Copertina a cura di Tommaso Casoli

MEGARECENSIONI Vol.14 — Dicembre 2017

Hai sempre odiato Dicembre, il buio alle sette di sera, la sconfitta della primavera

La Caduta
La Caduta 2016–18
23 min readDec 23, 2017

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Angel Olsen — Phases

Dopo due album di grande successo meritorio, Angel Olsen ci lascia questo Phases come a dire, oggi sono uno star ma un po’ mi ci dispiace. D’altra parte, atteggiamenti da dea degli hipster e un temperamento flemmatico potevano difficilmente dare altro frutto, specie per quanto riguarda My Woman, nonostante al debutto, nel 2012, eravamo ancora tutti convinti che quell’EP fosse soltanto il gioco tranquillo di una ragazza di periferia, troppo schiva per esibirsi davvero. Con Phases, oggi, siamo catapultati, volenti o nolenti, alle radici folk del cantato olseninano, forse proprio perché gli ultimi lavori l’avevano coattivamente strappata ad un modo di porsi più spontaneo, ed anche vagamente più sbarazzino; va da sé, quindi, che in Phases a fare da padrone sarà l’introspezione e l’iscenata placidità di un raccoglimento urbano. Essendo una compilation, poi, è necessario che ci siano degli sbalzi, anche piuttosto evidenti, per quanto riguarda le sonorità e le atmosfere, che comunque si miscelano con franchezza, per un risultato apprezzabile. Ciò che definiamo apprezzabile, in particolare, è il ricco armamentario che la Olsen ci esibisce, specie nella seconda parte del disco, in cui le tinte diventano super lo-fi e la voce diventa il fondamento di questa redenzione. May as Well e Endless Road che chiudono l’album, ci sembrano soffiare in direzione di un ricordo balenato all’improvviso, come di una canzone che la Olsen ascoltava da bambina, poi dimenticata. Da un punto di vista strettamente commerciale, questo lavoro ha due pregi: non è strettamente riservato ad un pubblico di fan sfegatati e non è nemmeno inutile come introduzione alla musicalità più sincera della Olsen; dal punto di vista strettamente musicale, invece, questa è bella ma non balla. ()
Ascolta: May as Well

6/10

Atro — Demo[ne]

Dalla capitale ci giunge il primo segnale degli Atro, neonato gruppo alle prese con il suo primo lavoro in studio, una Demo per essere precisi. Quello che ci giunge alle orecchie è un chiaro suono sludge, fondato sui solidi pilastri sonori del doom, ma aperto a varie contaminazioni sonore, in particolar modo dal post-hardcore. Una demo da cinque tracce, che mostrano innegabilmente del potenziale, ma che allo stesso tempo non possono essere risparmiate da alcune critiche, ovviamente costruttive. Partendo dalla prima traccia, a mio parere la migliore, possiamo apprezzare il bel miscuglio di suoni, che riesce in questo caso a formare un tutto compatto e a far risaltare ogni componente; la batteria è incisiva, i giri di basso e chitarra sono apprezzabili e si inseriscono coerentemente nel paradigma del genere, risultando aggressivi e profondi. Anche nella seconda traccia questi punti di forza di mantengono, inseriti in un brano leggermente più disteso, con delle chitarre che esplodono nel finale, facendo risaltare ancora di più la buona struttura del brano. La terza traccia inizia sulla stessa scia, per poi inserire subito un intermezzo accompagnato da alcune note di pianoforte, che a mio parere risultano fuori luogo; personalmente avrei ricercato un suono meno cristallino e più distorto. Anche la progressione di chitarra nella seconda metà del brano manca d’incisività e risulta abbastanza fuori posto. La penultima traccia presenta anch’essa un intermezzo accompagnato da pianoforte, che risulta ugualmente inadatto, ma che fa da contraltare per una bella progressione sul finale. Tralasciando nei particolari la quinta traccia, si può dire che gli Atro devono definire meglio le loro idee fondamentali, cercare un equilibrio azzeccato, visto che in alcuni punti della demo esso sembra smembrarsi, e arricchire il loro sound, che a parte gli intermezzi di piano (che ripeto, a mio parere andrebbero rivisti) non presentano delle cesure con l’omogenea sonorità sludge/doom. Che questo mio breve resoconto non passi per una mortificazione stroncante, ma per uno stimolo incoraggiante: vediamo che sapete fare veramente. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: I

