MEGARECENSIONI Vol.17 — Marzo 2017 Pt.2
I giardini di marzo si vestono di nuovi colori / e le giovani donne in quel mese vivono nuovi amori
Awolnation — Here Comes The Runts
Awolnation è il nom de plume di Aaron Bruno, solista. Produttore, scrittore, registratore, Bruno ha oggi fatto un disco in cui ci dice quanto buon rock si può ascoltare prima di venire assillati dalla nostalgia, Here Comes The Runts. L’atmosfera della malinconia, si sa, è la risacca del mare, anche per chi soffre di acufene. La traccia principale, tipica del cambiamento ondeggiante di genere e dinamica, fornisce molti indizi a riguardo. Seven Sticks Of Dynamite, infatti, indicizza un passaggio lo-fi, presto mutato in un rock poco poco stoner, cantato in maniera scomposta. Accantonato lo spettro dei sentimenti, però, Here comes the runts sembra il dvd2 di un film che esce in versione integrale, con tutti i pezzetti tagliuzzati in post produzione. Dagli anni 50 in stile surf, agli schiamazzi rock fino alla sperimentazione e al vocalizzo solo, molto intenso del resto. La title track apre la scena con un ritmo elettrizzante e dipana un’infinita variazione, pur non molto impegnativa, che ha il pregio di non essere mai prevedibile. Handyman sembra scritta dai Coldplay, e forse anche questo è stato un colpo da maestro, ma la questione è un’altra. Può essere considerato un merito il comporre pensando di essere un qualche gruppo redivivo? No perché, se David Byrne fosse passato al rockabilly forse non avrebbe fatto qualcosa di diverso. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Handyman
6+/10
Bishop Nehru — Elevators: Act I & II
Quello di Bishop Nehru è un nome fresco, che a molti suonerà sconosciuto. Il rapper classe ’96 di Nanuet, New York, è attivo solo da pochi anni e tuttavia può già vantare un sodalizio stretto con quel luminare dello sperimentalismo hip hop che risponde al nome di MF Doom (con cui ha creato il progetto NehruvianDOOM): non proprio robetta, ecco. Elevators: Act I & II è il tentativo di Nehru di elevarsi (gioco di parole scontatissimo) in quel panorama rap che abbraccia nuove stravaganze facendo allo stesso tempo l’occhiolino all’old school. Non a caso si compone di due parti: la prima metà (Act I: Ascension) è affidata alla produzione di Kaytranada; una firma del presente, quella del canadese, capace di ricreare beat dal sapore vintage impastati di elettronica tropicale, senza cadere nella trappola del nostalgismo. Act II: Free Falling è invece affidato alle mani capaci di Doom, che sceglie di sperimentare con suoni ancora più arditi (stupenda l’apertura di Potassium), tra jazz e funk anni 70 (quest’ultimo in Rollercoasting). Questa produzione condivisa è talmente solida che a tratti si rischia di perdere di vista il flow di chi dovrebbe invece essere il protagonista dell’album: le frasi sciorinate da Nehru, tra una basketball reference e l’altra, si perdono nel flusso sonoro come se la sua voce fosse uno strumento aggiunto alla jam orchestrata dalle due menti già citate. La narrazione di sé stesso perde un po’ di impatto per via di tutto quel talento ma tutto sommato non delude le orecchie e sicuramente non stona davanti all’architettura musicale del progetto. L’immagine finale non può che essere quella di Bishop che si staglia sul resto della folla grazie all’aiuto di due paia di spalle possenti. (Marcello Torre)
Ascolta: The Game of Life, Rooftops
7/10
Cindy Lee — Act Of Tenderness
