Copertina di Tommaso Casoli

MEGARECENSIONI Vol.16 — Febbraio 2018 pt.2

Febbraio con ventotto giorni / ventinove ogni quattro anni / passan corte le giornate / a contare i danni

La Caduta
La Caduta 2016–18
17 min readFeb 26, 2018

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A.A.L (Against All Logic) — 2012–2017

Nicolas Jaar ha rispolverato il suo alias A.A.L (Against All Logic), finora usato per qualche sporadico singolo e EP, e ha pubblicato un disco di cui non si è accorto nessuno per una settimana. Rispetto agli ultimi lavori ufficiali del cileno, sempre più cupi e sperimentali, 2012–2017 è una raccolta di brani decisamente più classici e pieni di sample nostalgici (in mezzo c’è anche I Am a God di Kanye West). Si parte con un po’ di soul glitchato e poi via di house per un’ora. In realtà si tratta quasi interamente di brani già usciti negli ultimi sei anni, riorganizzati da Jaar in un ordine che sembra quasi una poesia (provate a leggere di fila tutti i titoli sulla copertina) e anche se non siamo davanti ad un nuovo Sirens si sente comunque il timbro unico del produttore, che riesce ad essere cool anche quando suona frivolo e anni ’80. In assenza della politica e del cantato da crooner saranno contenti tutti quelli che rimpiangevano la cassa dritta di Mi Mujer. ()
Ascolta: Know You

7/10

Above & BeyondCommon Grounds

Il trio trance londinese porta sul mercato un album di trance dalle enormi venature pop. No aspè, un album pop con qualche venatura trance. Un disco composto da tredici tracce di cui 10 featuring con alcuni dei più noti collaboratori: ritroveremo Richard Bedford, Zoe Johnston e così via. Dieci tracce scialbe, canzonette da estate in grado di accaparrarsi qualche ascoltatore nelle radio di settore e di tirare su views e plays sui vari siti di streaming audio video. La classe che il trio londinese aveva mostrato in ambito compositivo melodico nel corso degli anni, palesata in album come tri-state o in platter incredibilmente rafficanti come il loro Acoustic sembra svanita nell’etere ormai sovraffollato di melodie pacchiane e aspirazioni Big Room. Uniche luci in questo buio due o tre tracce, molto più notturne per mood ed in grado di presentare con un po’ di originalità una trance pomposa ma ragionata, capace di suonare come più di un jingle durante l’intera canzone piuttosto che concentrarsi in ritornelli davvero poco memorabili. Sarà per la prossima volta. ()
Ascolta: Is It Love? (1001)

5/10

Calibro 35 — DECADE

I Calibro 35 sono un universo in cui è necessario entrare se nel corso della vita si ha amato almeno una volta un album jazz/funk dai tratti psichedelici. Ed essendo un genere che difficilmente trova hater e non lover, beh allora è obbligo buttarsi dentro il sound incredibile dei Calibro 35. Dopo il precedente disco che li vedeva muoversi nello spazio a bordo di una navicella (S.P.A.C.E.), tornano sulle quattro ruote tra sigarette e pistole, illuminati dalla luce blu della sirena della polizia: gli amati poliziotteschi ritornano nell’immaginario della band di adozione milanese e a questo genere cinematografico riescono a regalare un’altra immaginaria colonna sonora. Un impatto pazzesco già in apertura, tra etno-jazz e funk orchestrale, tutto si muove sinuoso grazie ad una scrittura unica, esperta e che ammicca al passato ma che scivola verso il progresso. L’intera discografia è un dovere e trovo abbastanza irrilevante soffermarsi su alcuni brani, perché l’unica cosa è lasciarsi trasportare e creare immagini di un passato mai toccato, di un presente mai assaporato e di un futuro tutt’ora da ammirare. ()
Ascolta: Tutto