5½/10

Björk — Utopia

Se Vulnicura è stato per Björk il disco dell’elaborazione della rottura (con il padre di sua figlia, l’artista Matthew Barney), l’utopia protagonista del suo ultimo lavoro è sia una rinnovata fiducia nell’amore che una ricerca del paradiso in un mondo che a livello politico e sociale sembra andare sempre più a ritroso. Utopia è un disco lungo (oltre un’ora per 14 brani che vanno dai 2 ai 10 minuti), impegnativo e a tratti criptico, ma che mantiene un’armonia e una coerenza quasi maniacali per tutta la sua durata. Almeno metà del merito va sicuramente al buon Arca, la cui produzione si fa sentire ancora di più che in Vulnicura. Nelle parti più violente ed elettroniche è molto facile riconoscere il timbro del venezuelano, ma la vera novità è la grande presenza di elementi sonori naturali frutto di registrazioni nella giungla caraibica effettuate da questi due “music nerds” (citando la stessa Björk in Blissing Me). L’altro strumento onnipresente nell’album è il flauto, che rende Utopia il disco di chiusura di questa flute season inaugurata a inizio anno da Mask Off di Future. Se vogliamo cercare un paragone nella discografia dell’artista islandese, questo decimo album è una sorta di ritorno ai primi 2000 tra Vespertine e Medúlla, ma con la solita sperimentazione che lo fa sembrare un’opera scritta nel futuro. Questa volta in un futuro utopico anziché distopico.
PS: Björk è ormai un’entità, non è un’artista paragonabile ai suoi colleghi terrestri, per questo motivo non me la sento di dare un voto a Utopia. Mi limito a dire che è un disco molto bello, ma è necessario dedicargli tempo e concentrazione per entrare nelle sue atmosfere. ()
Ascolta: Losss, Sue Me

s.v.

Cesare Cremonini — Possibili Scenari

Cesare ha detto che Poetica non è un pezzo, è una canzone. Una canzone brutta, però, Cesarè. A parte le facezie, non si capisce perchè Cremonini abbia scelto un apripista simile per un disco, tutto sommato, apprezzabile. Possibili Scenari, infatti, è un lavoro preso in rincorsa, che guarda all’indietro nella storia dell’autore; è un lavoro, ancora una volta, prettamente “londinese”, ma che sceglie di non concedersi troppo, di farsi scudo con le proprie convinzioni di innamorato — giusto o meno che sia. E invece Poetica è il salto nel baratro, no? Poetica è la banalizzazione di questo percorso in un personaggetto stilizzato in bianco e nero — che non esibisce introspezione, ma che esibisce soltanto la distanza fra l’autore ed un ascoltatore vago e interessato, a cui, in fin dei conti, non importa poi tanto degli stati emotivi di Cesare, quanto dei suoi contenuti. Meglio Possibili Scenari allora, la title-track dell’intero album, meglio un sottile riverbero dei propri stati d’animo, che prende poi furbescamente colore nei pezzi a venire; poi robuste sbandate, e metafore calcistiche, ma soprattutto la necessaria consapevolezza di quello che si sta facendo (perchè il segreto di una buona pasta, è la pasta)[?]. Cesare Cremonini con Possibili Scenari ha fatto il meglio che poteva, meglio di Logico in cui sbandierava questo amore beato per le piccole cose, che ci ha rotto un po’ i coglioni; non che qui si comporti diversamente, ma quantomeno ammette che la si possa pensare diversamente. Non dimentichiamoci, però, che questo album è soprattutto un crocevia, sia biograficamente — siamo alla soglia dei 20 anni di lavoro — sia musicalmente. Questo Cremonini ha dato molto, di bene e di male, non facciamolo appuzzare. ()
Ascolta: Possibili Scenari

6½/10

Dadamatto — Canneto

I Dadamatto son di Senigallia, mezz’ebreo mezz canaja, e fanno musica da almeno una decina d’anni. Cantano in italiano e corrono sul filo che unisce l’indie col rock e il pop. Canneto è il loro sesto disco, tutto autoprodotto, contiene 7 pezzi e sembra essere nato dal silenzio di una campagna in fiore, venuto fuori in un momento del tutto inaspettato. Nonostante la sua brevità, il disco è intensissimo e contiene diversi pezzi schiacciasassi, che ti entrano in testa e non se ne vanno più: già solo l’ouverture che dà il titolo all’album è un colpo al cuore, col suo incedere calzante e il contrasto della voce pulita, cristallina, che si staglia sopra gli ambienti sonori che si vengono a creare di volta in volta (vedi anche Zanzare o Sperma). Sottopelle, affiorano alla mente ricordi e immagini di qualcosa che forse c’era e non c’è più, un po’ di malinconia prontamente filtrata dalla musica (potente, precisa), mentre il gradiente di introspezione e il timbro delle canzoni sembrano seguire quel che i testi evocano: è tutta una questione di ascolto. Ed ho la sensazione che sentiremo parlare di loro con l’anno nuovo. ()
Ascolta: Canneto, Zanzare, Vulcano