A un anno di distanza da Malenkost, eccoci di nuovo con Cindy Lee, l’alter ego di Patrick Flegel, artista canadese, cantante e chitarrista degli Women, che torna a deliziarci con la sua voce eterea e androgina, in un mare di rumore, feedback e momenti di soave riposo che è Act of Tenderness (semper grazie a Maple Death Records che ha una visione chiara della musica che vuol farti ascoltare). Dodici canzoni che si riprendono e approfondiscono le peculiarità della reissue dello scorso anno, sondando le profondità del rumore e della quiete. Ed è proprio così che si muove questo disco bipolare e bicefalo, sinceramente libero nell’esprimersi e inedito alle mie orecchie, inebriate dalla pace di una chitarra incedente e di voci angeliche (Power and Possession) e poi massacrate da distorsioni e distonie di voci ora lontane (Quit Doing Me Wrong), Cindy Lee è capace di portarti lontano con sé per poi darti uno schiaffo e farti tornare di nuovo presente e vivo nel posto da cui eri partito, ora coi piedi ben piantati e una sensazione strana, un misto di spaesamento e consapevolezze profonde, qualcosa che va oltre queste parole. Un movimento che somiglia a un incubo che diventa estasi e viceversa, un circolo vizioso da cui si stenta ad uscire, in cui si vuol rimanere nonostante si percepisca una sensazione di scomodità che cresce lenta (Wandering And Solitude), per poi virare incredibilmente verso un porto di pace, finalmente la quiete (A New Love Is Believing). Un piacere inquieto, un’agonia gioiosa, un ossimoro, qualcosa che sta a metà tra il nero e il blu, che si mantiene intatto. Una contraddizione, una perla rara. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: What I Need, Fallen Angel, A New Love Is Believing
7½/10
Diplo — California EP
Diplo, non ha bisogno di presentazioni; è uno dei producer più famosi del mondo, anche se probabilmente la maggior parte del pubblico lo conosce da quando Major Lazer è diventato un progetto EDM e da quando Justin Bieber canta sui suoi beat. In realtà Diplo è molto più che un amico di Calvin Harris e i primi dischi di Major Lazer dell’era Switch, le collaborazioni con M.I.A. e con una serie infinita di artisti dalle ex-colonie, sono lì per ricordarcelo. California è il primo lavoro solista dello statunitense dai tempi del mixtape F1ORIDA (2014) ed è un suo ideale seguito; per questo si tratta di un disco più intimo del solito, se si può usare tale aggettivo per questo tipo di musica. I brani sono sei: si passa da un pezzone pop firmato da Lil Yachty e da Santigold (bentornata!) al cloud rap di Suicidal con Desiigner, dalle chitarre di Look Back con DRAM all’emo-trap di Wish con Trippie Redd, fino ad arrivare al feat di Lil Xan su un beat quasi garage e al remix di Get It Right con MØ e Goldlink, che ovviamente è il pezzo più EDM del disco. Nel complesso l’ascolto è piacevole, le produzioni non sono scontate e la prima traccia è sicuramente memorabile; ma la sensazione è sempre la stessa: una volta raggiunta la fama internazionale Diplo si è un po’ seduto sugli allori, non sperimenta più e si limita a lavorare con una cerchia di artisti più che collaudata. Peccato. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Worry No More (ft. Lil Yachty & Santigold)
6½/10
Fickle Friends — You Are Someone Else
Fickle Friends, You Are Someone Else, per Polydor Records — debuttissimo (anche se ha già all’attivo due EP con pressappoco gli stessi pezzi, eheh). Siamo in area synth-pop / anni ’80 / daje co l’estate pessempre. You’re Someone Else è il prodotto finale di questa virtù servita su un piatto, o meglio, una scatolina di cioccolatini. Ogni canzone sembra poter rappresentare un tassello diverso di questo puzzle che i nostri hanno nel cranio, stadi diversi di una stessa narrazione. Natassja Shiner, così si nomina la frontwoman vive di questo mix di amoreggiamenti e synth da granita al limone, eccome — mai sottomessa, sempre innamorata. Heartbroken fa gran parte del lavoro, o forse qualcosa in più, data la svolta tragica; la canzone parla della fine di una relazione, prima che la relazione sia finita, e non è detto che ciò sia cosa buona nell’economia del disco, sebbene esso funzioni come concetto. Questo come altri, però, raffiugra una spiccata capacità del quintetto di prendere un soggetto oggettivamente cupo e trasformarlo in un 100 % pop; per chi di voi piange con la musica alta, magari potrà non farvi scomodo. Il pezzone è sicuramente Paris, sebbene rimanga molto classico e stenta ad andare giù per la gola, ma diamine i plum cake sono buoni anche per questo. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: tutto no?
