Copertina di Tommaso Casoli

MEGARECENSIONI Vol.16 — Febbraio 2018 pt.1

Febbraio con ventotto giorni / ventinove ogni quattro anni / passan corte le giornate / a contare i danni

La Caduta
La Caduta 2016–18
16 min readFeb 12, 2018

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Crater — Unheart

Una carezza. Una perla opaca dalla vongolona di Seattle. Dopo due album molto differenti, tornano i Crater con Unheart, probabilmente una delle migliori produzioni di questi primi due mesi. Entrare in questo lavoro significa cominciare un intenso commercio con atmosfere avvolgenti ed emozionali. La conduttura electropop dei pezzi non nasconde che sempre di amore si parla, ma il lavorio sofisticato e languido del duo ne contorce le sensazioni e le distanzia dalla superficie. Forti synth di decenni passati si infrangono poderosi contro una voce tenera e suadente, che si destreggia con destrezza fra pezzi molto aggressive quali Total Slugger ed altri molto intimistici come Void, una piano ballad destrutturata. Se si riesce a trovare la giusta “onda”, suppongono meglio in compagnia, questo disco scorre liscio come un olio orientale, perché è proprio la maniera, la cogenza della ripetizione che lo rendono prezioso. Cià a cui il disco ambisce è la rappresentazione dell’emozione, e vi riesce; ciò che il disco veicola è la dilatazione di un’emozione, e vi riesce elettropoppicamente. ()
Ascolta: Tutto con relax (o Total Slugger)

7+/10

Franz Ferdinand — Always Ascending

Oh, il nuovo dei Franz Ferdinand, dice che è new wave, dice che è disco. Séntiti i FF, voglio dire, gente che fa da 20 anni lo stesso impasto per gli stessi tortellini, però buoni. E infatti la title-track ingrana, prende, solletica; ma poi? Quanto poco ci vuole a fare di un lavoro, magari sudato, un disco di passaggio. Potrebbero dirmi che in questo lavoro i FF stiano francamente riflettendo su quello che hanno fatto fino ad ora, ma ad altri potrei dire che sembra stiano ciurlando nel manico. Dove sono finite quelle schitarrate che ci dicevano cos’era indie e cosa no? Adesso, co ’sta storia dell’itpop? Non possiamo permettercelo. Questo disco è probabilmente dedicato ai Franz Ferdinand di un tempo, come fossero di nuovo giovani, come fossero al loro primo lavoro, col bagaglio culturale e musicale di una band di ventenni. Per fortuna non lo sono, perché questo disco lo comprerebbero veramente in pochi. Mi domando se questo disco nasca per il loro pubblico antico, o siano in cerca di uno nuovo. Come a dire, io — per me — non sto ascoltando questo disco per sentire qualcosa di nuovo, sto ascoltando questo disco per sapere cosa hanno da offrire i Franz Ferdinand. Voi invece avete fatto un disco tanto per sdrammatizzare, e siete piacioni, ce lo sapete, ma poco altruisti. ()
Ascolta: Feel the Love Go

6 — /10

Futbolín — Shy Guys, Malmo Days

Il primo s/t era uscito a ottobre del 2015 e si era fatto notare per le chitarre pulite e la giusta dose di emo e di math rock. I Futbolín son da Verona ziocan, suonano in tre e han fatto uscire un nuovo dischetto di sei pezzi che dura poco più di dieci minuti ed è uno spasso perché i ragazzi hanno un tiro pazzesco, son bravi a fare gli architetti e a farci divertire con qualcosa che dura poco e che ha mille cambiamenti, c’è tanto core e tanto lavoro nella costruzione dei pezzi — penso a quella bellezza fresca di Couch, canzone folle X ragazzi folli. Ma questo Shy Guys, Malmo Days è tutto un sali e scendi, un ascolto divertito e inaspettato che solo lascia immaginare cosa sia partecipare a un loro live (vediamoci presto) e sorrisi e carica e non è mica vero che ci ha stufato questo screamo-math-emo se fatto bene e con intelligenza, anzi come dicono proprio i Futbolín: “it is not the record that will change your life, but the one that will change ours”. French Fries, Filters sono pezzi che si ascoltano tutto d’un fiato, che ti tengono attaccato e ti fan battere il piede veloce veloce, per ricordarci che c’è sempre da correre da qualche parte. Che sia per andare a lavorare, a divertirsi, a ber qualcosa, a fare a pugni, a tirar due calci ad un pallone: andiamoci con (Greetings From) Malmo nelle cuffie, ci arriveremo con la giusta carica. ()
Ascolta: Couch, (Greetings From) Malmo