7/10

Chaos Echoes — Mouvement

Che il metal estremo catalogato come avantgarde vada forte di questi tempi è un dato accertato; i Chaos Echoes, dalla Francia, si inseriscono, a modo loro, in questo ricchissimo filone. Nel loro caso, infatti, il termine avantgarde non sta semplicemente a significare alla Deathspell Omega, come la maggior parte delle volte. Partendo da una base death metal, sotterrata sotto tonnellate di infusioni avanguardistiche e sonorità schizofrenicamente geometriche, arrivano a produrre Mouvement. 32 minuti di musica strumentale, focalizzata sull’esecuzione tanto da arrivare in alcuni punti a raggiungere climax e stratificazioni quasi orchestrali (come sulla quinta traccia). Punto di forza fondamentale dell’album è il suo bilanciamento, mai errato, di tecnicismi e sonorità alienanti. Pur mettendo in mostra un bagaglio di espedienti esecutivi che la maggior parte dei così detti gruppi avantgarde si può soltanto sognare, riesce a ricreare sonorità che nella loro ciclicità, ridondanza e schizofrenia finiscono per alienare mente e corpo. La batteria non manca di assumere movenze e ritmi demoniaci, ma allo stesso tempo sorprende con stacchi e cambi di tempo di gran classe; le chitarre rimangono fedeli al canone, strutturate su scale e giri di note ripetuti avanti e indietro, cicliche e graffianti (seguendo da vicino lo stile dei Portal e, perché no, anche dei Deathspell Omega). Ancora di volta vi presento un gruppo di cui non avevo mai sentito parlare e che si è rivelato una piacevole scoperta. È pur vero che una volta che si conoscono fino in fondo i paradigmi dei Deathspell e dei Gorguts, non si è mai completamente sorpresi o spiazzati da gruppi come i Chaos Echoes. Nonostante ciò questo Mouvement riserva delle piccole vene d’ispirazione, che renderanno l’ascolto veloce, indolore e soprattutto stimolante. Questo perché, a differenza di molti altri gruppi della stessa scuola, riescono a mantenere l’ascoltatore attaccato al pezzo e attento ad ogni sussulto, senza lasciarlo vagare senza meta in abissi di distorsioni esagerate e blast beat logorroici. ()
Ascolta: As an Embraceable Magma

7½/10

Cucineremo Ciambelle — Fingere di essere ciò che si è

Cucineremo Ciambelle senza buco, faremo un po’ quel che ci va, ci spiaggeremo tra arpeggi e pensieri che se espressi ad alta voce possano ridirci qualcosa, faremo finta di essere ciò che siamo — che è una cosa difficile e strana a pensarci. Ecco i CiCi con il loro disco di esordio, via V4V, col supporto morale e amico di Bart dei Cosmetic, raccontarci perché ci costringiamo ad ergere muri di banalità e di finzione per non svelar più noi stessi, perché non lo sappiamo o perché forse lo sappiamo da sempre che il mondo vuole la recita, la comodità, la normalità. Oltre il concept, c’è tanta musica in Fingere di essere ciò che si è: emone bellone from Romagna (patria e fucina delle chitarre tristi), con le s e le z sussurrate, hammer on pull off e un suono compatto, una declinazione del genere personale e genuina, al di là dei riferimenti, oltre i paragoni. Cucineremo Ciambelle ci regalano mezz’ora di pace e di riflessione, un dischetto da goderselo tutto di colpo, senza saltare un pezzo, senza cambiare stazione; camminando in pace sul litorale adriatico, sul lungomare più sentito d’Italia, con l’immagine di dolci colli e di quel mare placido, sempre uguale. PS. Ah dì, andateli a vedere live i CiCi, che meritano un vallo. ()
Ascolta: Arancione, Anatema, Seppelliscimi

