienti di Oslo — Sunniva, Johanna e Teodora — che fanno una via di mezzo fra trance e house, fra dancefloor e sperimentazione, con qualche linea vocale che si ripete all’infinito. L’intero EP va sentito tutto in una volta ed è così bello che ad ogni ascolto si spera che dopo la quinta ed ultima traccia ci sia ancora dell’altro, qualche pezzo nascosto a sorpresa. Purtroppo l’unico modo per farlo accadere è selezionare il repeat e farsi assorbire in un ciclo mistico. È un gran momento per la musica elettronica e soprattutto è un gran momento per la musica elettronica europea, dalla Norvegia continuano ad arrivare giovani artisti con un potenziale devastante. Per tutti questi motivi ascoltare un disco come Do You Mind, per quanto breve, mi fa venire voglia di essere ottimista per il futuro della musica. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Summin’ You Up / Pretty Baby

8+/10

Satyricon — Deep Calleth Upon Deep

L’attesissimo ritorno dei Satyricon dopo l’omonimo album li vede continuare ad avventurarsi in un black minimale e sinfonico. Pur conservando il sound e le composizioni scarne e melodiche che negli ultimi tempi caratterizzano il gruppo Deep Calleth Upon Deep è pieno di piccole chicche che, pur rendendo inconfondibile la mano di Satyr, rappresentano una piccola svolta o comunque l’inizio di qualcosa di nuovo e (viceversa) la fine di qualcosa di vecchio. Il timido uso del mellotron è solo uno dei piccoli particolari che rende il nono album della band norvegese unico nella carriera dei Satyricon. Che questo nuovo percorso si apprezzi o meno al disco va riconosciuto un certo pregio su tutti i fronti. L’epicità viene marcata dalla presenza del cantante d’opera Håkon Kornstad che riesce a far risultare ancor più la solenne pesantezza delle composizioni. La struttura e le scelte stilistiche della band rendono necessari molti ascolti per riuscire a cogliere tutte le sfumature contenute in Deep Calleth Upon Deep. Come detto prima il disco è essenziale, non ci sono suoni ricercatissimi o un’infinità di fronzoli mutuati a semplificare l’ascolto. Tutto è spigoloso, rude, cavernoso, disossato per lasciare viva la polpa. Satyr & co. Hanno dissezionato con una maestria chirurgica ciò che era rimasto della band per mostrarne i tratti essenziali. Se siete fan dei Satyricon e avete avuto modo di seguirli Deep Calleth Upon Deep non vi deluderà, se così non fosse i punti forti dell’album vi si ritorceranno contro e ve lo faranno odiare. (Matteo Sputore)
Ascolta: The Ghost of Rome

7/10

Sega Bodega — SS (2017)

Sega Bodega (lo so, è un nome un po’ infelice se letto all’italiana) è uno dei dj/producer più interessanti della scena londinese. Questo artista di origine cilena e irlandese ha già pubblicato due album e diversi EP, tra cui il cattivissimo Ess B all’inizio di quest’anno (qui ne trovate un pezzo). SS (a proposito di cose spiacevoli da leggere) è invece un album intero bello lungo, secondo capitolo del suo esordio SS (2015). Come quest’ultimo l’ispirazione arriva dalla musica per il grande schermo; SS sta infatti per Soundtrack Series ed è anche il titolo di una serie di programmi radiofonici che il dj ha presentato sulla ben nota NTS Radio. Ogni pezzo ha il titolo di un film e ne rivisita la colonna sonora: ci sono le versioni acide e destrutturate dei suoni di pellicole come Alien, Ghost, The Tree of Life, Vita di Pi e tanti altri. Al di là del riferimento alla settima arte, con i suoi archi e i suoi fiati, è molto difficile spiegare che genere suoni Sega Bodega; in mezzo c’è un po’ di tutto dalla techno alla trance, dal post-dubstep all’IDM, mischiati con bassi violenti e ritmi irregolari. Non è l’album più scorrevole e leggero che potete ascoltarvi, ma si tratta di un lavoro abbastanza unico nel suo genere. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Stalker