7/10

Fishbach — A Ta Merci

Flora Fishbach è un nome che comprensibilmente da queste parti non fa accendere nessuna lampadina, ma con il suo disco d’esordio A Ta Merci occupa le classifiche di fine anno di molte riviste di settore d’oltralpe, mentre qui da noi si discute su chi sia meglio fra Coez e Vasco Brondi (lol). La premessa necessaria è che si tratta di un disco legato a suoni fondamentalmente vecchi, soprattutto anni ’80 tra l’oscurità della new wave e il pathos della canzone pop francese. Questo mi porta a chiedermi di nuovo quale sia il valore effettivo di un’opera che non propone niente di davvero nuovo, e la risposta è che questo valore sta tutto (banalmente, eh) nella capacità o meno di scrivere belle canzoni. E Fisbach scrive canzoni della madonna. Per essere un’esordiente ha una maturità artistica fuori dal comune, una timbro vocale e una capacità canora rari, oltre a saper suonare e arrangiare in modo per niente scontato. Questo non vale quanto un disco innovativo? Magari no, però A Ta Merci resta uno degli album europei più belli usciti nel 2017 e questo basta e avanza. I testi di brani come Un Beau Langage, Eternité e Un Autre Que Moi sono semplici ed efficaci quanto sono poetici e taglienti. I suoni, tra bassi potenti, synth maestosi e chitarre, tante chitarre, sono tutti al posto giusto nel momento giusto, in una cura dei dettagli disarmante. Bisogna stare attenti a liquidare dischi come questo troppo velocemente, e ve lo dico io che ho scritto questa recensione con 11 mesi di ritardo. ()
Ascolta: Un Autre Que Moi

8/10

Fjørt — Couleur

I Fjørt, devo dire, non erano mai passati sotto il mio naso; i loro due album precedenti sono per me cosa sconosciuta, ma posso dire di essere rimasto basito dal loro ultimo lavoro, Couleur. Partendo dall’anagrafe, si tratta di un trio tedesco, di recente formazione, praticante un post-hardcore molto equilibrato: melodia e cadenza, struggimento e pesantezza, un miscuglio bilanciato e coerente, reso ancora più particolare dal cantato in tedesco chiaro ed incisivo. La copertina attira, ha un’aria malinconica e decadente, che rimanda a quei primi decenni del ‘900 europeo, uno specchio che riflette perfettamente lo spirito del disco. Südwärts apre le danze con una carica di energia devastante, giri di chitarre da headbanging e un cantato cadenzato irresistibile. Uno dei punti cardine di questo disco, lo ribadisco, è il perfetto equilibrio tra aggressività e sogno, rappresentati l’uno in primis dalla voce del cantante, che rimane struggente in ambo le facce delle loro sonorità, e l’altro dal sapiente uso di giri di chitarra e cambi di ritmo, accompagnati da azzeccatissimi sprazzi di tastiere (come quello su Eden, ovattato e distorto, un piccolo granello di ambient che non stona). Che dire, poi si arriva a Mitnichten e si alzano di nuovo le mani; tre minuti e ventidue secondi che condensano una vena creativa inestimabile. Qui la vena hardcore viene fuori egregiamente, è spinta al massimo da cambi di ritmo azzeccati, che spezzano la canzone e mettono in risalto ancora di più la ruvidezza delle chitarre e della voce; la canzone cresce, s’impenna, stupisce: è sotto tutto questo caos ragionato c’è sempre un sentore di oscurità, malinconico, che si insinua nelle membra anche nei momenti più inaspettati. Poi ci son pezzi come Raison, che questo sentimento non lo nascondono, ma anzi te lo servono sulla scia di riverberi di chitarra di sottofondo e ovattati suoni di tastiera. In ogni pezzo c’è un ché di epicheggiante, di romantico in senso lato; si manifesta per brevi momenti in modo esplicito e per vie mai identiche. C’è quella drum machine su Magnifique, per esempio, o l’arpeggio iniziale di Fingerbreit. Per non allungare troppo il brodo, posso dirvi che Couleur è uno degli album post-hardcore dell’anno, ricco di incisività, ritmo e melodia. Parte da un’idea e la porta avanti per tutto il tempo con manierismo e disinvoltura, risultando quasi mai stucchevole. Un album che fa della sehnsucht il suo paradigma, così come solo i tedeschi sanno fare. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Südwärts

