MEGARECENSIONI Vol.15 — Gennaio 2018 pt.2

“Ogni anno, ogni Gennaio, cambiamo il calendario e trascriviamo i compleanni e le scadenze”

La Caduta
La Caduta 2016–18

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Andy K Leland — Happy Daze

Su uno spettro che va dai Plain White T’s al caro Microphone, pendente a sinistra svetta Andy K Leland, con questo suo nuovo, intimissimo, Happy Daze. La formula è relativamente semplice, relativamente classica: tinture lo-fi, voce sottile, timbro soffuso — ritmica quasi inesistente. L’atmosfera è radicata nell’alternative della decade che ci siamo lasciato alle spalle e fa tesoro del repertorio acustico che ha permesso un rautiano sfondamento a sinistra, se per sinistra intendiamo un pop anche vagamente godereccio (penso a Streets of Love degli Stones, come un’icona). Se avessimo ascoltato questo lavoro con quel briciolo di superficialità, che tanto si addice agli addetti ai lavori, avremmo rubricato questo disco fra i senza biasimo né gloria: ogni pezzo scorre liscio come l’olio, ma fatica a trovare l’onda X che penetra fino al cuore dell’ascoltatore; eccezion fatta, però, per Mr. Panic, che con il suo piglio folk scoraggia i più facinorosi e ci lascia a trastullarci nei nostri pensieri. Se non fosse per questo balzo, come abbiamo già detto, il discorso sarebbe difficilmente memorabile, già fra qualche mese, ma su questo ci permettiamo due considerazioni. La prima è che sarebbe interessante conoscere le intenzione di chi questi pezzi li ha composti, per chi sono scritti e con quale finalità; la seconda sarebbe aspettare con parsimonia un secondo lavoro, con cui qualche intuizione qui soltanto accennata, potrà essere messa a regime e risuonare a dovere. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Mr. Panic

6/10

Bianco — Quattro

In una delle canzoni più riuscite del suo nuovo album Bianco canta: «In un attimo passerà tutto / La soluzione è camminare». Di strada nel mondo della musica il cantautore torinese ne ha fatta tanta, senza corse e senza fiatoni, a partire dal suo esordio Nostalgina (2011), passando per il meraviglioso album Guardare per aria (2015) e tanti mesi in giro per la penisola a fianco di Niccolò Fabi, fino a Quattro, uscito il 16 gennaio di quest’anno per INRI. La chiave è non fermarsi, continuare ad andare, trovarsi e scoprirsi lentamente, percorrendo sempre un proprio e personale percorso: questo ha fatto Bianco nel suo quarto cd, in cui la crescita è tema ricorrente (basta pensare a Felice, scanzonato rimpianto della giovinezza) e l’autenticità cifra stilistica privilegiata. Le atmosfere sono sempre ricercate: delicate e riflessive in alcuni momenti (Ultimo chilometro, Organo amante), più energiche in altri (Punk rock con le ali, Tutti gli uomini). Quattro manca forse di freschezza e lascia gli ascoltatori, fan e non fan, né delusi né entusiasti, ma è un disco maturo che ci conferma che Bianco è una realtà ormai consolidata del mondo cantautorale italiano. (Elisa Frioni)
Ascolta: Felice, In un attimo, Filastrocca sui tetti di Ortigia

7 — /10

Cosmo — Cosmotronic

Cosmo è un bravo guaglione, dobbiamo tenercelo buono in questo mare di porcherie indie-pop (no, non userò quell’altro termine) e su questo non ci piove. Il problema è quando si cerca di attestare al buon Marco Jacopo Bianchi il titolo di innovatore. Il piemontese è un maestro a scrivere canzoni pop, questo è sicuramente il suo pregio più grande, ma a tratti ha un suono che lo fa sembrare una versione 2018 dei Subsonica, che a loro volta erano la versione 2000 dei Bluvertigo. Ora, in nessuno di questi casi si è inventato qualcosa: si è adattato in maniera efficace e “giusta” qualcosa che era già stato fatto in Inghilterra e che in Italia faticava a trovare spazio. Questo discorso vale per gran parte delle band o dei cantautori nostrani, quindi fino a qui nulla di preoccupante. La cosa che più mi ha turbato durante l’ascolto di Cosmotronic, evidenziato dalla scelta di spartire il disco tra cantato e strumentale (o tra palco e dancefloor), è invece l’uso di certi suoni impolverati quanto i primi synth dei Kraftwerk. Dato il momento roseo della nostra scena elettronica prendere questo disco (per lo meno la seconda metà) come oro colato è una mossa un po’ ingenua. Poi ok che chi ascolta Radio Deejay e chi va al Club To Club non sono sempre le stesse persone, però… (Tommaso Tecchi)
PS: se volete leggervi una rece che vi spieghi com’è il disco, rant inutili esclusi, cliccate qui.
Ascolta: Sei la mia città