7/10

Dream Weapon Ritual — The Uncanny Little Sparrows

Merito della Boring Machines, tra i tanti negli anni, è quello di aver curato una ricerca minuziosa e scientifica tale da restituire, compatta, l’identità frammentata di un particolarissimo panorama musicale: quello della sperimentazione rituale, del drone sciamanico, dell’ambient meditativo, aka la psichedelia occulta italiana (e non solo). Una mappatura di genere così accurata ed elastica da evocare, al solo nominarla, l’intero spettro di suoni possibili con la sicurezza di essere nel giusto. Un merito grande, quello della Boring, e di tutti gli artisti che ne compongono l’universo, tra i quali i Dream Weapon Ritual sono certamente un caso esemplare. Fuori per Boring Machine già nel 2014 con Ebb & Flow, la creatura di Simon Balestrazzi — veterano dell’etichetta — e Monica Serra torna nella scuderia trevigiana con un nuovo disco ricchissimo: The Uncanny Little Sparrows, pubblicato il primo dicembre del 2017, cinque tracce per 40 minuti di musica, un sunto perfetto di quello che si intende quando si parla di psichedelia occulta. Forti della più che comprovata esperienza individuale — Balestrazzi è attivo dagli anni ’80 sotto diverse identità, la Serra dal ’99 ed entrambi fuoriescono dagli storici T.A.C. (Tomografia Assiale Computerizzata) — i due intrecciano una trama musicale complessa, tra paesaggistica sonora drone e visioni folk elettroacustiche, in cui l’attesa gioca un senso fondamentale. A dominare sono infatti le atmosfere tese, nervose ed esasperate -evocate dai Dream Weapon Ritual dall’uso centellinato di una incredibile varietà di strumenti e campioni sonori assieme ai vocalizzi flemmatici dei due- in cui la ripetizione ossessiva e la continuità catalizzano le energie senza tuttavia offrire momenti di rilascio. Un senso di disagio certamente calcolato e prescritto dai due al punto che nell’ascoltatore, ormai perso nel mondo disegnato in The Uncanny Little Sparrows, questa asimmetria tra realtà ed aspettativa si risolve nell’attesa di un Godot che non arriva e mai lo farà. Ed è questa assenza, protagonista tanto quanto i suoni o le voci o Balestrazzi e Serra stessi, a rendere The Uncanny Little Sparrows un disco di una qualità delicata e squisita: un piccolo occulto gioiello psichedelico italiano. (Giacomo Bergantini)

8/10

Harm’s Way — Posthuman

Giuntomi sott’occhio per caso, questo gruppo americano ha impiegato pochi istanti per conquistarmi con la sua potenza. Gli Harm’s Way propongono una rilettura canonica, ma allo stesso tempo impreziosita da modernismi, dell’hardcore made in the USA più graffiante e cadenzato, sulla scia dei classici Terror ed affini. Abbiamo una grancassa scatenata e martellante, una voce acherontica, tutto costruito su una solida base di stilemi classici, che potranno non sorprendere, ma che non possono non trascinare. Cosa estremamente ben contestualizzata sono i brevi inserti di sonorità metalliche care al paradigma industrial, come all’inizio di Last Man, tanto potente da rinnovare i connotati. Un gruppo che sicuramente non rinnega nulla delle sue origini sonore (c’è da aggiungere che sono nati come gruppo power-violence), che riesce allo stesso tempo a non cadere nel banale e ad arricchire l’ascolto con cambi di ritmo, distendendo il respiro su pezzi come Temptation, o abbandonandosi interamente a sonorità industrial come su The Gift. Posthuman album da divorare e digerire, assimilare. Un toccasana per lo spirito, tra breakdown monolitici (Become a Machine), dissonanze quasi meshugghiane e sentore di sangue e fango, in mezzo alla polvere dei circle pit mentali che sbocceranno tra le sinapsi. Il tutto, da ribadire, con pulizia sonora, precisione e raffinatezza. Dieci brani, dieci missili aria-terra recapitati dallo Zio Sam; nulla da aggiungere ad un album che nella sua schiettezza tutt’altro che banale vi regalerà dei bei momenti di intransigenza sonora. ()
Ascolta: Temptation

