MEGARECENSIONI Vol.17 — Marzo 2017 Pt.1
I giardini di marzo si vestono di nuovi colori / e le giovani donne in quel mese vivono nuovi amori
Albert Hammond Jr. — Francis Trouble
Ho sempre considerato i riff di chitarra di Albert Hammond Jr. l’elemento più cool della musica degli Strokes: frasi veloci che danno vita a loop vorticosi, impossibili da levarsi dalla testa, tanto da farmi apprezzare senza se e senza ma quel troppo bistrattato Angles del 2011, considerato da molti il primo passo di Casablancas & Co. verso l’anonimato. In esso vedevo tutta la sensatezza dei giochi chitarristici di AH Jr., usati perfettamente per creare un mix di elettronica dal gusto dance, molto distante da Is This It ma anche fresca e slanciata verso il futuro. Immaginate la mia felicità nello scoprire che a metà fra queste due produzioni il buon Albert aveva partorito un primo album solista estremamente intimo e delicato, che avrei ascoltato e riascoltato fino a perdermici dentro. Dalla tenerezza di quel Yours to Keep sono passati dodici anni ed il losangelino figlio d’arte è arrivato a firmare il suo quarto lavoro: Francis Trouble torna per molti versi all’anima garage rock pienamente affermata dei primi Strokes, dataci però in pillole, generando quel poco di nostalgia che basta a riaccendere nella mente il ricordo dei bei tempi che furono. Albert sa scrivere ancora pezzi estremamente catchy (Far Away Truths), e qualche lacrimuccia ce la fa pure versare (Rocky’s Late Night) ma la sensazione finale data dall’ascolto complessivo è più una non-sensazione: cosa mi lasciano queste canzoni se non il gusto di una totalità ormai frammentata? Il songwriting semplice di Yours to Keep suggeriva completezza, forniva sostanza genuina al disco; Francis Trouble non è che la somma di alcune (ottime) qualità del chitarrista, tra le quali non figura stavolta quel tocco di unicità che permetta di sganciarsi dal peso scomodo della band newyorkese. Belle schitarratine, pezzi carini seppur tutti un po’simili fra loro. Quel che conta è: li riascolterei? Mmm… (Marcello Torre)
Ascolta: Far Away Truths, Rocky’s Late Night
6/10
Barely Civil — We Can Live Here Forever
Siamo sempre lì, nella provincia americana, aree spoglie di vita ma piene di insegne colorate. In queste lande desolate, lontane dalla frenesia delle metropoli, c’è sempre qualcuno che si riunisce, raccoglie energie, per raccontare in musica le storie e le emozioni che sopravvivono nascoste dalla luce. Per un periodo bellissimo, alla fine dei novanta, abbiamo scoperto questa parte della cultura, della vita degli americani grazie alla nascita dell’emo(tional) rock. Dopo una morte (apparente), un congelamento per alcuni lustri e la tanto attesa rinascita di alcuni anni fa, il genere continua il suo percorso, in buona salute, tra sorprese e delusioni. Tra i tanti, nuovi alfieri che portano avanti la bandiera dei feelings, il 2 marzo anche i Barely Civil hanno fatto la loro comparsa nel mondo. Questi quattro ragazzotti del profondo Wisconsin, con il loro disco di debutto dal titolo We Can Live Here Forever, seguono il copione alla lettera senza indugi: si parla di amori persi e conquistati, di luoghi oramai fantasma, di partenze e ritorni, in un’atmosfera nostalgica e malinconica, ma infine sempre positiva. La performance musicale del giovane gruppo è solida, matura, precisa ma con poca, poca personalità, forse perché troppo ancorata e influenzata dagli ascolti importanti, in quel range tra American Football e Sunny Day Real Estate (con l’aggiunta dei Citizen, vista la similarità). Ed è un peccato perché gli elementi, appunto, ci sono tutti: dagli arpeggi quasi matematici alle schitarrate possenti, dai cori e le urla alla voce melodica (e notevole) del frontman Connor Erickson. Con queste premesse comunque, al di là del passo falso, possiamo immaginare che sentiremo parlare di loro in futuro. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: Stark, Super 8 // Marathon