7+/10

Il Gentiluomo — Sole

Quando mi dicono “ma tu che fai recensioni ogni mese di band emergenti, consigliami qualcosa” di solito non mi viene mai nulla in mente o, almeno, non consiglio con grande eccitazione molti album. Devo dire che qualche giorno fa quando mi è stata posta la domanda sopracitata, la band Il Gentiluomo mi è venuta in mente subito. C’è qualcosa di puro, onesto e sincero nel trio genovese che con l’album d’esordio Sole mi ha schiaffeggiato inaspettatamente il volto, con delicatezza e malinconia. Otto brani dolcemente lo-fi, con testi alle volte ironici alle volte sinceri ma mai banali, che si poggiano sulla solita struttura basso­-chitarra-batteria con una bella consapevolezza creata dall’interessante capacità di scrittura e di arrangiamenti, che non è nulla di incredibilmente complicato ma che si dimostra ben fatto. Ci sono brani molto piacevoli come Sigmondo Freddo e Via Pà e un paio che sono “skippabili” come Elefanti e Falena. Resta un album fresco e davvero piacevole, bravoni. ()
Ascolta: Sigmondo Freddo

6½/10

JPEGMAFIA — Veteran

Da Baltimore, Maryland, passando anche per Brooklyn, l’Alabama e L.A., giunge la trap di Peggy aka JPEGMAFIA, che con il suo nuovo album Veteran infuoca una nazione sporca di razzismo e suprematismo bianco urlandole in faccia senza veli tutto il proprio incazzo. Sono molti i bersagli contro cui l’ex militare (da qui potete facilmente comprendere il titolo dell’album) si scaglia con furia in questo suo quarto lavoro uscito lo scorso 19 gennaio per l’etichetta Deathbomb Arc: dai “bianchi del cazzo” in generale, contro cui scatena una vera e propria guerra verbale (non la scampano neanche il connazionale “color piscio” Logic e Drake), fino all’odiata alt-right, passando per la proclamata uccisione del già cadaverico rock (Rock N Roll is Dead) con buona pace di fantocci del passato come Johnny Rotten e quella “figa bianca” di Morrissey (nel caso non fosse chiaro un pezzo intitolato I Cannot Fucking Wait Until Morrissey Dies). Veteran è soprattutto trap fuori dal comune, per quanto vada specificato che parliamo di un genere che sta attraversando una costante evoluzione: i beat, prodotti dallo stesso Peggy, seguono pattern instabili, fatti di glitch e percussioni caotiche che suonano tanto cattive quanto le parole del rapper; si tratta di suoni minimali, dalle tinte quasi ipnotiche e più facilmente ricollegabili all’elettronica sperimentale o al noise che alla trap a cui siamo abituati (quella dei Migos per intenderci). Con Veteran JPEGMAFIA ha lasciato cadere una bomba sul mondo dell’hip-hop, di una rilevanza politica e musicale enorme che nel 2018 non deve assolutamente passare sottotraccia. Io vi ho avvertiti. ()
Ascolta: Thug Tears, Baby I’m Bleeding (ma se non lo ascolti tutto sei un bianco del cazzo)