7 — /10
The Fratellis — In Your Own Sweet Time
I The Fratellis sono tornati con un altro disco, siamo al quinto; questo si intitola con In Your Own Sweet Time, ed è molto carino. Tutti i dischi dei fratelli fratellis sono carini, non hanno mai steccato completamente e sono degni di essere definiti un gruppo di genere. Quest’ultimo appunto è probabilmente la costante con cui vanno valutati i lavori degli stessi, con una cifra che è un po’ quella che si può applicare al reggae, ai repertori cameristici, al grime ecc. Lo spazio di variazione non è certamente elevato, ed ogni cambiato va razionato consapevolmente, pena sfociare in qualcosa che non è a marchio di fabbrica, che non è denominazione di origine protetta. Questo status, dopo cinque album gajardi, i The Fratellis se lo sono guadagnato, ed anche in questo disco ce ne danno prova. Leggiucchiando qua e la vedo sproporzionati paragoni agli Scissor Sisters, ai Killers o addirittura ai Bee Gees; i primi due sono troppo palesi per farne un caso, gli ultimi quasi inesistenti. Imputando l’imputabile a questo disco, potremmo rimarcare l’assenza di un qualche singolo che conduca le fila, ma diversamente da un lavoro mediocre, il disco non è mai fastidioso ed anzi cerca di divertire divertendosi, con dei testi accesi e sempre calienti. Spiccata, più che altro, a mio parere, è l’esperienza del fratellis canoro ai Codeine Velvet Club, che barocchizza tante scelte sonore. Nulla da dichiarare, per passare la frontiera. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Sugartown
6+/10
Gabber Eleganza — Never Sleep #1
Due sono i ragionamenti da fare rispetto a Gabber Eleganza e all’universo che ha creato e sono due ragionamenti strettamente connessi all’impatto sociale che questo progetto ha avuto negli ultimi anni sull’elettronica e sul concepirsi hardcore.
1) Oggi l’estetica gabber ha invaso con forza l’immaginario musicale dell’elettronica moderna, la cassa 180 bpm ha assunto quasi una sfumatura di cultura, forse data dal fatto che ormai la moda è totalmente invasa da tutto ciò che è hardcore. E il merito è anche e soprattutto di Gabber Eleganza che ha riportato in auge tutto questo, dimostrando come un genere musicale intriso di pregiudizi moralistici da democristiani legati al solito trinomio piercing/tatuaggi/droga valga qualcosa di più e che contenga una sorta di inno alla libertà personale.
2) La vera analisi per comprendere veramente l’impatto sociale dell’attitude gabber oggi sta nel nome stesso del progetto, che contiene la parola “eleganza”. Un mio amico molto saggio qualche giorno fa mi ha detto “certo che sì, ci piace molto tutto questo mondo hardcore, la cassa dritta e via dicendo ma noi tutti fan dell’ultima ora ad una vera serata gabber ci prenderemmo gli schiaffi (in senso metaforico)”. E non si può dir nulla a questa semplice analisi socio-antropologica. Al contempo Gabber Eleganza ci ha insegnato ad apprezzare nuovi suoni, a conoscere un universo da noi totalmente distante e questo Ep, Never Sleep #1, non è altro che una tappa all’Autogrill del viaggio in cui il dj e producer ci accompagnerà con lavori più lunghi. L’acidità dei suoni, l’alternarsi dei bpm tra una traccia e l’altra e la varietà di generi in soli tre brani promettono davvero bene: qui un solo assaggino di un pasto tutto da scoprire. (Edoardo Piron)
Ascolta: Tutto
7/10
Gulfer — Dog Bless
Così come i giovani Terry Green (che abbiamo scoperto con sommo gaudio l’anno scorso) anche i Gulfer sono un gruppo canadese, anch’esso giovane, con due full lenght all’attivo. Il secondo, Dog Bless, si presenta come un miscuglio (caratteristico della scena di derivazione post HC di questi anni) di math rock, indie e post-HC. Varie influenze, dunque, che si incarnano, però, in stilemi e sonorità che troveremo lungo tutto l’ascolto, in modo lineare e persistente (il contrario dei Terry Green, che al contrario proposero brani quasi decomposti dagli estremismi stilistici che li componevano). In primis la voce del cantante non spicca per virtuosismo ed inventiva, pur