8/10

Hiraeth — For Ben, It’s Been…

Hiraeth aka Mark Navarro butta fuori questo EP che, spoiler, fa un po’ piangere :’( . La parola hiraeth in gallese esprime la nostalgia per un luogo nel quale non si può più tornare, il dolore per un dove che non esiste più. E se questo sentimento fa parte della tua vita, questo breve ma intenso EP può essere la colonna sonora del tuo “mal d’Africa”. Ambient nostalgica che rimanda alle vibes di Bon Iver, che spezza un po’ il cuore in due e mostra cosa si trovi dentro. In questo caso è inutile parlare di tecnicismi e dei tre brani nello specifico, rimane soltanto la necessità di capire le emozioni che ci sono dentro e riaccenderle in questi circa tredici minuti di musica. Sigh. ()
Ascolta: tutto

7/10

*Insects Theory — s/t

Un EP omonimo di cinque brani quello de Insects Theory. C’è molta elettronica, molto pop con un po’ di trip. Un EP è sempre un veloce assaggio di un pasto completo, quindi non è mai facile comprendere interamente il valore artistico del progetto, ma è innegabile che questo primo boccone risulti molto piacevole: il cantato (in inglese) si adagia sui tappeti di sintetizzatori che vengono arricchiti da ritmiche di drum machine dalle tinte glitch. Interessanti The Bird That Spoke Too Much e Blueman, la prima un brano strumentale, la seconda un pezzo ipnotico che si ripete in se stesso fino al finale. Ancora presto per esporsi, ma sicuramente un lavoro piacevole all’ascolto. ()
Ascolta: Blueman

6+/10

Jordan Rakei — Wallflower

Cresciuto a Brisbane, in Australia, e arrivato presto sull’onda del successo a Londra, il venticinquenne Jordan Rakei porta nella propria musica i frutti raccolti da un amore viscerale per hip-hop ed elettronica (quella più danzereccia) che lo ha portato a pubblicare il suo secondo album per la celeberrima e da lui tanto amata Ninja Tune. In Wallflower germoglia tutto il talento di un musicista R&B/soul che mette la propria voce in testa ai groove delicati di una sezione ritmica impeccabile. Ascoltandolo si sprecano paragoni, la mente corre veloce a nomi come Chet Faker o Paolo Nutini, artisti la cui maestria vocale e strumentale Rakei sembra padroneggiare senza difficoltà in ognuna delle tracce che compongono questo lavoro. Non mancano atmosfere spiccatamente jazz (Sorceress, l’accelerata finale di Chemical Coincidence) o episodi più vicini a James Blake (la bellissima May) che senza molti fronzoli fanno di Wallflower una piccola ma pur sempre preziosa perla del suo genere. ()
Ascolta: May, Nerve

7½/10

N.E.R.D — No_One Ever Really Dies

In un’America che ormai è diventata la parodia di sé stessa, in cui ci si chiede costantemente che città sarà lo scenario della prossima strage da parte di qualche psicopatico e se dopo Trump il prossimo presidente sarà davvero The Rock o qualcuno di ancora meno credibile, l’unica certezza risponde al nome di Pharrell Williams. Bill Cosby e Kevin Spacey diventano dei molestatori, l’hip hop diventa trap, i CD diventano piattaforme di streaming, ma a quarant’anni suonati il frontman dei N.E.R.D ricopre ancora lo stesso ruolo di spicco ottenuto alla fine degli anni ’90. No_One Ever Really Dies, il primo lavoro del gruppo dopo sette anni di silenzio ne è una bella dimostrazione. Il disco suona più fresco di tre quarti del pop che ci propinano in radio e dentro c’è una varietà di elementi sia interessanti/coraggiose che apprezzabili dalle masse: c’è Rihanna che rappa (Lemon), c’è Gucci Mane con l’autotune e le chitarre in sottofondo (Voilà), c’è Kendrick Lamar che riesce a tirare giù il mondo in neanche 40 secondi di strofa (Don’t Do It). Poi se vogliamo essere stronzi e trovare dei difetti a questo album possiamo dire che alcune parti sono un po’ troppo allegre e zuccherose, che certe volte i N.E.R.D potrebbero rallentare un po’ i ritmi prima che ci venga un attacco epilettico e che quel tipo di basso che usa sempre Pharrell in ogni produzione alle volte funziona alle volte un po’ meno. E sì, anche che c’è Ed Sheeran. Però direi che la presenza di M.I.A. e André 3000 riporta tutto in equilibrio. ()
Ascolta: Deep Down Body Thurst