5/10
Between The Buried and Me — Automata I
I Between The Buried and Me (d’ora in poi, per amor di lettura BTBAM) sono un gruppo di metallo progressivo che nel corso della loro ormai decennale carriera hanno toccato numerose sfaccettature della forma canzone nebulizzandole in una tempesta di riff e pattern ritmici accompagnati dall’istrionico frontman Thomas Giles che si diletta tra falsetti, puliti e growl catacombali. Automata I è il primo capitolo di un doppio album che, a distanza di tre anni dal precedente, promette molto bene. Canzoni ultrastrutturate, con poliritmie e cambi pedissequi animano i trentacinque minuti del platter che scorrono via rapidamente senza però trovare le intuizioni ed i colpi di genio che hanno reso seminali alcuni dei lavori precedenti del gruppo. A rimanere e dominare è una rinnovata vena melodica. Il singolo Condemned to Gallows, assieme al suo naturale seguito House Organ fungono un po’ da cartina al tornasole per l’intero album, che si compone di soli cinque pezzi (più un brano “ambient”) tutti sulla falsariga del proggy dal minutaggio sotto gli otto minuti. Se vi piacciono le melodie non banali ed una costruzione originale della musica, il tutto mischiato a altissime dosi tecnico/compositive, Automata I potrebbe fare al caso vostro. Gli appassionati del gruppo e chi cerca un po’ di cuore nella musica farebbero meglio, invece, ad aspettare il secondo capitolo per vedere se le cose miglioreranno o meno. Bene ma non benissimo insomma, aspettiamo l’altra faccia della medaglia. (Graziano Salini)
Ascolta: Millions
7 — /10
Black Beat Movement — Radio Mantra
I Black Beat Movement sono un “collettivo alternative soul fondato a Milano nel 2012”, traduzione testuale dal sito. E devo dire che sono proprio potenti, complessi ma non complicati, studiati ma non noiosi. C’è il groove, c’è la tecnica, c’è la scrittura di livello insieme a collaborazioni di alto calibro: Roy Paci, Technoir, KG Man e Ghemon. RADIO MANTRA è un lavoro completo e ricco di sfumature, in cui si sente che c’è stato tanto lavoro dietro sia di scrittura sia di produzione e ciò rende giustizia al loro classificarsi come collettivo alternative soul: fare questo genere richiede conoscenze musicali di un certo tipo, che danno alla costruzione dei tredici brani un profilo internazionale di tutto rispetto. Anche chi come me non è un grande amante del genere potrà rimanere sorpreso dalla qualità del sound e della struttura armonica dei brani, difficile da comprendere e al tempo stesso facile all’ascolto (spero suoni come un complimento!). Un piccolo gioiellino è il brano W-O-R-L-D feat KG Man: un pezzo dalle tinte hip hop con rimandi alla dancehall e con un ritornello dannatamente accattivante. Insomma, un lavoro di livello da gustare, perché oggi non dev’essere sempre tutto pop e semplice per essere apprezzato. Alle volte tenere l’orecchio allenato non può fare che bene a noi tutti. (Edoardo Piron)
Ascolta: W-O-R-L-D feat KG Man
6½/10
Brandi Carlile — By the way, I forgive you
Sembra che i critici abbiano deciso all’unanimità che Brandi Carlile è ormai back to country, manco fosse una novella Carrie Underwood, tanto da considerare questo lavoro robbetta. Degnandosi di ritornare a The Firewatcher’s Daughter, si può notare come questo album conservi più identità che differenze rispetto al lavoro passato. Come la sua voce, che è una delle voci più tenere del panorama folk americano, con l’intimità profonda dei suoi testi, capaci di colpire dritti al cuore delle cose. E non a caso la struttura del disco ricalca quella del precedente, con i primi pezzi che partono fortissimo: Every Time I Hear That Song, The Joke e Hold Out Your Hand. Questi sono tutti classici istantanei che si collocano tra le migliori canzoni country che io abbia sentito negli ultimi anni. Certo, non possiamo affermare che la qualità rimanga la stessa per tutto il disco, anzi verso la fine è quasi noioso aspettare qualcosa, un frizzo, un lazzo, qualcosa di brioso. Eppure, nonostante la mancanza della coerenza del campione, di quell’istinto che sa portare l’ascoltatore per le orecchie, di sicuro questo lavoro non è rubricabile fra i minori, o al peggio, i dimenticabili, della nostra simpatica Brandi. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Hold Out Your Hand