6½/10

Fall Out Boys — Mania

Mania, l’ultima cafonata dei Fall Out Boys, aveva esordito, mesi fa, col singolo Young and Menace. Per quanto buttato là come fosse una bozza, posticcia e scontornata così com’è, sembrava la controfigura di qualcosa di perlomeno audace. Comincia con un fare misterioso, con una ritmica placida e distesa; e poi niente — chitarre invece di sintetizzatori, espedienti artificialissmi di un’esperienza piuttosto ridicola. Vale la pena ascoltarlo? Direte voi; non saprei veramente dire. Stay Frosty Royal Milk Tea millanta un barlume di creatività che i FOB rispolverano, ragionando sincreticamente sul vecchio pop punk, rendendo pura lordura; Patrick Stump si lascia pure trasportare dall’onda ritmica, adagiando un testo piuttosto incerto sul sound; è, invece, Wilson (Expensive Mistakes) l’unica traccia decente, forse divertente da cantare. Zero meriti a quanto pare. L’electro-pop sembra essere diventato una gigantesca scusa per le band che vivacchiano, ma i FOB, visti gli ultimi trascorsi, direi che non possono permettersela. Non più tanto giovani per tornare a graffiare sulla scena pop contemporanea, non abbastanza vecchi per fregiarsi del titolo di punk rockers, i nostri bivaccano nel limbo, o meglio nel girone degli ignavi e, credete, il resto non vale nemmeno la pena di essere menzionato. Ripensandoci, forse il grande merito del disco è di durare soltanto mezz’ora. Generico, devitalizzato, fastidioso, confusionario, a tratti intrigante per la sconclusionatezza; intendo sociologicamente. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Wilson (Expensive Mistakes)

3+/10

Francesca Michelin — 2640

“Se non sto volando allora cosa cazzo sto facendo?” si chiede la Franci, mezzo schifo diciamo noi. O intendiamoci, Francesca è una brava ragazza, simpatica, disponibile e tutto — ma è una di quelle con le cattive compagnie. Queste compagnie sono, fra gli altri, l’it-pop. Come una metastasi in catastrofica espansione questa etichetta incancrenita si sta dirigendo ad alta velocità nei meandri del commerciale o per meglio dire, nelle alte sfere della bassa età. Tutto sommato, a tre anni di distanza da di20, roba da D&D, con tredici inediti autobiografici prodotti con Michele Canova, alcuni scritti da Tommy Paradiso, Calcutta, qualcosina Cosmo (e l’anima de li mortacci loro), il parere non può essere del tutto negativo. C’è qualcosa di propositivo, c’è una criticaccia, veicolata malissimo, al mito del viaggio, in Bolivia, ma che apprezziamo per il pensiero. C’è una viziosa riproposizione di pattern sonori furbetti, ma almeno rari, pur non rari-ultimate. Ci sono scelte vocali che sono stereotipi indie, c’è della tenerezza e poco altro. Ma sarebbe troppo facile bollare come insufficiente questo lavoro; ancora di più sbandierarlo come il nuovo del pop. Troppo facile perché questo non è di sicuro un disco per una ascoltatrice tipo né di Cosmo, né dei Cani né del cazzo (ho visto che la Franci dici un sacco di volte cazzo, ci provo anche io magari funziona); troppo facile perché questo non è un disco per una fan di Alessandra Amoroso. La Franci sembra una di quelle che fuma solo per farsi gli amici, ma che, per grazia del signore nostro amatissimo, ha del sale in zucca (e le piace la formula uno). Prossimo giro, come sul tagadà, vogliamo ‘na robina caruccetta — fuori dai Tiziano Ferro, fuori dai Calcutta, e fuori dalla minorità. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Noleggiami ancora un film, E se non c’era..