essendo gradevole presa di per sé; sulla stessa linea si trovano alcune parti di chitarra e di batteria, che ci sembrerà di sentire in pressoché tutti i brani. Magari è solo un’impressione, ma sta di fatto che le sonorità, rifugiandosi sempre sugli stessi effetti e stilemi, risultano alla lunga stagnanti; come, per esempio, i vari e brevi assoli di chitarra presenti in pressoché tutti i brani, troppo simili tra loro ( ciò diventa concreto a partire dalla terza canzone, mentre le prime due scorrono piacevolmente). Messo in luce questo aspetto limitante, rimane da dire che, nonostante la ridondanza, è alla fin fine un album piacevole, che nelle sue sonorità cariche di nostalgia ed energia riesce a regalare dei buoni momenti. Un sorriso a mezza bocca, al culmine di una recensione che non ha avuto troppo da dire: non vi resta che ascoltarli e, perché no, smentirmi. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Secret Stuff
6/10
Jack White — Boarding House Reach
Il nuovo lavoro di Jack White era stato presentato fin dall’uscita dei primi singoli come una sfida tutta nuova per il padrino di Third Man Records, alle prese questa volta con l’idea di sfruttare le possibilità offerte da altre espressioni musicali — in particolare funk, hip hop e jazz — per dar vita a qualcosa di insolito per lui. Il risultato, purtroppo, non è quello da me sperato: sì, Boarding House Reach è innovativo, se ne frega della forma canzone, ripudia l’ossessione di White per certi tradizionalismi blues e offre sguardi interessanti a nuove frontiere rock grazie ad una carica instabile, satura di irrequietezza. Bene, ma ora parliamo dei problemi. Il disco fornisce tutti questi elementi positivi senza toglierti per un attimo l’idea che ok, carino questo rappato qui, interessanti quei bonghi là, ma da te Jack mi aspetto molto, molto di più. Non si può pensare che un fan, per di più dopo quell’eccellente Lazaretto del 2014, rimanga pienamente soddisfatto da una serie di puri esercizi di stile quali sono i brani che compongono questo album: tra quelli venuti meglio (Corporation, Ice Station Zebra) si può anche apprezzare la volontà di sperimentare privilegiando una forma incerta piuttosto che un senso di coesione, ma tutto il resto suona per lo più come il capriccio di chi, voglioso di giocare un po’ coi suoni per vedere che ne salta fuori (Hypermisophoniac), li frulla un po’ a caso sporcandosi le mani. Mi accorgo tuttavia della difficoltà nel far passare queste considerazioni come negative: non sarebbe sbagliato ribaltare il discorso, vedendo invece nel vago di BHR l’insana capacità di mischiare musica di una mente da rockstar in cerca di nuovi approcci. Non mi sento di rifiutare completamente idee di questo tipo, ma rimango della mia opinione: se questo disco vuole essere una sfida, per me è una sfida incompleta, tutt’altro che un’impresa da veni, vidi, vici. White non si è sforzato abbastanza e tutta questa materia grezza dimostra che deve ancora dimostrare di saper piegare i nuovi gusti alla propria genialità. (Marcello Torre)
Ascolta: Ice Station Zebra
5½/10
Mamuthones — Fear On The Corner
Se forgiarsi nella fucina di Boring Machine è sinonimo di appartenenza ad una comunità ampia con una comune ricerca è altrettanto vero, d’altro canto, che l’origine dei Mamuthones è da rintracciarsi anche nel percorso articolato di Alessio Gastaldello e quindi nei Jennifer Gentle e l’esperienza Sub-Pop. Non tanto per creare parallelismi superflui o forzature interpretative, quanto per dare senso a quel movimento fluido che sottrae l’occulto dalla psichedelia italiana e si smarca dalla sua immagine allo specchio, pur lasciandone intatti intenzionalità e messaggio. Si, perché l’incontro tra sperimentazione ritualistica e savoir-faire rock d’oltreoceano c’è ancora ma non nella forma del conflitto, piuttosto come una lingua organica capace di capire e farsi capire trasversalmente da porzioni di società abbandonate a se stesse, lontane dai riflettori di un vago senso di condivisione. A tre anni di distanza da Symphony for