7/10

Hikes — Lilt

Sono anni oramai che la To Lose La Track ci delizia con buona musica, con una particolare dedizione a provocare tanti feels, tra pianti collettivi, urla, abbracci e un sacco di gioia. Il fondatore Luca Benni ha dimostrato, negli anni, di non saper solo lanciare una serie di band che lasciano il segno, nel pubblico come nella critica, ma anche di scovare diciamo, di tanto in tanto, gruppi e artisti provenienti dal resto del mondo. Come non ricordare, per fare qualche esempio, le uscite dei compianti Crash of Rhinos (😢) o dei fenomenali SURVIVE — quelli di Stranger Things insomma. Anche il 2017 comunque, in casa TLLT, è stato segnato da alcune pubblicazioni extra-italiane. La più interessante, senza dubbi, è quella degli Hikes, originari di Austin, Texas, culla del famoso SXSW e nuova Babilonia del multiculturalismo. Nel loro terzo long playing, dal titolo Lilt, prende nuovamente vita questa personalissima formula a metà fra math-rock e folk, sempre avvolta in atmosfere emo-rock. La brevità della nuova prova (solo quattro pezzi) viene controbilanciata da una qualità sopraffina e da una maggiore cura compositiva, forse un po’ assente nelle precedenti. La solita tela geometrica tessa dal chitarrista/cantante e principale compositore Nathan Wilkins viene ora accompagnata da una sezione ritmica più dolce e intima, instaurando un dualismo armonico ben rintracciabile in ogni traccia. Questa naturale evoluzione rappresenta il vero punto di forza del nuovo disco. Un processo a cui ha preso parte Takaaki Mino, chitarrista della storica band giapponese Toe, che impreziosisce il tutto con qualche sonorità più pazza e grezza del solito. Quella del quartetto americano è l’ennesima dimostrazione di quanta bellezza nascosta ci sia nel mondo. Se questo è il livello del talent scouting del caro Benni, speriamo che la TLLT diventi presto una label transnazionale. ()
Ascolta: Habit

7 — /10

Kendrick Lamar — Black Panther: The Album — Music from and Inspired By

Non ho visto Black Panther e onestamente non ho fretta di recuperare, la mia conoscenza dei film Marvel si ferma ai primi Spiderman con Tobey Maguire. Al di là di questo mio limite ho però apprezzato il lavoro creativo che c’è stato dietro la produzione del film, il fatto che si contrapponga alla whiteness degli altri franchise e soprattutto la decisione di far curare a Kendrick Lamar e alla TDE un album parallelo alla colonna sonora dell’ottimo produttore svedese Ludwig Göransson (architetto del suono di Childish Gambino). Anche spogliato della sua funzione principale, Black Panther: The Album risulta un ottimo disco rap corale. Dentro ci sono più o meno tutti: i compagni di label ScHoolboy Q, SZA, Jay Rock e Ab-Soul; i nomi grossi come Travis Scott, 2 Chainz, Future e The Weeknd; i nomi pregiati come Vince Staples, James Blake, Anderson .Paak, Khalid, Swae Lee (Rae Sremmurd) e la bravissima Jorja Smith. Con tutti questi artisti il rischio era un mappazzone di roba sconnessa e senza cuore, invece K-Dot e il boss di TDE Anthony Tiffith sono stati bravi a creare un concept coerente, aiutati anche da gente come DJ Dahi, BADBADNOTGOOD e Mike Will Made It in produzione. Tra i momenti più alti ci sono il tiro di X (soprattutto il verso di 2 Chainz), Vince Staples che in Opps continua a rappare in modo perfetto sull’elettronica e Jorja Smith che in I Am conferma di essere molto più che “la tipa inglese finita sul disco di Drake”. Gran bel lavoro. ()
Ascolta: X (ft. ScHoolboy Q, 2 Chainz, Saudi)

7½/10

Ought — Room Inside The World

Dopo tre anni dal Canada di nuovo gli Ought, band che si fece notare quattro anni fa, quando pubblicò More Than Any Other Day, risultato di un incontro, dichiarazione d’intenti di proteste studentesche in Quebec di due anni prima; in quella occasione si tornò a parlare di politica, vennero riesumati nomi come Velvet Underground, Talking Heads, Arcade Fire, per un’attitudine musicale e per una particolare estetica. Gli Ought che bruciano la scena con il esordio pubblicano il sophomore Sun Coming Down solo un anno dopo, poi silenzio. Un giorno ti svegli ed è uscito Room Inside The World, che è il terzo disco di questa band tutta particolare perché per me capace di scrivere canzoni che sono crasi e rivisitazioni musicali dei suoni di quelle band di cui sopra. Direte: assurdo, è retromania, la solita storia; ma se ascolto pezzi come Disaffectation o Brief Shield ne riconosco una sincerità compositiva ed emotiva, ed è d’obbligo dirlo. Così come finire l’ascolto integrale per ripartire, ma stando attenti alla selezione, apprezzandone i particolari e le sporcature nella ritmica o nella voce — sentire lo spazio concreto dello studio, la presa diretta — e la fine languida di Alice. Un disco che porta avanti la sperimentazione e le ambientazioni tutte particolari che gli Ought sono in grado di costruire. Un play e due curiosità in più sui ragazzi non vi faranno male. Ye. ()
Ascolta: Disaffectation, Brief Shield, Disgraced in America