6½/10

Intervals — The Way Forward

I suoni ed i sorrisi. Ascoltare The Way Forward presenta come spiacevole effetto collaterale quello di sorridere molto e spesso grazie a delle chitarre a dir poco canterine. Un disco strumentale modellato da una tecnica notevolissima e da una conoscenza melodica del proprio mezzo davvero incredibile. Aaron Marshall, mastermind dietro la formazione, si dimostra ancora una volta un grande giocoliere in grado di intavolare discorsi solari e memorabili attraverso le sei/sette corde della chitarra in pezzi come Impulsevly Responsable o Rubicon Artist. The Way Forward è un felice e speranzoso in tutte le sue melodie, un disco che trova un impronta pop nonostanta l’alto livello tecnico necessario per realizzarlo. Non destinato a cambiare le sorti del mondo della musica ma tranquillamente in grado di risollevare una giornata no a qualcuno con la sensibilità sintonizzata sulle frequenze toccate dagli sweep picking e dal tapping di Mr. Intervals. (Graziano Salini)
Ascolta: The Waterfront

7+/10

L I M — Higher Living

Venerdì esce il nuovo singolo di Calcutta. Meanwhile nel sottosopra della musica pop italiana, dominato da gente come Sequoyah Tiger e Christaux è uscito il nuovo disco di L I M, il secondo dopo l’EP d’esordio Comet (che se non ricordo male era finito nella nostra classifica dei dischi nazionali del 2016). Rispetto all’uscita precedente l’ex Iori’s Eyes ha cancellato ogni elemento di disturbo che rendeva il suo suono privo di punti di riferimento e lo ha fatto senza togliere naturalezza alle canzoni. La pulizia delle produzioni e l’impatto sonoro di ogni brano sono un segno di maturazione artistica per quello che ad oggi è uno dei nomi più interessanti della scena. Oltre ad essere molto poco italiano (come direbbe un noto medico della TV), Higher Living è pieno di buone idee ed è qui per ricordarci che non basta copiare gli xx per fare un valido disco moderno cantato inglese. I suoni eterei, il cantato quasi sussurrato e l’ottimo uso dei low-pitched vocals ci trascinano in un viaggio tra downtempo e trip hop, tra SBTRKT e XXYYXX. Brava Sofia! (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Let It Be

7+/10

Migos — Culture II

Quello dei Migos è il perfetto esempio di come alcuni artisti, al giorno d’oggi, grazie ad una serie di precise combinazioni culturali, possano vivere semplicemente trasportati da un costane e altissimo livello di hype. Il trittico formato da Quavo, Offeset e Takeoff, in questa gigantesca ondata di trap che sta invadendo il mondo, è riuscito a crearsi un culto personale invincibile. Tale da permettergli, se lo volessero, di campare di rendita per i prossimi anni, tanto qualcuno li chiamerà sempre per un featuring — tranne Takeoff che è uno sfigato. E proprio per questo non si capisce assolutamente il perché, a distanza di un solo anno dal solidissimo Culture, i tre decidano di pubblicare un sequel di 24 tracce (ripeto, 24 tracce) della durata di 1 ora e 45 minuti (ripeto, 1 ora e 45 minuti). Un disco che non poteva essere altro che un lunghissimo loop di soluzioni trite e ritrite, intervallato circa ogni cinque tracce da un buon pezzo, tanto che possiamo contarle sulle dita: Stif Fry, Gang Gang, White Sand, Too Playa, Made Man. Potevate fare un EP ragazzi, dai. (Lorenzo Mondaini)
PS: se volete ascoltarvi qualcosa per completare l’ascolto, andate a recuperarvi Huncho Jack, Jack Huncho di Travis Scott e Quavo.

5+/10

Nils Frahm — All Melody

Che Nils Frahm fosse qualcosa di più che un buon pianista appassionato di elettronica era già abbastanza chiaro a tutti: lo si sa da Solo, dalla colonna sonora di Victoria e dalle collaborazioni coi compagni di merende dei Nonkeen. Quest’ultimo All Melody non è da meno ed è, anzi, una bellissima sorpresa in questo inizio anno. Un’ora e un quarto di musica per 12 brani che passano dalle ballate da camera (Forever Changeless) all’ambient psichedelico (Kaleidoscope) e dalle atmosfere cinematografiche (Human Range) alla trance (#2). Ci sono i violini, i sax, le percussioni, e soprattutto c’è una perfetta sintonia tra piano e synth. Se cercate un disco da ascoltare nei momenti in cui volete isolarvi totalmente dal mondo, All Melody sembra fatto apposta per accogliervi. Nonostante in tanti abbiano cercato di portare avanti questa corrente neoclassica (come in Italia Federico Albanese) Nils Frahm resta un artista unico nel suo genere, con un talento compositivo innato che sarebbe impossibile imitare. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Human Range