the Devil i Mamuthones tornano in attività con un lavoro stravagante, complesso e sfaccettato che nondimeno si lascia ascoltare e apprezzare con facilità disarmante. Uscito il 23 febbraio scorso per Rocket Recording — etichetta cardine per un certo tipo di pischedelia — Fear On The Corner è un esempio di quello che si può fare quando anime diverse si integrano senza confrontarsi maliziosamente. Un disco sulla paura, spiega Gastaldello, dove la convergenza tra post-punk, acidità e psichedelia produce un magma sonoro ribollente che prende il corpo (“The Wrong Side”), si rilassa languidamente (“Alone”) e infine collassa in funk rumorosissimo e mutaforma (“Fear On The Corner” ma riverbera in tutto il disco) che rimanda alle ondate sperimentali di una New York di fine ’70. Paura, certo, accettata e condivisa, espressa ed analizzata, ma anche esautorata del potere col medium della musica, non già come cura ma come sfogo, per l’esperienza catartica del movimento, del corpo, della festa. In tutto il disco vibra la magia dello sciamanismo, del ballo rituale intorno al fuoco che bandisce il male nascosto nell’ombra. Liberato dal tribalismo selvaggio Fear On The Corner è un’antropologia del presente, l’espressione del dancefloor abbandonato, del party oscuro, della festa che non può terminare; nell’ossessività dei suoi ritmi e nel rincorrersi degli infiniti input sonori c’è tutta la disperazione condivisa che pervade gli avventori del sabato sera nei club meno chic della città, la paura del mondo esterno, l’assenza di gioia, simulata però nella frenesia assurda del corpo, nel parossismo, nell’esagerazione fino al collasso. È nelle parole di Gastaldello stesso che troviamo la chiave d’accesso a Fear On The Corner e il ruolo che si prefigge di ricoprire coi suoi Mamuthones, e di fronte ad un riassunto così puntuale non possiamo che tacere: “Siamo una sorta di orchestra del Titanic, che suona e danza mentre la nave affonda. La festa deve andare avanti’’. (Giacomo Bergantini)
7/10
The Messthetics — s/t
La Dischord continua a non deludere e questa volta colpisce nel segno proponendoci, udite udite, un trio strumentale, comprendente non uno, ma ben due, ex-membri dei Fugazi: Joe Lally al basso e Brendan Canty alla batteria, con l’aggiunta di Anthony Pirog alla chitarra (noto nella scena jazz e sperimentale americana). Partendo da queste premesse, sembra proprio difficile rimanere delusi dal risultato. Ma ancora non basta, rincaro la dose, dicendovi che questo progetto è sorto nella sala prove di Joe Lally e ha come cardine l’idea di performance ed improvvisazione. I tre orchestranti ci propongono dei pezzi che si prestano con estrema felicità a stravolgimenti e modifiche estemporanee ; un’idea che, a mio parere, fa risaltare ulteriormente le già note capacità dei musicisti in questione. La libertà e l’emotività dell’esecuzione si percepiscono a fior di pelle, ad ogni nota. Per quanto riguarda le sonorità che vi troverete ad affrontare, posso dire che punti fermi all’interno dell’album non ce ne sono, almeno non così importanti ed evidenti da saltare all’orecchio. Si passerà senza attrito da pezzi più movimentati come Crowds and Power o Quantum Path a brani adagiati su sonorità e ritmi più dilatati, come The Inner Ocean. I Messthetics son riusciti a condensare in un album tutta l’energia e l’eterogeneità di una jam session micidiale, portando sul piatto poco più di 30 minuti di musica, impenetrabile ad ogni tentativo di omologazione. Musica allo stato puro, talmente cristallina e sincera da essere in grado di colpire più o meno tutti, a partire dal fan dell’Hardcore fino all estimatore del jazz più classico. Non aggiungo altro, signori: ritagliate un buco nella vostra giornata e buttatevi. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: tutto
8 — /10
Preoccupations — New Material