6+/10
Conjurer — Mire
Questa volta un gruppo giovane, di origine inglese e di un pesantezza sonora inaudita. I Conjurer hanno sorpreso, un sound condensato di pesantezza e profondità sludge (si veda l’inizio di Hadal), misto alla velocità e schizofrenia del Technical Death Metal più attuale; con l’ulteriore aggiunta di brevi intermezzi melodici, ben contestualizzati ed eseguiti, segno di un’ancor più ricca cultura compositiva. Aspetto interessante della loro preparazione tecnica è la loro maestria nei cambi di ritmo e di melodia, dei veri e propri stravolgimenti di paradigma improvvisi (come su Hollow), che riescono a non risultare prevedibili e colpiscono duro; sia sulle accelerazione più spacca-ossa sia sulle distensioni più melodiche (che ricordano vagamente, per l’alternanza di sonorità e voci, la altrettanto elevata maestria dei Ne Obliviscaris), come per esempio su Thankless. I Conjurer sono riusciti, con questo album, a creare una sinergia di sonorità che indubbiamente non manca di mostrare esplicitamente le proprie fonti, ma che risulta allo stesso tempo fresca e niente affatto stucchevole. Sarete spiazzati dalla cattiveria sonora di Retch e subito dopo sarete catapultati su un piano diverso, composto dai riffoni colmi di atmosfere doom di The Mire. Una vera giungla si sonorità provenienti da ambienti diversi, condensate in un’unica ampolla, che spicca per personalità e tenacia esecutiva tra molte altre; un’abilità talmente raffinata da non far pesare minimamente gli otto minuti di lunghezza di ogni brano, e non solo: finito l’album vi sembrerà di aver ascoltato una quindicina di pezzi diversi, quando in realtà sono appena sette. Nient’ altro da aggiungere su Mire, un disco che, senza alcun dubbio, rincontreremo a fine anno, tra le vette dell’annata musicale. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Thankless
8/10
Crookers — Crookers mixtape: Quello dopo, quello prima
I Crookers sono sempre stati cool; lo erano dal primo Crookers mixtape del 2007, lo erano quando hanno sfondato con Day ’n’ Nite l’anno dopo, lo erano ancora nel 2010 con il disco serio internazionale Tons of Friends (quei due pezzi con Róisín Murphy che cos’erano?) e sono rimasti cool anche quando sono rimasti in uno: Phra. La verità è che pochi artisti italiani negli ultimi 10 anni hanno avuto il successo dell’ex duo milanese fuori dai confini italici, complice quel bellissimo periodo storico chiamato impropriamente blog house e una lunga lista di producer presi bene tra Francia (tutta la label Ed Banger) e USA (il primo Diplo e l’ex Major Lazer Switch). Questo nuovo Crookers mixtape è arrivato quasi a fari spenti, facendo però il massimo del bordello una volta schiacciato il primo play. Dentro c’è 3/4 di scena rap italiana, nel difficile (ma riuscito) compito di unire nuova e vecchia scuola: ci sono Guè, Dargen, Laioung, Egreen, Ensi e persino Rocco Hunt, per citarne solo alcuni. C’è l’house, il boom-bap, il “rap con i suoni del deep house” e “il rap con i suoni del rap”, con tanto di cover italianizzata della hit estiva Short Dick Man (per l’occasione “short zo-ca man”) e di quella che spero davvero tanto sia una cit. di Captain Murphy: il miglior pezzo del disco, Yeeeeo Creeeeo. È sempre bello, infine, sentire Phra e i suoi amici che rappano senza prendersi sul serio e senza scordarsi mai le loro origini. Solo applausi. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Yeeeeo Creeeeo (ft. CBD)
7½/10
David Byrne — American Utopia