7+/10

Merkabah — Million Miles

Con questo quartetto polacco sono sicuro di prendervi alla sprovvista, uno di quei gruppi che si trovano per caso in mezzo alla corrente e che ti lasciano qualcosa, un piccolo segno che inevitabilmente darà prurito e faticherà a lenirsi. Che le fondamenta sonore del jazz posseggano una potenziale distruttività e caoticità, è cosa appurata da decenni; la scena post-punk e no wave la svilupparono largamente (James Chance, John Zorn, The Lounge Lizard e così via), per non parlare di varie formi di post- hardcore et similaria (basti pensare ai nostrani Zu). Con i Merkabah di questo si parla, di un avant-garde-jazz, fraseggi e passaggi schizoidi ed eleganti uniti ad una base ritmica terremotante e impeccabile. Inutile dire che il progetto è totalmente strumentale, e dopo un semplice ascolto ci si rende subito conto che nessuna voce potrebbe inserirsi nei loro stilemi. Un’ora e quattro minuti di musica variegatissima, sia a livello di espedienti sonori che di lunghezza e velocità; tranne Zheng Zhilong, con i suoi dodici minuti abbondanti, i pezzi girano intorno ai sette minuti, mostrando sapienza compositiva e una buona scelta delle climax. Particolarmente efficace risulta il sapiente connubio di sax, campionamenti e chitarra , che in alcuni punti riesce a correre su tempi diversi, raggiungendo risultati a dir poco ipnotici ed alienanti (come negli ultimi minuti della terza traccia). Anche la batteria mostra spesso il suo lato elegante e preciso, come nella età di The Lion’s Mouth, ma è vero allo stesso tempo che impiega una frazione di secondo per sbizzarrirsi in crescendo spacca-ossa (come su A Letter of Marque). I Merkabah, con Million Miles, si sono rivelati un gruppo che ha delle belle cartucce da sparare, dimostrando una gran capacità nel costruire scale ascendenti di sonorità; c’è pure da dire che dopo le prime due canzoni sembrano perdere una parte della loro componente più aggressiva, che a mio parere avrebbe giovato mantenere ed arricchire. Un neo che si fa notare, ma che non impedisce di rilasciare un giudizio positivo per un gruppo pressoché sconosciuto al di fuori della Polonia, che saprà regalare bei momenti di goduria, sempre con quella classe incarnata per antonomasia dal jazz. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: A Letter Of Marque

7+/10

Morrissey — Low in High School

«No bus, no boss, no rain, no train»: queste parole di Spent the day in bed, emblematico singolo estratto da Low in High School, ultimo album dell’icona musicale Morrissey, sembrano quasi un inno alla vita appartata, quella introversa, chiusa nelle quattro mura di casa. La sensazione di noia e solitudine esistenziale, di distacco contemplativo e di laconico male di vivere è una cifra stilistica tipica dell’ormai quasi sessantenne cantautore britannico. La ritroviamo infatti in altri brani come in Wish you lonely («I wish you lonely if only for one day so that you might see routine for me since the day I was born») o in Jacky’s only happy when she’s up on the stage («She is determined to prove how she can build up the pain of every lost and lonely day»). Un’altra caratteristica della poetica di Morrissey è la sua ormai fin troppo conosciuta attitudine da polemista su temi politici, sociali e culturali, che diventa filo conduttore del disco a partire dalla provocazione antimonarchica in copertina, che gli ha causato non pochi problemi in patria, per arrivare a canzoni come I bury the living e Who will protect us from the Police?. In Low in High School ritroviamo insomma tutto il mondo malinconico e pungente dell’ex frontman degli Smiths. Le melodie e gli arrangiamenti sono, al solito, molto riusciti e l’ascolto risulta omogeneo e piacevole. Tuttavia non ci sembra di sentire niente di nuovo sul fronte Morrissey e si finisce per rimanere con l’amaro in bocca, sicuramente più delusi che sorpresi. ()
Ascolta: Spent the day in bed, Israel