9/10

*Meteor — Magic Pandemonio

Se ne parlava che erano cinque anni fa: imbandendo la tavola di libagioni a cavallo tra cucina molecolare e pane e salame della tradizione i Meteor distribuivano sferzate di estremismo sonoro, in un rapporto legato a doppio filo tra performance live e convivialità goliardica da osteria. Ora, non siamo più aggiornati circa il loro rapporto con il cibo, tutto ciò che sappiamo è che hanno pubblicato un nuovo disco, che si intitola Magic Pandemonio e che ne parleremo, ancora, con costanti riferimenti alimentari.
Cinque anni per digerire il pranzo sono, a onor del vero, parecchi ma la portata strumentale del duo bresciano è piuttosto complessa da sintetizzare, anche per gli “addetti ai lavori”, anche per loro — che tra side project, tour e vita, presumibilmente, hanno avuto il loro da fare; i Lighting Bolt, l’esprìt eclettico di John Zorn e l’istrionismo a là Mike Patton sono gli ingredienti più impiegati nella preparazione delle ricette di chef Meteor, squisitamente ambivalenti tra un carattere libero ed arrogante da jam session e la cura maniacale di un Jiro Ono alla ricerca della perfezione. Però il tempo passa e la cucina cambia, portando con sé l’espressione delle differenze e un ampliamento delle esperienze gustative. Pur non variando gli elementi strutturali della loro tradizione i Meteor aprono all’esplorazione di gusti più esotici: ecco quindi l’acido e il piccante di intromissioni elettroniche e campionamenti che dialogano violentemente con l’esuberanza tecnica e stilistica di chitarra e batteria, tutto concentrato in una brevità ricchissima di sapori che giocano a sostituirsi senza tregua. Cò Còl E Raspe era un pranzo, complesso certo, con piatti sperimentali e accattivanti sicuramente, ma pur sempre un pranzo composto di portate laddove Magic Pandemonio rifugge questo schema, annulla l’ordine e mischia tutto in un frullato ultraproteico di suoni pronti ad esplodere. Tutto è votato all’esagerazione fino al parossismo, oltre il confine dell’esperimento culinario: qui non c’è più cucina molecolare o tradizione, azoto o insaccato, qui cade la differenza, qui siamo nella cucina spaziale. (Giacomo Bergantini)

MGMT — Little Dark Age

Gli MGMT sono uno di quei gruppi che, per quanto mi riguarda, hanno una fetta del mio cuore. Poco importa se ciò dipende quasi esclusivamente dalla nostalgia per pezzi come Time to Pretend o Kids, e se negli ultimi anni hanno attraversato più di una fase di appannamento: si tratta sempre della colonna sonora di parte della mia adolescenza. Negli ultimi mesi l’uscita del singolo Little Dark Age mi aveva fatto drizzare di nuovo le orecchie; un suono nuovo — più cupo, con più sequencer e lontano dall’immaginario hippy a cui eravamo abituati — e soprattutto l’orecchiabilità del brano sono bastati per far salire l’hype. Il disco ha in parte soddisfatto le aspettative, ha un tiro giusto, c’è il giusto equilibrio tra revival nostalgico e sound fresco e alcuni pezzi sono solidi (quasi) quanto la title-track (When You Die, TSLAMP, One Thing Left to Try). L’unica pecca è che se Little Dark Age è molto vicino a lavori come Currents dei Tame Impala o RAM dei Daft Punk, a differenza di questi due nomi agli MGMT è mancato ancora una volta il carattere per creare un’opera veramente d’impatto, da riascoltare a distanza di anni come le hit che li hanno resi famosi. ()
Ascolta: Little Dark Age