I Viet Co — ehm…Preoccupations sono sicuramente una delle band più cool degli ultimi anni. Mentre i nostri idoli più rock si prendevano lunghe pause di riflessione e il revival nostalgico del post punk dilagava nelle province di tutto il mondo, i canadesi sono tra i pochi ad essere riusciti a tenere alta la bandiera delle chitarre e a rivisitare in modo originale un genere musicale vecchio di quasi quarant’anni. Viet Cong l’ho divorato, Preoccupations mi ha molto stupito e anche Cassette, uscito nel 2014 e riscoperto con un po’ di ritardo, è una discreta perla; per chiudere ulteriormente il cerchio la band è pure bravissima dal vivo ed è composta da musicisti talentuosissimi. Per questi motivi dal nuovo New Material mi aspettavo ovviamente un ulteriore passo in avanti, che pur trattandosi di un album di qualità non c’è purtroppo stato. La cosa che manca di più sono i singoli divertenti dei tre precedenti lavori, che univano i momenti più strumentali e virtuosistici. Brani come Manipulation e Doubt sono bellissimi, ma non hanno certamente il tiro di Continental Shelf o Stimulation. I singoli membri continuano a suonare da dio insieme e per fortuna neanche qui riescono a cascare in un banale citazionismo; nonostante questo, però, se mettiamo il resto della discografia della band a confronto con New Material, quest’ultimo risulta il meno interessante di tutti. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Doubt
7 — /10
Titus Andronicus — A Productive Cough
I Titus Andronicus ci riprovano lasciando del tutto da parte la loro componente punk e consegnando alla storia un disco un po’ folk e un po’ Bruce Springsteen senza riuscire da nessuna delle due parti. La colpa/merito è di Patrick Stickles, mastermind del gruppo e penna incredibile che questa volta sembra aver perso il senso della misura. Messa da parte l’anima punk, i Titus Andronicus si abbandonano alle grinfie del rock americano storico e delle sue immagini springsteeniane. Mentre il lavoro lirico, sebbene spesso prolisso, è pieno di frasi memorabili e di immagini potenti rimane sostenuto da un tessuto musicale non dello stesso livello. Sette canzoni per quarantasei minuti, sette ballate trascinate per le orecchie che fanno continuamente il verso agli Stones, a Springsteen e ogni tanto tendono la mano verso l’rnb bianco di Van Morrison. Un meltin pot stantio perché privo dell’epos dei precedenti lavori della band che finisce per scricchiolare sotto le parole di Stickles e i suoi mille riferimenti; curioso pensare che gli autori di Crass Tatoo o della reimmaginazione di Like a Rolling Stone siano gli stessi che un lustro prima davano i natali a A More Perfect Union o a Dimed Out. Un disco stupidamente difficile, che finisce per impantanarsi in una musica che non incuriosisce ma manda in luoghi già sentite. Un disco che fa percorrere le stesse strade del boss senza il boss. (Graziano Salini)
Ascolta: Real Talk
5½/10
Wrongonyou — Rebirth
Il 9 marzo è uscito per la Carosello Records Rebirth, il primo disco di Marco Zitelli, in arte Wrongonyou. Un esordio che proprio esordio non è perché il cantautore romano, che con la sua chitarra e i suoi brani ha già fatto il giro d’Italia e non solo, lo conosciamo già tutti. Il titolo lascerebbe presagire l’inizio di un nuovo percorso musicale, ma in realtà c’è molto poco di diverso dai suoi EP precedenti, se non una maggiore consapevolezza compositiva. Rebirth più che a una rinascita somiglia a un punto di arrivo, a una conferma di una realtà italiana consolidata. Non a caso insieme ai nuovi brani, evocativi e naturalistici nello stile wrongonyou, tra cui spiccano il primo singolo Prove it e la title-track Rebirth, ne troviamo alcuni già diventati classici come The lake e Killer. Rebirth è, paradossalmente, l’album della maturità e sancisce l’affermazione di un’identità chiarissima, in cui una vocalità potente si mescola con suoni elettronici. Nonostante l’album, che non deluderà le aspettative di nessuno, risulti piacevole e fresco, il rischio di appiattimento su un genere che strizza l’occhio, forse anche troppo, al modello del folk anglosassone e ad artisti come Bon Iver e John Butler non è affatto schivato. (Elisa Frioni)
Ascolta: Prove it, Rebirth, The Lake
6/10
XXXTENTACION — ?