6½/10

Omar Souleyman — To Syria, With Love

L’importanza che Omar Souleyman ha avuto nella cultura occidentale, intrisa oggi di razzismo e qualunquismo, è stata enorme. Infatti, a chi non è capitato di essere seduto in fondo ad un autobus o in metro con un gruppo di ragazzi mediorientali di fianco che ascoltano musica cantata in arabo con queste linee melodiche che alle nostre orecchie suonano strambe e di chiedersi “ma che cazzo sto ascoltando?”. A me è successo e spero di non essere il solo (più per dignità personale forse). In ogni caso, era il 2013 quando usciva Wenu Wenu ed era il 2013 quando la mia visione di questo mondo musicale cambiava: ne rimasi sconvolto ed affascinato, riuscivo a sentirla vicina. Ed ecco che sono passati quattro anni e l’artista siriano continua a pubblicare lavori di altissima fattura, infatti To Syria, With Love è un altro gran bell’album: la struttura dei brani non è cambiata nel suo percorso, perché va così, funzionano. Linee melodiche arabeggianti (ma va?), ritmica vicina alla cassa dritta e alla cumbia, un cantato che inneggia frasi a me incomprensibili ma che riescono a passare una passione innegabile. Vide Omar quant’è bello, spira tanto sentimento. ()
Ascolta: Aenta Lhabbeytak, Mawal

7/10

Sam Gellaitry — Escapism III

C’è questo scozzese, ventenne, che danza soavemente fra elettronica, trap, kraut e ambient; è Sam Gellaitry, terza prova per lui, un EP che esce per XL Recordings. Quasi a testimoniare il respiro adult-contemporary che Escapism III adotta, anche soltanto in chiave estetica, veniamo accolti, all’ascolto, da una docile schiera d’archi che giocano col pop in modo creativo, ora muti ora urlanti, robe su cui aveva girato anche l’eminente McCartney, qualche anno fa. Eppure, la grezza costante della produzione di Gellaitry non tarda a pronunciarsi, il sapiente ricamo dei bassi, frammisto a generosi snucks che preludono a sferzate trap. Basterebbe una pacata riflessioni sull’intercalare di queste due costanti per comprendere il guadagno di questa terza produzione del nostro, decisamente dedito a portare al limite la propria strumentazione, senza diventare necessariamente barocco. Attraverso un mixaggio che rimanda alla produzione in demo, i pezzi sembrano richiamarsi l’un l’altro fino al muro di Jungle Waters, vero e proprio, ci si perdoni il gioco di parole, spartiacque del disco. Quest’ultimo escamotage non è certo un dettaglio accessorio: l’ascolto “a cascata” cui l’autore ci invita è anche l’occasione, cercata, di conoscere la sua nuova recrudescenza elettronica, che, invece, specie in Escape II, sembrava dover avere una portata meramente monumentale. Seguendo personalmente il percorso di questo autore, mi ritrovo francamente eccitato dal suo stile, specie perché questo lavoro, pur essendo la fine di una trilogia, sembra la dimostrazione che l’unicità del ragazzo sia ponderabile anche al di fuori della XL. E se questa è l’era dello streaming, e senza di esso un Gellaitry probabilmente non sarebbe tale, è comunque merito indiscusso quello di saper evocare sogni lucidi. ()
Ascolta: Jungle Waters, Escape II

7+/10

Sia — Everyday is Christmas

Sia ha fatto un album di Natale, gagliarda. Ha fatto un album strano, pieno di debiti ma anche pieno di carinerie, di swing, di uptempos, di folklore — e così si fanno gli album di Natale cari miei. Per comprendere veramente quale sia lo stacco tra questo album di Sia bisognerebbe tracciare una linea immaginaria che va da Merry Christian a Sia, passando per Gwen Stephanie. Se quest’ultima ha fatto un disco in puro stile crooner, e l’altro, bhe l’altro è Christian De Sica, Sia ha fatto.. un concept? Quindi non ha fatto un disco di Natale, ma un disco sul Natale. Sia, o chi per lei, ha fatto, ovviamente, una scelta di mercato, una scelta redditizia, ma l’ha fatta col piglio della cantante di classe — dimostrando di essere lei natalizia, qualunque cosa vogliamo dire oggi, nelle sue canzoni. Formalmente parlando, le tinte del disco sono candidamente pop, ma ad essa si aggiungono sapienti scelte di fiati e di archi, che costruiscono l’atmosfera, o per meglio dire il torpore; per forza di cose, la cifratura dello stile di Sia impone anche delle ballad, che tutto sommato non si possono dire riuscite, ma che riescono nell’intento di costruire un ponte tra le sezioni (e tra le generazioni?). Per questo abbiamo deciso di premiare questo disco, che è poi un disco orecchiabilissimo, un disco dolce, poco impegnativo; ma che è soprattutto una presa di posizione, in qualsiasi modo la si prenda, sul fare musica di Natale. ()
Ascolta: Tutto davanti al caminetto?