7/10

No Age — Snares like a Haircut

Randall & Spunt, mattatori dei muri sonori pseudo-hc, fatti da chi ha sentito tanto post e tanto pop, sono di nuovo in pista, per Drag City Records. Con Snares Like A Haircut siamo al quinto LP e questi due ragazzi avanzano con un vessillo ben chiaro, che oramai molti hanno imparato a conoscere ed apprezzare. Con una certa dose di minimalismo, volontario o di maniera, i due riescono a ridurre il noise ad una prospettiva pittorica con cui ridiscutono delle scansioni molto pop e, probabilmente per questo, abbastanza accattivanti. Roba alla Pollard, forse, si ma anche i nostri Fluxus no? Con l’eccezione di Send Me, in cui i tonti vagheggiano serenate wave alla Cure o alla TFF, il resto si barcamena fra una buona carica esplosiva ed una dimenticabile voglia di salutare il nuovo della vita, il meraviglioso. Quello che concediamo alla band è di riuscire a slegare i toni più duri in funzione di una certa vena compositiva armonica; quello che non possiamo sostenere, invece, sono le sferzate acid che ci ributtano indietro di 30 anni nel peggiore dei modi. La questione non è del tutto marginale se la si inquadra nella maniera seguente: se è lecito aspettarsi un miglioramento dei testi, in funzione di una acquisizione di consapevolezza (?) o di maturità musicale (?), perché dovrebbe essere altrettanto lecito aspettarsi un miglioramento del gusto, dopo cinque album? ()
Ascolta: Send Me

6+/10

Palazzi d’Oriente — Morgengabe EP

Al debutto con questo Morgengabe EP, Palazzi d’Oriente è da solo e unisce downtempo con elettronica e house, in un tripudio di suoni e ambientazioni che ci fan viaggiare duro per un quarto d’ora abbondante. L’intro-title track soffusa e dall’andamento lento ci trascina piano piano verso la cassa dritta e le deviazioni sempre dietro l’angolo di AL91, PEZZONE cavalcata di cinque minuti tra stacchi e riprese, tunz tunz e suoni malati, quelle vibrazioni che ti fan chiudere gli occhi e ti dicono relax, abbandonati, segui questo flusso interminabile, che ti porta sulle montagne russe, che dispensa play & pause, momenti distesi ed altri in cui i bpm si alzano vertiginosamente fino a farci decollare. Last time we spoke (we were in the car) ha quel sospeso-potenziale-andante che ricorda il buon Lorenzo Senni, ma che non parte mai, è un piccolo interludio, una trappola tesa per trascinarci rapidi verso la fine del quarto d’ora con Palazzi d’Oriente, che ci dà il ben servito dell’arrivederci. Atmosfere rarefatte, c’è un cumulo di nebbia spessa che ci oscura la vista, non c’è niente in fondo alla strada, solo banchi bassi che ci tolgono il respiro dell’orizzonte, improvvisamente Alison appare e possiamo correrle incontro, abbracciarla. Eppure rimaniamo fermi ancora un po’, a goderci la vista, e forse incerti aspettiamo sia lei a fare il primo passo. Ci viene incontro a metà della canzone e inizia a ballare con noi, entra una chitarra, ci uniamo in un abbraccio. Ci lasciamo andare mentre cala il silenzio, mentre ci guardano dall’alto i Palazzi d’Oriente. ()
Ascolta: Alison, AL91

7/10

Rhye — Blood

Mi sono innamorato dei Rhye appena hanno iniziato a suonare al Pitchfork di Parigi nel 2015 e ad oggi non riesco ancora ad ascoltarli senza pensare alla bellezza e alla precisione di quel concerto, quindi va da sé che non riuscirò ad essere troppo imparziale in questa recensione. Ci sono voluti ben cinque anni di attesa per il seguito di Woman, un album delicato ma mai noioso, pieno di formalismi estetici ma mai pretenzioso, e dopo tutto questo tempo ci troviamo di fronte ad un secondo LP che è praticamente identico al precedente. Ora, eticamente si potrebbe parlare di una scelta deludente, soprattutto se si pensa ai cambiamenti che Milosh ha dovuto affrontare prima di realizzare questo disco (l’addio della seconda metà del progetto Robin Hannibal e il divorzio dalla moglie, ovvero la “woman” del primo album). È un po’ come se il canadese abbia semplicemente rimpiazzato il suo ex compagno di band con qualche produttore e la sua ex moglie con una nuova fidanzata da immortalare nuda e in bianco e nero in copertina. Dato che però non sono né uno psicologo né un amante del gossip dirò che tutti i brani di Blood sono allo stesso livello di quelli di Woman; al di là della somiglianza me li ascolterò in loop a prescindere e sarò comunque soddisfatto. Non sempre novità vuol dire miglioramento. ()
Ascolta: Taste