Era da 14 anni, dall’uscita di Grown Backwards, che David Byrne non pubblicava un disco solista, se non si considera la trilogia collaborativa con Brian Eno, Norman Cook e St. Vincent. L’ex Talking Heads per l’occasione è tornato a scrivere e suonare proprio con il primo di questi tre e ciò che ne è uscito fuori è American Utopia, un album che rientra nel più ampio progetto multimediale Reasons to be Cheerful, incentrato (ovviamente) sulle ragioni per cui vivere è bello nonostante il mondo di fatto faccia sempre più schifo. Oltre a Eno ci sono almeno altri due ospiti degni di nota: Daniel Lopatin AKA Oneohtrix Point Never, in produzione su This Is That e Here, e Sampha, che ha co-scritto il singolo Everybody’s Coming To My House. I Dance Like This apre American Utopia nel modo più byrnesco possibile, ovvero tra l’autoironico, il geniale e l’imbarazzante; ho subito temuto in un lavoro di autocitazionismo, ma non potevo sbagliarmi di più. L’ampio spettro di stili, dal pop rock classico di Gasoline and Dirty Sheets al groove ipnotico di Everybody’s Coming To My House; i testi assurdi di Every Day Is A Miracle (“And God is a very old rooster / And eggs are like Jesus, his son”) e Dog’s Mind (tutta basata su cosa potrebbe pensare un cane del nostro stile di vita); l’alternanza tra le percussioni di Eno e i synth glitchati di OPN: tutto questo ci conferma che David Byrne è ancora uno dei migliori sulla piazza. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Everybody’s Coming To My House
8/10
Drudkh — They Often See Dreams About the Spring
Questa volta si va a scavare nel passato, nel mio, ma anche in quello di tutta una generazione di ascoltatori e musicisti, cresciuti all’ombra avvolgente dei Drudkh. Gruppo fondamentale per la scena black metal mondiale, tra i più importanti fautori di un tipo di approccio atmosferico e atavico alle melodie del metal più nero; dopo un periodo durato tre anni gli ucraini sono tornati con Їм часто сниться капіж (o secondo la lingua corrente They Often See Dreams About the Spring) e l’impatto, come sempre, è stato commovente. C’è poco da dire, un’ esiguità che non si traduce come “semplicità” o come “ridondanza”, ma come un immettersi in una corrente che scorre ininterrotta e immutata da più di un decennio, un ricalcare le orme di un sentiero già percorso, ritrovando nell’ambiente nuove ed identiche sensazioni. Nei Drudhk la metafora prende carne, ogni melodia, ogni ululato si incarnano in sensazioni concrete, e se vogliamo, in immagini dai colori e dalle sfumature ben distinte. Ogni riff accarezza e trasporta come un vento dell’Est che spira tra degli alberi, parlanti una lingua a noi estranea, ma che nella sua immediatezza ci risulta materna; ogni blast beat ricalca l’incedere maestoso di cavallo al galoppo nelle steppe, sotto un firmamento di melodie aggraziate e lontane. Questa recensione risulterà un flusso di coscienza apparentemente vuoto, ne sono consapevole; questo per me sono i Drudkh, un gruppo che si conosce una volta, una scintilla che se attecchisce non si estinguerà mai. La quintessenza della svolta Romantica del black metal (a livello stilistico e melodico, quello ideologico c’è sempre stato) si incarna nelle loro atmosfere (basta prendere la melodia a metà del terzo brano per capire concretamente quello che dico). Non vi parlerò ulteriormente di loro, risulterei vano e logorroico, ossessionato da visioni e similitudini. Prendete queste righe non come una recensione, ma come un breve racconto a scopo di avvertimento: se i Drudkh toccheranno le giuste corde, sarete sospinti in una ridiscesa alle origini del loro suono, rimanendo ancora più basiti. They Often See Dreams About the Spring non è che l’inizio. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Za Zoreyu Scho Striloyu Syaye
8½/10
Manitoba — Divorami