6½/10

Taake — Kong Vinter

Chi mastica black metal saprà chi sono i Taake, ricorderà la maestosità di Doedskvad e Nattestid, così come ricorderà un discreto numero di album mediocri, un periodo di stasi che appare quasi naturale se si tiene presente la difficoltà che comporta il continuare per anni a fare questo tipo di musica. Nonostante questo i Taake sono rimasti uno dei pochi gruppi della vecchia scuola che riescono ancora oggi a non apparire ridicoli, sul palco e fuori. Kong Vinter si situa sulla scia degli album “mediocri”, parola che andrebbe messa tra cento paia di virgolette vista la maturità e la coerenza del loro sound, che non ha mai dato occasione di essere criticato. Un sound che potrebbe essere letto come un black metal dalle forti tinte melodiche (da non confondere con la componente sinfonica di gruppi simil-Emperor), costruito su bei giri di chitarra, a partire dai riff centrali e strutturali fino ad arrivare a quelli di “contorno” (come quello a metà della prima traccia) e che cerca in molti casi di spiazzare l’ascoltatore, evitando quando può i passaggi paradigmatici del genere (lo stacco tra le due metà dell’ultima traccia è mirabile in questo frangente). Su Inntrenger, oppure, poco dopo l’attacco c’è un passaggio in cui azzarderei ritrovare ritmiche post-hardcore/noise rock (mi riferisco al secondo minuto del brano, ma in fondo si ritrova a stralci per tutta la durata del pezzo), con la batteria che manda al diavolo i blast beat e abbraccia ritmiche dissonanti, che spiazzano inserite in un album di questo genere. Allo stesso tempo molte cose sono rimaste le stesse, il classico suono delle chitarre dei Taake gode ancora delle sensazioni vibranti e malinconiche, abrasive ed intransigenti (come in Jernhaand), un mare di nebbia fredda e tagliente. La voce di Hoest è rimasta inalterata, una delle più carismatiche e cristalline che il black metal può vantare; purtroppo essa non trova abbastanza spazio all’interno delle tracce, che risultano tutte abbastanza lunghe, una media di sette minuti l’una, all’interno delle quali, a volte, le parti strumentali si allungano un po’ troppo e la voce non interviene. A parte questo appunto, non sembra che a Korg Vinter manchino i requisiti per essere annoverato tra le migliori uscite black metal dell’anno, poiché mantiene ancora in vita quello spirito di innovazione ( e non stravolgimento) che ha caratterizzato da sempre la carriera dei Taake. Un gran bell’album, senza troppe pretese, ma che mi ha fatto tornare la voglia di rivederli dal vivo: sarebbe la terza volta, ma se lo meritano a mani basse. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Inntrenger