8/10

Rich Brian — Amen

Da Giacarta con furore, è sbarcato negli Stati Uniti Rich Brian: il rapper classe 1999 Brian Imanuel (conosciuto in precedenza come Rich Chigga) è uno dei nomi di punta di 88rising, l’etichetta americana di Sean Miyashiro che negli ultimi tre anni ha lanciato diversi fenomeni asiatici del web, tra i quali figura anche l’ex-Pink Guy George Miller (aka Joji). Il suo primo album Amen non potrebbe fornire prova più concreta di questa adozione americana: l’indonesiano utilizza un linguaggio estremamente ironico ed uno stile musicale che attinge evidentemente a piene mani dal gusto di autori estroversi come Tyler, The Creator o Macklemore, influenze dichiarate tra l’altro dallo stesso Brian. La sua voce baritonale evoca episodi autobiografici circondati da una notevole dose di comicità: impossibile non spassarsela ascoltando storie come quella raccontata in Kitty. Brian racconta la propria crescita personale attraverso il rapporto con internet ed il contatto con l’attuale panorama musicale americano, ma la narrazione del ragazzo manca di solidità e trova nella monotonia dei temi (e dei beat, molti dei quali prodotti da lui stesso) affrontati l’ostacolo principale per dare solidità alla sua opera prima. Non mancano certo pezzi più affascinanti, come ad esempio Introvert, e c’è abbastanza in questo disco da far presagire un’ulteriore crescita di Brian, la cui forza sta sicuramente nella sincerità con cui racconta se stesso. Il potenziale c’è, bisogna solo aver pazienza: amen. ()
Ascolta: Introvert (feat. Joji), Kitty

7/10

Shame — Song of Praise

Un genere poco in voga l’alt-punk, una robina targata UK che andava forte una ventina di anni fa e che, superato forse soltanto dal grime, a contribuito a far deflagrare il punk classico, quando già l’indie era poco più di una chiacchiera. Questa roba qui gli Shame la sanno fare, e la cosa positiva è che non l’hanno sempre saputo fare. Pezzi come Gold Hole e Tasteless segnano il passo con il definitivo abbandono di formule atlantiste powerpop, in funzione di pezzettone orientate verso il post-punk. Certo non è facile dire molto di più su un album simile, molto compatto, senza diavolerie e dal gusto molto ottantino. La ritmica è basilare, la chitarra segue — gli stilemi sono punk-rock, e stiamo sostenendo che tale dizione significhi qualcosa, tipo i Descendents o solo Egerton. Ce ne dimenticheremo in fretta? Forse, ma è pur sempre punk. Probabilmente è proprio questione di una sensazione, non tanto di piacere di o di dispiacere, quanto di concrete, tanto per fare un citazione veramente priva di senso. ()
Ascolta: Concrete

6½/10

STORM{O} — Ere

Il mezzo al numeroso arsenale della scena HC italiana, gli STORM{O} rappresentano sicuramente una delle lame più affilate. Sicuramente molti ne avranno sentito parlare, visto l’ottimo successo del loro precedente album Sospesi nel Vuoto bruceremo in un attimo e il cerchio sarà chiuso; se così non è stato, allora questo è il momento giusto per rimediare. Ere ci si presenta a ben 4 anni di distanza dal suo predecessore, lasso di tempo riempito da un attività sul palco veramente invidiabile. Prima di cercare di approfondire e snocciolare il disco, occorre metterne in luce la sua compattezza e linearità ( si potrebbe dire “monotonia”, ma risulterebbe fraintendibile e negativo, quando la situazione è tutt’altra). La ricetta sonora degli STORM{O} è rimasta la solita, con la batteria schizofrenicamente maestosa, il basso profondo e tangibile una chitarra estremamente graffiante e un cantato dal timbro vocale particolare e azzeccatissimo. Dopo aver sentito Ere, risulta per il sottoscritto difficile dilungarsi in analisi tecniche, stilistiche e chi più ne ha più ne metta. Mi sento di dire questo: gli STORM{O} rappresentano una delle realtà hardcore più apprezzabili del nostro paese, in quanto riescono a cristallizzare tematiche difficili (l’abbandono, lo scorrere del tempo, l’amore, la precarietà dell’uomo) in un involucro capace di rilasciare una potenza sonora allucinante, che in canzoni come Stasi non esito ad avvicinare a quella dei Converge. Una musica lineare, ma allo stesso tempo colma di numerosi espedienti tecnici e compositivi. Detto questo, non sento di dovermi dilungare oltre; Ere, così come il suo predecessore, è un’istantanea esplosione di passione e violenza, talmente istantanea che risulta difficile soffermarsi sui singoli tasselli. Gode inoltre di una produzione più curata e cristallina rispetto a Sospesi nel Vuoto, che mette in mostra la loro maggiore maturità e compattezza sotto ogni aspetto. Un disco fondamentale sia per la scena italiana in toto, sia per gli STORM{O}, che sicuramente vedranno dischiudersi davanti a loro orizzonti molto più vasti. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Stasi