7+/10

Pianos Become The Teeth — Wait For Love

Fake Lightning inizia roboante, Charisma vince la sfida del refrain più pop del piatto, la coda di Dry Spells spezzerà sicuramente qualche cuore e Wait For Love finisce per non essere di sicuro il primo disco felice dei Pianos Become the teeth come tutti dicevano di aver previsto. Wait For Love è il quarto LP dei Pianos Become The Teeth, un disco che rappresenta l’ennesima maturazione di un gruppo che una volta urlava la depressione in un ambiente post rockeggiante ed ora si ritrova in bilico tra slo-core ed un rock maturo e sofferto. Kyle Dufrey, frontman del gruppo, porta ancor più in là il suo percorso lirico andando a cantare della vita adulta e del suo rapporto con essa con la stessa serietà con cui negli album passati ha trattato la morte e la perdita. Appeso lo scream al chiodo, il disco ondeggia tra momenti scurissimi (l’interpoliana Bloody Sweat) ed altri sussurrati (Bay Of Dreams) dove Dufrey esegue la sua migliore prestazione alle corde vocali di sempre, supportato da una band che azzecca una melodia dopo l’altra senza lasciar scampo alla luce del sole. Per Wait For Love ci vuole tempo e tanto amore, lo stesso che Dufrey descrive multiforme, dolce ed amaro. Un amore da ritrovare in un padre morto ed i suoi tratti, in una madre invecchiata ed in un figlio venuto fuori dal grembo di una donna altrettanto amata. Mille forme, un’unica attesa. ()
Ascolta: Charisma ed il suo splendido video musicale.

8 — /10

Rejjie Snow — Dear Annie

Nell’epoca d’oro dello streaming gli album hip hop e pop tendono spesso a commettere un errore di partenza: sono troppo lunghi. Venti brani sono un azzardo per qualunque artista (Drake docet) cerchi di far pervenire all’ascoltatore un messaggio, un tema, un’idea, una sensazione. Venti brani sono troppi e purtroppo rischiano di far perdere forza a lavori che invece qualcosa di buono da dire ce l’avrebbero. Sfortunatamente è il caso di Dear Annie, album d’esordio del rapper irlandese Rejjie Snow, seguito del mixtape The Moon and You dello scorso anno. Incentrato sul macrotema dell’amore, il disco presenta una moltitudine di pezzi non indimenticabili intervallati da qualche gemma ma anche da alcuni intermezzi radiofonici usati come introduzione ad altri pezzi. Premesso che anche senza questi interludi il racconto di Rejjie non avrebbe perso nulla, anzi, forse avrebbe guadagnato un po’ più di scorrevolezza facendo pesare un po’ meno l’atmosfera monotona e sdolcinata di alcune parti (ad esempio Mon Amour e Oh No!), bisogna dire che il sound neo soul (palese in 23) ed il flow rilassato del rapper di Dublino mi hanno convinto, così come gli episodi più funky e movimentati (soprattutto il singolone Egyptian Luvr, ma anche la diversa The Ends, prodotta tra l’altro dall’interessantissimo diciottenne Yellow Days). C’è da recriminare però, oltre che per brani banali e trascurabili come Charlie Brown o LMFAO, per il mood mellifluo che a mio parere si fa sentire fin troppo nel complesso. Peccato perché senza impantanarsi eccessivamente nel miele e accorciandolo un po’ sarebbe risultato un discreto lavoro; nell’attesa possiamo stare tranquilli, quanto mostratoci finora da Rejjie Snow resta assai promettente. ()
Ascolta: Egyptian Luvr (ft. Aminé & Dana Williams), The Ends (ft. Jesse James Solomon)

