MEGARECENSIONI vol.18 — Aprile 2018

Di aprile non c’è da fidarsi, con quelle pedalate, la felpa nello zaino

La Caduta
La Caduta 2016–18

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Baustelle — L’amore e la violenza vol. 2

Non ci siamo ancora pienamente ripresi da L’amore e la violenza quando i Baustelle annunciano la notizia di un secondo album, una sorta di sequel scritto durante il tour. Consegnato ai fan il 23 marzo, L’amore e la violenza vol.2 contiene due strumentali (La violenza, La musica elettronica) e otto canzoni d’amore. Francesco Bianconi, autore e voce senza tempo del gruppo di Montepulciano, ha deciso di concentrarsi sul tema più usurato del mondo, dandone una personale visione e interpretazione. Troviamo l’ossessione in Veronica n. 2, la terza persona che compare in Lei malgrado te e A proposito di lei, la storia fuorilegge tra Jesse James e Billi Kid, la dichiarazione d’amore in Baby, la consapevolezza che L’amore è negativo, la fine del rapporto e la libertà recuperata in Perdere Giovanna. La violenza, secondo termine di un binomio inscindibile, permane sullo sfondo e nel linguaggio, nella scelta cioè di immagini e parole forti, a testimonianza di un amore mai solo ed esclusivamente romantico (“Baby un rivolo di sangue sulle labbra/ Due virgole di sperma sulla schiena/ Perché non immolarci tra la gente/ E fare finta che non conti niente/ La nostra vita con le ossa rotte/ La nostra vita prima di stanotte”). Le tracce de L’amore e la violenza vol. 2 sono momenti puri di tragica riflessione, canzoni “facili” perché melodicamente pop, immediatamente empatiche, ma mai “facili” per quanto riguarda i testi, le invenzioni musicali e l’ambizione di far musica per tutti sì ma sempre ricercata, di classe e di qualità. (Elisa Frioni)
Ascolta: Veronica n.2, Perdere Giovanna, Caraibi

8/10

The Faccions — Misano Brasile

A Pesaro, nonostante i big names della scena siano al momento quasi tutti un po’ fermi, c’è una realtà chiamata Dischi di Plastica che continua ad andare avanti imperterrita, proponendo la propria idea folle e mooolto personale di musica. Ovviamente dietro a questa etichetta ci sono I Camillas e negli anni l’orbita di Plastica è stata attraversata anche da gente come Pop X e Calcutta. Se ci si allontana da Pesaro, attraversando a nord il confine invisibile con l’Emilia Romagna, poco prima di Riccione ci si imbatte in un cartello stradale che non può non rimanere impresso nella memoria: Misano Brasile. Questa frazione latina della riviera dà il nome all’ultimo disco dei Faccions che, per restare in tema, è un grande viaggio. Misano Brasile è jazz puro, rock psichedelico, kraut e, quando meno te lo aspetti, è synth pop nostalgico di qualcosa che non è ancora successo. Miami Mike, in collaborazione proprio con I Camillas, è la hit estiva del disco, da cantare in spiaggia — libera o privata non importa. Se volete un disco suonato bene ma leggero da ascoltare, cercate Misano Brasile sulla mappa. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Miami Mike

7/10

Falling Giants — s/t

Capita a tutti, o almeno credo, di farsi passare sotto il naso delle uscite discografiche, piccole o grandi che siano, senza accorgersene. Stava per succedere anche con i Falling Giants, difatti scrivo queste parole affinché non soffriate anche voi questo rischio. Un trio proveniente da Ancona e dintorni che si trova alle prese con la prima demo, genuinamente autoprodotta, incrostata di lordume sonoro accumulato in fase di registrazione; una scarsità di mezzi porta grandi effetti , nei giusti contesti, almeno. In questo caso, il contesto è quello giusto. Nonostante lo stato embrionale del gruppo, le linee guida son già ben visibili. Stoner, Doom, Sludge, tutto ciò che risulta distorto, fangoso, decadente trova il suo angolino all’interno dello stomaco del gigante in caduta libera. Se si volesse sfociare nel mitologico, possiamo pensare al gigante come personificazione della materialità più schietta, una creatura che incarna la concretezza del mondo e che si appresta ad assediare e devastare tutto ciò che è divino, perfetto, armonico, sempiterno.