8/10

Thier — Lie Still, Play Dead

Thier è di Napoli, canta in inglese e tra i tag di bandcamp c’è scritto che weird folk. Strano perché Thier riesce a costruire melodie con poco e ha scelto dei suoni e delle atmosfere per i suoi arrangiamenti che valorizzano le canzoni. Un folk con qualche accordo e tanto cuore, come nella migliore tradizione. Particolare è la scelta dell’inglese che non infastidisce, ma anzi colpisce per la buona scrittura. E se Wonderful Bodies è la perla del disco, Fingers in the Sky è un divertissement melodico. Una voce che a tratti ricorda quella del caro Sparklehorse e a tratti riesuma Jonsi dall’oltretomba della mia memoria — Thier sembra avere la naturale capacità di creare ambienti profondi e riverberi da vallata, dosando le pause e le riprese, dandoci la possibilità di respirare e di poterlo ascoltare con attenzione. Su tutto, Two Steps, ballata un po’ Radiohead, ci regala la pace dei sensi per un po’, portandoci lentamente verso la coda finale di One of Us e Lie Still, Play Dead, title track del disco. Con Lie Still, Play Dead, Thier sottolinea la sua capacità di edificare luoghi emotivi con poco: basta una piccola melodia, quando gli strumenti e le strutture si conoscono bene; e basta un cenno per capirsi, talvolta. ()
Ascolta: Wonderful Bodies, Two Steps, Lie Still, Play Dead

6½/10

Tune-Yards — I Can Feel You Creep Into My Private Life

Quarto disco per i Tune-Yards, fra lo snervante e l’intrigo internazionale. Di primo acchito alcune scelte sonore sembrano raffinate, quasi baroque, ma sorprendente, ad un secondo ascolto, poco o nulla lascia il segno, nonostante ci sia buon materiale da fare uscire in singolo, o più precisamente, buoni motivetti. Somaticamente parlando le direttive sono date da una curvature funk di qualche classicone pop, il cui amalgama riesce piuttosto bene grazie ad una voce asciutta e dirompente, Coast to coast sarebbe veramente poca roba senza quei cori a denti stretti, per dirne una. D’altro canto si sente che I TY ci hanno anche un po’ preso gusto, specie sui vocalizzi, in fase di produzione o di mixaggio; tanto che piano piano sembra formarsi l’idea che i nostri abbiano tentato di appiopparci un ventaglio dignitoso di trovate musicali, più che un vero e proprio prodotto finito (anche perché, rimane diversamente inspiegabile perché la semi title-track sia anche la canzone meno orecchiabile del disco). Funziona su Now as Then, meno sul resto del disco. Ad un certo punto sembrano però accorgersi del fattaccio, e vanno giù di tempo, in direzione ballad, con strumentazione cadenzata e super-soft. Nuove scelte musicali, poca accortezza nei testi, e tanti complimenti alla mamma per i timbri, mica niente. ()
Ascolta: Coast to Coast

6/10

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