“It’s very comforting, but discomforting at the same time”. Mi ci è voluto un po’ per comprendere l’importanza delle parole con cui si apre questo secondo album di XXXTentacion: una serie di istruzioni per approcciarsi a una moltitudine confusa di emozioni e generi musicali, mescolati assieme in quello che ad un primo ascolto mi è parso un mappazzone incomprensibile. Non capivo quale fosse l’intenzione di X nell’ammassare una serie di brani (la maggior parte dei quali sotto i due/tre minuti) così differenti l’uno dall’altro. “If you are not open-minded before you listen to this album, open your mind”. E allora ci ho provato ad aprire la mente, a cercare una logica in questo ?: e la logica si è magicamente dissolta mostrandomene il significato. Quello che si presenta alle orecchie dell’ascoltatore è un progetto coraggioso, assai difficile da apprezzare se si ragiona partendo da una certa idea di “pop”, capace solo in parte di dare un perché al disco. Ho capito che qualcosa non andava nelle mie impressioni iniziali dopo che il rapper (se così si può ancora definire) era riuscito a farmi piacere I don’t even speak spanish lol, un accattivante quanto banale reggaeton: dovevo scardinare e rimodellare i miei pensieri partendo dal titolo dell’album. Solo quel punto interrogativo può infatti (non) spiegare come ci si sente dopo aver saltato alla rinfusa tra emo trap (SAD!), pop punk (una Pain = BESTFRIEND con tanto di Travis Barker) e accenni nostalgici ai Linkin Park (Floor 555, schizophrenia). Ciliegina sulla torta la bella dedica alle vittime di Parkland in Hope, prova della non estraneità dell’artista alle tematiche sociali e politiche che interessano la sua generazione. Risultato finale: o ci si lascia travolgere dal caos ormonale di X oppure si rischia seriamente di impazzire, per non dire incazzarsi, di fronte ad una tale assenza di direzione. Questo disco rappresenta un modo tutto giovane di concepire la musica (stiamo pur sempre parlando di un classe ’98), visualizzata nella mente come un flusso di pura emotività e poi eruttata così, senza filtri, quasi a casaccio. Anche senza apprezzarla particolarmente mi riesce difficile non premiare l’audacia di chi prova a creare in modi nuovi, senza la paura di pasticciare con ciò che gli piace. (Marcello Torre)
Ascolta: SAD!, NUMB, I don’t even speak spanish lol
6/10
Yakamoto Kotzuga — Slowly Fading
Sono passati ormai tre anni da Usually Nowhere, il disco d’esordio di Yakamoto Kotzuga; ai tempi il ragazzo faceva ben sperare per il futuro dell’elettronica italiana, nonostante fosse ancora un artista un po’ acerbo. Slowly Fading va preso come il primo riconoscimento del veneziano per la fiducia che abbiamo riposto in lui: è tutto ciò che speravamo il giovane producer diventasse. L’album è solido e conferma l’ottimo lavoro che sta facendo per questo genere musicale La Tempesta International. Spartiti in due dischi, i brani sono cupi e glitchati come i primi mixtape di Arca; ci sono dentro tante influenze, dalla trance alla trap, passando per downtempo e synthwave. Alcuni brani, soprattutto il primo This Will Always Be the Best, sembrano quasi dei remix della colonna sonora di Stranger Things e in generale, nonostante qualche drop massiccio (vedi Shouldn’t Be Here) e qualche basso potente (New Singularity), le atmosfere di Slowly Fading non si limitano al dancefloor, ma contengono ancora quella vena pop che ha sempre caratterizzato i lavori di Yakamoto Kotzuga. Se in Italia uscissero dischi come questo ogni mese saremmo tutti più felici. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: New Singularity
8/10