L’arrampicata è appena iniziata, i primi passi sono stati mossi e sondano il terreno, in cerca di appigli resistenti; un percorso che trae ispirazione da quelli dei grandi progenitori di questa particolare specie antropomorfa: Sleep, Neurosis, High on Fire…insomma, sia che si esprima sotto forma di riff ricolmi di psichedelia oscura, sia che prenda la forma di sfuriate hardcore/sludge, l’essenza del gruppo è la pura e semplice lordura, rabbiosa ed oleosa. Nel giro di tre tracce il gruppo ha saputo gettare la pietra angolare di un edificio consacrato ai Sabba e ad olocausti in nome di divinità ancestrali. I momenti ispirati non mancano, coperti unicamente dalla minimalità delle registrazioni e dal fardello inalienabile dello status di opera prima, con tutti i piccoli limiti che comporta. Ma il prossimo passa del gigante non tarderà a farsi sentire e ci son pochi dubbi sul fatto che l’impatto sarà ancora più massiccio. Con questo piccolo spoiler chiudo questa breve cronaca di una gigantomachia alle porte, facendo il tifo per i giganti, ovviamente. Il mito è malleabile, il finale tutt’altro che indelebile. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Falling Giant

7/10

Francesco De Leo — La Malanoche

Devo essere onesto: mi sono trovato ad ascoltare La Malanoche quasi per caso su Spotify senza sapere davvero cosa fosse; il collegamento tra Francesco De Leo e L’Officia della Camomilla è arrivato molto in ritardo data la mia scarsa conoscenza della band milanese. La cosa che mi ha colpito subito è stato il suono del disco, i bassi liquidi à la Tame Impala, i synth colorati e le ritmiche Mac DeMarchesche: da qui il secondo collegamento tardivo, questa volta con Giorgio Poi — che mi dicono sia un po’ l’architetto dell’album. E infatti il marchio di fabbrica è molto chiaro e in certi momenti sembra addirittura un passo avanti al più battistiano Fa Niente, nonostante quest’ultimo sia chiaramente un lavoro migliore nel complesso. Mentre scrivo non ho ancora capito se la voce di De Leo mi piace, o meglio, se mi piace all’interno di queste atmosfere sonore. Sta di fatto che, sembrerà una banalità, ma in Italia escono pochi dischi con suoni così freschi e quindi anche sti cazzi. Viva Francesco De Leo e viva Giorgio Poi. Viva La Malanoche. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Mylena

7/10

Gerda — Black Queer

Si potrebbe iniziare riflettendo sull’idea che il tutto è più della somma delle parti, oppure scomodare Eschilo e la sua formulazione sulla valenza nobilitante della sofferenza; ancora, si potrebbe tentare un’analisi comparata alla ricerca del filo rosso che lega i due concetti o di una sintesi. Più semplicemente si può rimanere muti e lasciarsi attraversare dai Gerda e gioire dell’esperienza di venire rasi al suolo.