5½/10

Ride — Tomorrow’s Shore EP

Ho scoperto i Ride tardi (ahimè), solamente nel corso del 2017, quando la band di Oxford ha pubblicato Weather Diaries ventuno anni dopo l’ultimo lavoro, Tarantula. Il primo impatto con la loro musica è stato per me devastante, in senso positivo: tutta l’estate non ho fatto altro che immergermi nei vortici di Nowhere e Going Blank Again, dischi leggendari che all’inizio degli anni 90 hanno definito il sound di ciò che è diventato in seguito il cosiddetto shoegaze, raccontato tra l’altro splendidamente nel documentario Beautiful Noise del 2014. Con l’ottimo album uscito lo scorso giugno la formazione capitanata da Andy Bell e Mark Gardener aveva ribadito la propria esistenza facendo intravedere anche margini di crescita per un genere dimenticato forse troppo presto, che oggi si sta reinserendo con forza nei radar mediatici complici i successi di band nate nell’ultimo ventennio (Beach House in primis) e il ritorno sulle scene di altri mostri sacri come Slowdive e My Bloody Valentine. Con i quattro brani dell’EP Tomorrow’s Shore i Ride sono riusciti a dare un’ulteriore sventagliata di nuovo al loro stile, in cui ormai è impossibile non sentire la vicinanza con la “psichedelia” di Kevin Parker: automatico pensare ai Tame Impala ascoltando la penultima traccia Cold Water People. Quella che però dà i veri brividi è l’ultima, emozionante, Catch You Dreaming: puro dream pop, quello che ti fa fluttuare fra onde elettroniche, che ti accarezza dolcemente mentre galleggi e ti perdi. Senza alcun dubbio penso che il futuro sorrida a questi quattro musicisti: speriamo di sentir parlare di loro ancora a lungo. ()
Ascolta: tutto l’EP, ma Catch You Dreaming per emozionarvi sul serio.

7½/10

The Soft Moon — Criminal

Con grande gioia di tutta l’umanità intera Luis Vasquez e i suoi Soft Moon sono tornati. Alziamo le mani al cielo e uniamoci tutti, perché Criminal è un altro disco che impatta violentemente con l’instabilità dell’animo febbraiesca. Era tanto che non mi capitava di sentire quell’oscura rabbia industrial che Trent Reznor aveva creato in The Fragile e The Downward Spiral dando il via a qualcosa di unico e inimitabile: Vasquez racconta degli abusi subiti da ragazzino, della sua vita, in un modo dai tratti autodistruttivi (Mr. Selfdestruct vi dice qualcosa?). Già dai titoli è facile comprendere quali saranno le vibes di Criminal: parole brevi e violente, che lasciano poco spazio all’immaginazione, che aiutano a creare già lo scenario di un percorso interiore cupo. Il peccato originale è una tematica che si ritrova in molti brani e che trova la sua affermazione nell’ultimo brano omonimo: “keep me, judge me now, criminal, watch me, break me down, criminal, waste me, kill me now, criminal”. Un susseguirsi di immagini dolorose che feriscono grazie alle ritmiche Ebm e ai suoni industrial. Un lavoro tutto da divorare e da cui farsi divorare l’anima. ()
Ascolta: Give Something, Criminal

7½/10

Younger and Better — Savana

Dopo l’intervista e il release party al Love, che EdoP ha reputato fuori dal normale aka de cristo zi e che io ho cannato per motivi inammissibili aka mannaggia al crisht, eccomi a tu per tu con Savana, il primo disco degli Younger and Better, che è una scarica di suoni esotico-urbani, psichedelia dance da Porta Venezia, rock da Parco Sempione, insomma ce l’han detto loro che sarebbe stato un bel delirio DER aka Dance Electro Rock. E così è, nel corso del disco, in una montagna russa in cui la voce di Dario fa da guida mentre synth chitarre e batterie si modulano e si intrecciano ogni volta sviluppando trame diverse, allargando le maglie di un’elettronica della chitarra elettrica, ossessiva e ripetitiva, di base incazzata, fuori posto, scomoda, un botto di cose che giuro non mi aspettavo e che sembrano riempirti l’animo nuovamente di energia sana, di proteine e carburante. Savana è un disco DER CRISTO, fatto con cura e precisione, fatto col cuore e con gli amici (salutiamo Droven aka Giuliano Pascoe che ha co-prodotto il tutto e a La Fabbrica che l’ha pubblicato) che ci torna a dire che ognuno le cose le pol fare come gli pare, l’importante è che le faccia per sé e per farsi del bene. Dopo la paternale ascoltatevi bene questi ragazzi e appena potete cercateli dal vivo. Io lo farò. ()
Ascolta: Track 3, El Bananón, Hyena Teeth, TODO

7/10

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