Divorami è l’esordio dei toscani Manitoba, uscito per Sugar Music; 10 canzoni di rock alternativo cantato in italiano che tende la mano a varie sonorità elettroniche. La produzione è curatissima, volta ad evidenziare le chitarre, che sono parte integrante nell’armonizzazione delle voci di Giorgia e Filippo. Divorami è un disco che scorre abbastanza veloce, con momenti più elettricamente tesi (vedi Andiamo fuori) ed altri più rilassati (Hollywood Pompei). I riferimenti sono facilmente intuibili e se nobilitano le peculiarità dei ragazzi, d’altra parte in certi momenti rischiano di sovrastare le cose positive di questo disco, cioè una buona capacità in fase di scrittura e di arrangiamento e un’urgenza nell’esprimersi che rimane genuina. Un rock sincero che tende la mano a un vecchio Ivan Graziani e che contemporaneamente prende a mani basse dal santo Kevin Parker/Tame Impala. Divorami rimane dunque sospeso a metà tra le sue influenze e le personalità dei suoi autori, e se per un po’ galleggiamo in questo limbo, ogni tanto cadiamo nel gioco delle citazioni e non ci divertiamo più. Ma non demordiamo e diamo fiducia ai ragazzi, che dal vivo sono molto bravi (provare per credere), ci ascoltiamo Glaciale e aspettiamo la prossima mossa. Un abbraccio. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: Glaciale, Mosche, Divorami
6/10
Ministri — Fidatevi
Fidatevi è il sesto disco dei Ministri. Fidatevi esce a sei anni da Cultura Generale. Fidatevi è l’ennesimo ammiccare dei Ministri al nazional-popolare. E io ho cercato, ogni volta che mi sono trovato a parlare dei Ministri, ho cercato davvero, di non lasciarmi andare; di non dire che ad ogni album è sempre più palese il difetto di scrittura dei testi; di non dire che ad ogni album è sempre più palese che questo difetto è più un non voler fare che un non riuscire a dire; di non dire che ogni base ha una trovata che è una, perché i nostri ci vogliamo anche e soprattutto pop, e noi dobbiamo dargli soltanto un riff accattivante, ma poco altro — solo tante belle calde emozioni. Io in questo gruppo ho visto qualcosa, ho creduto che potessero rappresentare qualcosa di simile ad un riscatto, per un genere che è in mano all’insofferenza, che è in mano alla voglia spasmodica di non crescere mai. Eppure, non sono né in condizione di dire che abbiano tradito qualcuno o qualcosa nel loro percorso, né tantomeno che siano riusciti. Certo la loro musica è qualcosa di particolare, qualcuno direbbe di personale –ma lo è per via del compromesso storico. La familiarità dei testi, la dolcezza delle opinioni, è, ahinoi, costantemente frammista al cosiddetto senso comune, così poco interessante da sembrare una brutta campionatura sonora, per cui l’ascoltare è preso a metà dal pezzo, e a metà da quest’obbligo di ripensare ad un’esperienza vissuta magari con noncuranza, sulla quale deve tornare ancora una volta, per dire anche io, l’ho fatto anche io, c’ero anche, si è vero piace anche a me. E magari è questo che vogliamo dai Ministri, magari questa recensione è snob, però la distanza si sente. Perché dalla novità di Tempi Bui, alla pochezza di Cultura Generale, che si salvava per un paio di pezzi in tutto, siamo qui a una roba nuova. Perché Fidatevi è un disco organico, in cui nessun pezzo spicca o piace eccessivamente. Questo è segno, a parer mio, di una normalizzazione, come a dire — noi siamo questa roba qua. Noi vogliamo finire col pezzo anthem, con la ballad, vogliamo parlare di riscatto personale perché è giusto, e non perché c’è soluzione — noi siamo questa roba qua. Fidatevi non è un pezzo fotocopia di tutti gli album? (Idioti, Macchine Sportive, dai avete capito) si perché noi facciamo il pezzo rabbito — noi siamo questa roba qua. Siamo sicuri che vogliamo essere la Giorgia Meloni o il Roberto Giachetti della musica italiana? Secondo me no, però come gli amanti sull’uscio, ci vediamo per l’ultima. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Non saprei dire
4/10
Poliça and s·t·a·r·g·a·z·e — Music for the Long Emergency