Uscito il 30 marzo per Wallace Records, Bloody Sound Fucktory, Shove Records e Sonatine Produzioni, Black Queer è il quinto disco per la formazione marchigiana ed un ulteriore passo nella storia evolutiva della loro identità musicale. Ad un anno di distanza dallo split con i MoE e quattro da quel gran disco che era Your Sister, i Gerda ridefiniscono le priorità e i caratteri del proprio suono, smussando gli aspetti più taglienti e crudi in favore di una maggiore spazialità, privilegiando all’espressione violenta un’armonia corposa, viva, a tratti monumentale. Intendiamoci, Black Queer non è un disco accomodante: pur nella sua apertura è ruvido e lascia sopraffatti. L’incontro tra noise, ripetitività marziale a là kraut e urla furiose con quel particolare atteggiamento da “less is more”, che lascia enorme spazio all’individualismo nella composizione, dà vita ad un corpo complesso e stratificato. Le spigolosità rimangono, la violenza pure: la storia non è cancellata, solo integrata e ridefinita nella prospettiva del superamento del conflitto, l’apertura evocata non per qui ed ora ma verso un domani mobile come l’orizzonte. È l’assenza di una metà -e il suo rifiuto nelle intenzioni- ad essere, forse, il tratto più distintivo tanto del disco quanto dei Gerda: uno stile che non si risolve nella fissità ma esiste in funzione del suo dinamismo, un movimento schizoide e convulso senza compromessi che non si lascia catturare dalle definizioni e che, anzi, si confronta costantemente con esse destrutturandole. Ed eccolo qui Black Queer, nascosto tra differenze e conflitti di un suono che collassa ed esplode esprimendo finalmente la sua forza mentre tutto cade a pezzi. È la catarsi del dolore, il momento/movimento necessario che resiste all’esistenza e induce il cambiamento: forse nient’altro che il più alto richiamo possibile alla vita. (Giacomo Bergantini)
Ascolta: Hafenklang

7½/10

Indianizer — Zenith

Quanto spaccano gli Indianizer. Li avevo scoperti casualmente ad Apolide Festival ed era stato, a memoria, uno dei live più esaltanti e psichedelici della mia vita. Era ancora il periodo del primo disco Neon Hawaii e già si sentiva nell’aria la genialità e l’internazionalità del progetto. Psichedelia rock in salsa tribale, sinceramente già sulla descrizione sfioro il cielo. Poco fa è arrivato il secondo album Zenith e già è in (violenta) rotazione nei miei “aggeggi-riproduci-musica”. Chitarroni phaserati e sporchi, citazioni al post-rock ma anche a ritmiche più felakutiane oserei dire; annoiarsi con questo progetto piemontese è da disperati. E come un cretino sono qui a muovere le spalle in maniera senza dubbio imbarazzante, sorseggiando una birra e fumando una sigaretta ma, diamine, non riesco a star fermo. Quello che li rende un gruppo unico in Italia è il loro non sembrare italiani, ma un progetto senza passaporto appartenente alla città Mondo. E Zenith si dimostra un ulteriore passo in avanti verso una maturità necessaria per questo genere di impostazione musicale. Me li vedo su un importante palco europeo io, me lo auguro di cuore perché come gli Indianizer qui ci sono solo gli Indianizer. (Edoardo Piron)
Ascolta: Mazel Tov II, Bidonville

8/10

Kali Uchis — Isolation

L’aspetto che più mi affascina del pop è che, nonostante si presti benissimo alla creazione e moltiplicazione di vari cloni musicali, di fatto si tratta di uno dei generi meno standardizzati e più aperti dell’industria discografica. Ci sono un milione di modi diversi di fare pop e si può partire da qualunque influenza, per questo ogni anno in mezzo a una marea di album dimenticabili c’è sempre qualcuno che cerca di fare qualcosa di più ricercato e coraggioso. Dopo quattro mesi di 2018 si può dire tranquillamente che finora l’artista che ci è riuscita meglio è Kali Uchis con il suo esordio Isolation. La cantante colombiana, nota principalmente per le collaborazioni con Tyler, The Creator, ha tirato fuori dal nulla un disco praticamente perfetto, pieno di suoni solo apparentemente incompatibili, un po’ in spagnolo un po’ in inglese. Con l’aiuto di ottime produzioni (firmate tra gli altri da Damon Albarn, Kevin Parker, Thundercat e BADBADNOTGOOD) e featuring azzeccatissimi si passa dall’R&B ad un suono retrò à la Amy Winehouse, passando per il nuovo funk di The Internet ai ritmi latini. Miami (con la rapper BIA), Just A Stranger (con Steve Lacy), Tyrant (con Jorja Smith) e After The Storm (con Tyler e Bootsy Collins) sono tutti brani pazzeschi che riescono ad essere orecchiabili senza essere piatti e scontati. Un must tra le uscite di quest’anno. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: Just A Stranger (ft. Steve Lacy)