7/10

Tame Impala — Currents B-Sides & Remixes

Durante l’estate di due anni fa usciva un dischetto chiamato Currents, destinato a diventare (imho) il miglior album del 2015, nonché il miglior lavoro dei Tame Impala. Surfando — da bravo australiano — l’onda d’urto generata da Random Access Memories dei Daft Punk, Kevin Parker era riuscito a rinnovare il suono del suo progetto, togliendogli parte della psichedelia classica e aggiungendogli un groove che pochi dischi-con-chitarre hanno avuto negli ultimi anni. Si dice che per scrivere e registrare Currents Parker si sia isolato dal mondo intero e che, nonostante il lavoro perfezionista ai limiti del paranoico, anche dopo la sua uscita c’erano molte che cose che avrebbe voluto cambiare. Non c’è quindi da stupirsi se per ascoltare tre “scarti” del disco abbiamo dovuto aspettare due anni, ed è lecito supporre che l’artista ci abbia rimesso mano prima di condividerli con noi. Se Powerlines con i suoi synth ciccioni è un pezzo strano e meno orecchiabile per gli standard a cui siamo abituati, List of People (To Try and Forget About) e Taxi’s Here sono due singoli della madonna, quasi ai livelli degli effettivi singoli usciti da Currents. La sensazione in generale è che questi tre pezzi siano un filo conduttore tra i primi due dischi della band e la rivoluzione del terzo album: nonostante non avrebbero sfigurato come lati A si sentono ancora i suoni di Innerspeaker e Lonerism. Il remix dei Soulwax (bomba) era già in giro da due anni, mentre quello di GUM è abbastanza inutile. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Taxi’s Here

6½/10

Unsane — Sterilize

Post-hardcore e noise rock ritornano alla ribalta con gli Unsane, un power trio americano dedito da anni ad una ragionata e costante opera di demolizione sonora. Un sound, quello degli Unsane, che non ha subito modifiche di alcun tipo nel corso dei diversi album, ognuno dei quali è un puro e semplice mattone che compone la loro mastodontica carriera. Otto album, tutti belli, per carità; uno di più, l’altro di meno (il migliore, per mio modesto parere, rimane Scattered, Smothered & Covered), ma sotto sotto, diciamolo, è la stessa minestra che viene riscaldata. Lungi dal voler denigrare il loro lavoro nuovo prodotto, riducendolo ad una brodaglia insipida, vorrei mettere in luce unicamente la sua uniformità, totale, con i precedenti lavori. Sterilize sotto questo aspetto rispecchia il suo nome, è di fatto sterile, infecondo dal punto di vista di attrattiva compositiva. Ma chiediamocelo, sinceramente: per un gruppo come gli Unsane, è veramente così importante? Se da una parte la struttura sonora regge, costruita sui giri di basso del grande Dave Curran e sulle dissonanze martellanti di batteria e chitarra, dall’altra, in alcuni punti, i meccanismi iniziano ad incepparsi, a perdere coesione e impatto, riuscendo, come in We’re Fucked, ad annoiare. Forse dovuto ad un eccessivo peso della componente occludente dello sludge, che sembra in questo album rallentare la carica del loro lato schiettamente hardcore. Concludendo: è un album da ascoltare? Se siete ancora estranei al genere, o più precisamente estranei agli Unsane, si. Sterilize può fungere da introduzione al loro sound, che negli album precedenti conserva più intonsa la sua cattiveria. Se invece siete già rodati e già li apprezzate, potete tranquillamente saltarlo, non vi perdete nulla di nuovo. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Factory

6+/10

Warias — Now It’s Never

Psichedelia rotonda e circolare. Musica oltre ogni confine nazionale. Un bel mix quello dei Warias, che unisce un rock psichedelico in stile Brian Jonestown Massacre a un mood quasi world-music. Il duo veneto, composto da Matteo Salviato (bassista live dei The Soft Moon) e da Giulio Marzaro, propone batterie dritte e linee di basso post-punk insieme a suoni ripetitivi e una voce perfetta per il genere, che ripete a menadito le stesse frasi come una sorta di rito. Un EP di cinque brani davvero interessante e ben prodotto, grazie ad una certa esperienza raggiunta da entrambi nel mondo della musica. Il singolo Feelings Jar in particolare è un pezzo splendido che riaccende memorie di una psichedelia che da molti anni mancava in Italia, un brano che ricorda un viaggio in autostrada al calar del sole, con i vetri un po’ appannati e quel desiderio di non arrivare mai a destinazione, ma rimanere lì, nel limbo di un automobile e di una bella canzone. Un lavoro completo che dà la possibilità di immaginare i Warias su qualche grande palco europeo di qualche grande festival. Davvero ben fatto, aspettiamo l’album con ansia. (Edoardo Piron)
Ascolta: Feelings Jar

7/10

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