Non sarei stato orientato a prendere a male parole questo disco, se non mi fossi sentito sedotto e abbandonato alla fine dello stesso. Music for the Long Emergency è Owen Pallett che ci dice che gli piacciono assai Goldfrapp e Massive Attack, mentre andiamo in macchina nel posto x; il problema è che lui li ha scoperti soltanto la settimana scorsa, conosce solo i Greatest Hits, e tu, invece, andavi ai concerti. Benché, di conseguenza, un lunatico approcciarsi alle sonorità attiri l’ascoltatore, almeno per metà di ogni pezzo, è sempre un plastico rimandare una conclusione. Un altro problema di Music for the Long Emergency è la sua incapacità di sviluppare un suono coerente per tutti i pezzi, di definire, ma soprattutto di creare una rete sonora dinamica al suo interno. Le prime canzoni, troppo corte per un album troppo corto, sono soltanto un bel tappeto rosso che ci invita a centrocampo. Non a caso la strumentazione è varia, dai fiati alla tastiera, ma senza l’intenzione di restare, roba da amori estivi. Questo sapore è in gran parte compensato dalla bella How Is This Happening, 10 minuti di pomiciata, l’unico utile coronamento di questa collaborazione. L’orchestra gorgheggia e si esalta, affiancata da voci delicate, che sfiorano il parlato nel primo tempo e che vengono subissate dai synth drone nella seconda metà. Certo, tutta questa strada per dieci minuti di concerto! (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: How Is This Happening
5+/10
Volonté — Confetti
Di Volonté non sapevo nulla fino a che non ho sentito Confetti, che è un dischetto piccolo piccolo, con quattro pezzi solo chitarra elettrica e voce scritti con un italiano inusuale, una lingua che il nostro adatta e plasma a seconda delle tonalità che prendono le varie canzoni. “Confetti” è il primo di una serie di episodi che sto realizzando, magari diversi tra loro nello svolgimento ma che inseguono diciamo un unico fantasma narrativo. L’idea è quella di compilarli a fine corsa in supporto fisico. L’EP è stato registrato al Mobsound di Milano con sincerità e schiettezza (in una giornata), tirato su con quel che si aveva, massima resa minima spesa, forse perché il focus è sul contenuto e non sul mezzo o forse perchè alla fine le canzoni di Volonté arrangiate in questa forma in solitaria rendono molto di più. Non sappiamo cosa ne sarà dei prossimi progetti, ma tant’è, per il momento ci godiamo questa piccola overture, con la grafica colori pastello, dei bambini sullo sfondo. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: Cambiare Città, tutto
7/10
The Zen Circus — Il fuoco in una stanza
Musicalmente meno esplosivo de La terza guerra mondiale, il nuovo album degli Zen Circus stupisce per i toni più riflessivi e introspettivi. Il gruppo pisano riparte dallo spazio angusto e intimo di una stanza, ma niente cieli di ginopaoliana memoria, solo fuoco, fuoco, fuoco e volontà di bruciare ancora nella militanza del disincanto, del dolore, dell’ostinazione, della ricerca di un senso, anche offuscato e incompleto, delle cose. Il manifesto dell’ultima fatica Zen, Il fuoco in una stanza per l’appunto, è nel brano La stagione: «Noi siamo quelli vivi, è la nostra stagione, che cosa ci vuoi fare, è la stagione del dolore. Finché ci trema il cuore, finché la testa vuole potremo finalmente urlare il nostro vero nome». Per urlare il proprio nome, quindi sapersi riconoscere, non si può prescindere dalle Catene relazionali, sociali e soprattutto familiari, quelle del primo singolo e brano di apertura, che diventano centro dell’intero disco. Ciò che arriva dritto alle orecchie di chi ascolta è il cuore e l’onestà con cui gli Zen Circus si regalano e ci regalano l’ennesima tappa di un viaggio on the road senza direzioni precise, alla scoperta di sé e del mondo, una nuova fase della loro vita interiore e del loro mondo musicale, che si riflettono a vicenda. (Elisa Frioni)
Ascolta: Il fuoco in una stanza
7+/10