8/10

Nitro — No Comment

Sembrava l’altro ieri quando il ragazzone dalla chioma bionda entrava a gamba tesa nel mondo del rap, prima come super-sorpresa all’MTV Spit, poi come direttissima new entry del collettivo Machete. Con il suo stile atipico da “figlio del metal”, la sua voce roca e tagliente e un impeccabile flow bilingue, stupiva addetti al lavoro, critica e pubblico. È passato più di un lustro dal processo di iniziazione e Nicola Albera aka Nitro si presenta in questo 2018 con un nuovo album, il terzo, dal titolo No Comment. Quest’ultimo arriva a tre anni di distanza da Suicidol (2015) e a cinque dal debutto di Danger (2013) e dimostra, purtroppo, come il nostro faccia un po’ fatica ad imparare dai propri errori. La breve carriera solista del rapper vicentino infatti è stata largamente caratterizzata da una forte confusione stilistica e da un insieme di tanti, troppi colpi a vuoto. E anche No Comment, pur se migliorando di molto la situazione, non riesce ancora a porre una pietra sopra alle incertezze in maniera definitiva. Le fragilità della vena umoristico-satirica tanto cara al nostro tendono a resistere, come nei brani DM e Infamity Show (per il quale però è stato girato un video fantastico); eccezion fatta per Chairaggione con un altro perfetto featuring di Salmo. E non mancano, di nuovo, brani mal concepiti e mal realizzati, come Ho Fatto Bene, Ok Corral (con un Mad Man oramai imbarazzante), N.V.M.L. La faccenda cambia completamente quando Nitro si butta a capofitto in atmosfere più cupe e dure, hardcore diciamo: tracce come V!olence, la doppia San Junipero, Passepartout (con il feat di Lazza, in costante crescita) e Horror Vacui rapiscono al primo ascolto, grazie anche all’eccezionale produzione di Low Kidd della 33MOB/Machete. Insomma, ci siamo quasi Nitro, ci siamo quasi. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: V!olence, Passepartout

6/10

Pop X — Musica Per Noi

Ai Pop X della scena musicale di oggi non gliene frega niente. Anzi, continuano a muoversi in un universo unico, il loro. E con Musica Per Noi si aggiunge un altro tassello ad un percorso unico e semplicemente inimitabile negli anfratti del nosense e di una sonorità che ammicca agli ormai lontani anni ’90 da una parte e che è fresca di un’unicità che solo Davide Panizza e compagni sono in grado di mettere in musica. Perché in questo nuovo album si può sentire quell’approccio naive che un po’ si era perso con Lesbianitj, un disco arricchito da pezzi pop che molte persone hanno cantato come hit dell’estate. In Musica Per Noi non cambia l’andazzo, perché il sound, le tematiche, l’utilizzo della voce, sono rimasti gli stessi; ciò che invece mi ha colpito di più è una sorta di ritorno alle origini, attraverso la riproposizione di quell’atmosfera che riuscivano a creare prima di Lesbiantij, prima di fare il grande botto. I Pop X sbeffeggiano allegramente artisti della loro stessa etichetta come Carl Brave x Franco 126 o Liberato non suonando offensivi ma solamente geniali. Il testo di Regina si muove tra nosense sociale impersonando pedofili/nazisti (what?) che sono invaghiti dalle bambine, dagli olocausti, dalle vetrine; Carablia,il mio pezzo preferito del disco, è un brano che va solo ascoltato, senza farsi domande. Parlare dei Pop X è difficilissimo, quindi scusate la lunga retorica sul nulla ma, con un gruppo che canta Yuri sono iniziati i cazzi duri, Yuri sono riniziati i tempi buri, cos’altro potrei dire se non “grazie”? E quindi, grazie. (Edoardo Piron)
Ascolta: Carablia

7/10

Portal — Ion

Un quintetto ammantato dal mistero, che si presenta sul palco bardato di strani e grotteschi indumenti, proveniente dalla lontana Australia, rispondente al nome di Portal, è tornato a mietere vittime. A 5 anni di distanza dall’ultimo Vexovoid, la Profound Lore sforna Ion, 36 minuti di schizofrenia tecnica e ritmica; una scarica di elettricità che si incarna in un muro sonoro di chitarre spericolate e batteria esasperata. Nella loro musica si mescolano vari impulsi, da una parte la vena demolitrice del death metal più tecnico (i Gorguts prima di tutti) e dall’altra l’oscurità più profonda del black metal d’avanguardia (i Deathspell Omega, insomma). In alcuni punti si sfiora addirittura il terrorismo sonoro (come su Spores), ci si ritrova catapultati in un gorgogliante abisso fatto di strane funzioni matematiche e ruggiti lovecraftiani. Una demolizione sistematica ed alienante che gode, paradossalmente, di una produzione cristallina. Un insieme di espedienti compositivi quantitativamente ridotti, ma prolifici e ben eseguiti, rende Ion un album diretto e schietto, dalle pretese limitate, ma pienamente soddisfatte. Sicuramente non un disco da ascoltare tutti i giorni, che a volte può sembrare a tal punto parossistico da essere parodia di se stesso. È comunque data per certa la coerenza compositiva dei Portal, che prendono la cosa seriamente; qui la tecnica è specchio di uno stato di schizofrenia e oscurità interiore, non affatto un gioco fine a se stesso. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Phantom