7/10

The Body + Full of Hell — Ascending a Mountain of Heavy Light

Cosa succede quando un gruppo power-violence ed uno noise/drone si incontrano? Questo. Che paradossalmente, nonostante la sua peculiarità, aveva già preso forma tempo fa, dalle due sopra citate band, in una precedente collaborazione. I The Body e i Full of Hell, oltre che condividere il suolo natio, si incontrano spesso e volentieri per un proficuo scambio di idee e , perché no, per strimpellare tutti assieme. Ecco, quello che scaturisce da questi tête-à-tête sfugge ad una classificazione, nel bene e nel male. Per farla semplice, dal lato Full of Hell abbiamo una batteria esasperata dall’intervento dietro le pelli di Brian Chippendale (batterista del power duo Lightning Bolt, che per schizofrenia e tracotanza sonora sono top di gamma), che si destreggia tra sfuriate hardcore-grind e ritmi quasi tribali e danzanti (su Master’s Story), accompagnata da un apparato di sintetizzatori e campionamenti vibranti, alienanti e spigolosi, per gentile concessione dei The Body. Partendo da questi capisaldi, assistiamo ad un diramarsi di sonorità a volte difficili da mettere a fuoco, a volte incarnate in semplici accenni senza uscita, sfuriate schizofreniche che mantengono come base comune un concreto terrorismo sonoro. Le urla altisonanti dei due vocalist rimangono un altro dei pochi punti saldi all’interno di questo mare di suoni, a differenza delle chitarre, che rare volte si distinguono chiaramente (Earth is a Cage). La batteria risulta anch’essa tutt’altro che una costante, c’è l’intransigenza hardcore così come ci sono dei beat ovattati e colmi di riverberi (The King Laid Bare), accompagnati da sintetizzatori e campionamenti di vario genere (in sottofondo alla prima traccia mi è sembrato di sentire dei canti simil-gregoriani, per dire). C’è una tinta sludge che aleggia nell’aria, un chè di Doom che permane, una produzione che fa dell’oscurità, del caos e dell’alienazione i suoi cardini. È uno di quei album che richiede diversi ascolti per poter cogliere i piccoli preziosi tasselli nascosti in un abisso di sonorità a dir poco repellenti, volutamente repellenti, sia ben chiaro. Un esempio di ciò che può portare la sperimentazione e la collaborazione tra gruppi che condividono non tanto un genere o sonorità, ma un sentimento, un’idea, che si incarnano in una di quelle sensazioni che, quando ascolti la loro musica, ti passa sotto pelle e non sai ben spiegarti. Qui si parla di questo, vi ruota tutto attorno, ma quali siano le idee che hanno ispirato tutto ciò, lo lascio scoprire a voi. Basta trovare il coraggio, molto coraggio. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Earth is a cage, Master’s Story

7/10

*The Smudjas — What We Have Is Today

Fresche fresche di release party (l’altro ieri, 21 dicembre 2017, sotto il Bosco Verticale nel quartiere Isola, c’è uno spazio occupato che si chiama Piano Terra, ve lo consiglio a viva voce) tra un Cynar e volti amici, è uscito — per Legno e Adagio830What We Have Is Today, primo LP delle The Smudjas , power trio milanese a conduzione femminile che unisce in modo saggio e genuino il punk al rock, urgenza e saggezza diluite in sette tracce in cui il vagabondare dei testi (sul presente, sullo stare insieme, sull’amicizia, su quel che si ha e non si ha, insomma le piccole cose ma quelle importanti) viene incanalato e tenuto compatto dalla potenza della musica di pezzi memorabili come Different Lines e Dance & Revolution. Una scarica d’adrenalina dalla testa ai piedi, una tigre nella foresta spalanca la bocca e ci fa saltare, e noi saltiamo saltiamo a tempo e muoviamo la testa avanti e indietro, godendoci questi ventitré minuti di intensità che si chiudono nell’aere ora limpido e spolverato, un riff che si ripete e cresce pian piano: è Till the end of the road, canzone che chiude questo piccolo capolavoro di fine 2017 che ci dà il proposito giusto per l’anno nuovo, una massima di vita: Let’s focus on the people that make us happy, avoiding those who bring us down. Tiè. Buon Natale. ()
Ascolta: Silvia, Till the end of the road, Different Lines

7+/10

Wandl — It’s All Good Tho

Wandl (UandL, uandol) artista poliedrico, giovanissimo, austriaco, folle, è una di quelle che posso sinceramente e solo poche volte poter definire “epifanie dell’anno, sintesi emotiva assimilabile solamente a ricordi ed momenti che mi portano a dire Jacques Greene, il vecchio Chet Faker (rip). It’s All Good Tho è un concentrato di tutto il sound fresco degli ultimi anni: trap, cloud, jazz, elettronica, ambient, r&b, tutto viene messo sul piatto e spinto verso la sperimentazione, rivelando un eclettismo inedito, ambientazioni e scorci mai visti. Le 17 tracce scorrono liquide e sinuose, senza pause, senza intralci. Tra il chill di Window Color e la trap accennata di Cola passa pochissimo, Wandl canta soffice e leggero “sweet like Cola, let me be your boy/up all night, thinkin’ about you” con un’intensità disarmante, capace di colpire, costruisce mattone per mattone, assembla e poi rifinisce, muratore preciso. Il ragazzo ha un tocco, una sensibilità che pervade tutto il disco e si diffonde secondo dopo secondo sempre di più e non ti lascia più andare. Non avendo altro da dire, It’s All Good Tho è il regalo di Natale migliore che potete farvi, al pari della ristampa di tutta la discografia dei Verme (doppio rip). Dicembre mese di nuovi volti di morti risorti. ()
Ascolta: Window Color, Cola, Gay, Fever, 0800–333-Talk, Beatles (How I Want U), tutto zi

8/10

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