7+/10

Sfera Ebbasta — Rockstar

Mettiamo subito in chiaro una cosa: Sfera Ebbasta non è un rockstar. Semplicemente perché di rockstar, oramai, non ne esistono davvero più e quelle che vediamo sono solo dei simulacri — Dave Grohl ci crede ancora un sacco, buon per lui. Questa figura mitologica del personaggio musicale oltre-ogni-limite è oramai fossilizzata in un’epoca in cui il rock era l’elemento egemone della cultura. Ed è un bene che rimanga lì, protetta dagli stupri di ogni furbo che si auto celebra troppo. Detto questo, quella di Sfera risulterà come una grassa provocazione, ma anche la conferma di una grande verità: la bolla è esplosa e Sfera ne è uscito da vincitore, da star, appunto. E i numeri non possono che parlare chiaro: quando hai tutti i brani del tuo disco al top delle classifiche di Spotify e vendi 50k di copie in una sola settimana, significa che qualcosa si è rotto, o meglio, hai rotto. Ma il cambio di status, nella maggior parte dei casi, richiede dei sacrifici. Perché per piacere agli “altri”, devi adattarti, devi camuffarti, devi omologarti. Ed è questo il nostro caso, purtroppo. Pur se a loro modo infatti, anche Sfera Ebbasta e Charlie Charles (l’immancabile producer) si trasformano pesantemente per l’occasione, dando vita ad un disco che mantiene l’attuale infallibilità della trap ma la ricopre di sembianze e sonorità più facili da digerire. Più glitter, meno cavallini, questa è la politica — questo è il patto col diavolo, per inciso. Che per quanto odiata possa essere comunque, evidentemente funziona e di che tinta. Tanto da avere uno come Quavo (il vero trap boy del momento) in una traccia, una cosa di per sé straordinaria dato il contesto. A riguardo, tra l’altro, anche il feat con DrefGold, è totalmente azzeccato. Un passo in avanti notevole visto che quelli con il lingua-moscia di SCH avevano fatto più bene al francesino che al nostro milanese. In tutto questo “nuovo” mondo fatto di colori sgargianti e vivaci, di ritmi latini e chitarrine, di diamanti, grillz e pellicce, un po’ di cupezza sopravvive, come in Serpenti a Sonagli e XNX. E i risultati, specialmente qui, sono buoni per fortuna. Quella di Rockstar insomma è una prova sicuramente più completa e (forse) coerente della precedente omonima datata appena 2016. Peccato che questa “maturità” arrivi dopo un compromesso che svilisce, lentamente, la caratura di quello che poteva essere un artista. Ma tanto all’odore del successo non si può vincere. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: Cupido, XNX, Serpenti a Sonagli

6 ½/10

Ty Segall — Freedom’s Goblin

Un’ora e un quarto di musica preziosa. Preziosa come l’acqua nel deserto, come un fuoco nel buio più assoluto, non come un gioiello o un diamante. Freedom’s Goblin è un album necessario, ogni traccia suona in modo meraviglioso, non c’è un intoppo, mai. Diciannove brani che riportano alla luce una psichedelia garage tanto attuale quanto nascosta in uno scatolone in cantina. Il californiano è riuscito a regalarci un altro piccolo capolavoro del suo repertorio, tra fuzz acidi, fiati, batterie lo-fi e la sua voce morbida impossibile da non riconoscere. Freedom’s Goblin è in grado di alternare brani delicati a pezzi lisergici da far ribaltare gli occhi con una facilità da dover far sentire tutti piccoli piccoli. Mi viene sinceramente difficile star qui ad fare un elenco di quale brano sia meglio e del perché lo sia, perché questo disco presenta una così grande varietà di stili che sarebbe un gesto quasi spocchioso (a voi la scelta! Ad esempio la mia preferita è And, Goodnight ma non mi stupirei se qualcuno mi dicesse che la più bella è She o che ne so la folle Talkin 3). In poche parole il mio è un invito a godervi questo splendido album senza questionare troppo. (Edoardo Piron)

8/10

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