8½/10

M¥SS KETA — UNA VITA IN CAPSLOCK

Ci si sente strani quando un’artista che segui e ammiri da molto inizia ad essere sulla bocca di tutti, quando anche le major iniziano a far parte di un progetto musicale anarchico quale la nostra splendida M¥SS KETA. Dopo il favoloso EP Carpaccio Ghiacciato, la lady mascherata più figa di Milano (e di Porta Venezia) è tornata con un LP cattivo, arrogante, sudato e sexy. UVIC non è un album pop, come si può leggere su internet, è un lavoro nato da uno scenario musicale che nasce nel sottosuolo e che la Myss (evidentemente) frequenta, un genere di elettronica marcio, che ammicca alla gabber ma dilatandola e rendendola cantabile. Tutto questo è possibile grazie a produzioni di alto livello a cura di vari personaggi tra cui Riva e Populous che danno un tiro pazzesco a tutto l’album e che innalzano ancora quanto fatto nel percorso musicale della BASTARDA DA STARBUCKS. Poi ricordo con un po’ di malinconia quando creava la scena delle ragazze di Porta Venezia o raccontava la Milano sushi e coca alla perfezione ma è da anziani ragionare in questo modo. L’album non ha passi falsi, fila perfettamente, non è pesante e possiamo dire, con fierezza, che la regina è tornata in città! (Edoardo Piron)
Ascolta: Irreversibile, Ultima Botta a Parigi

8/10

Noyz Narcos — Enemy

L’ondata della trap ha rivitalizzato, da alcuni anni a questa parte, l’intero panorama rap italiano. Nuovi protagonisti hanno rotto gli schemi: in pochissimo tempo hanno conquistato i posti in prima fila e offuscato o intaccato la posizione dei veterani. C’è chi ha tentato di inglobare e sfruttare il successo e le doti dei novelli. E chi, al contrario, si è messo da parte in attesa di sferrare l’arma segreta in tempi migliori. Uno dei pochi che hanno seguito questa filosofia di meditazione e conservazione è Noyz Narcos. Con la recentissima pubblicazione di Enemy, settimo disco all’attivo per il mattatore del Truceklan, il nostro ha adottato questa strategia diversa e vincente. Enemy è un’opera moderna e contemporanea ma capace di rimanere aggrappata alla tradizione e di esaltarne le migliori caratteristiche. Una produzione ampia e poliedrica, che ingloba molte delle attuali sfumature rap (e pop) nostrane, ma le declina in una formula personalissima a cui il rapper di Roma ci ha abituato. Di fianco al Re di Roma infatti troviamo sia personaggi lontani dal suo mondo come Carl Brave x Franco126, Coez, Capo Plaza, Achille Lauro, che veri e propri colleghi come Luche, Rkomi, Salmo. Con ognuno di loro il Noyz non cambia pelle ma vesti: rimane sempre fedele alla sua storia, al suo stile, ma si inserisce nei contesti degli ospiti. Sfrutta ogni contributo per innovare e sperimentare, senza mai perdere la simmetria e la sintonia che lega i vari pezzi. È così che partiamo dal brano old-school Mic Check, in combutta con Salmo — forse la migliore prova tecnica degli anni ’10 — passiamo per il miscuglio dalle sfumature trap di Casa Mia, con la strana accoppiata formata da Capo Plaza e Luchè, e arriviamo alla mezza ballad molto cupa scritta assieme alle due punte di diamante della Lovegang. La magistrale capacità con la quale Noyz Narcos produce un disco unico nel suo genere, poliedrico ma completo in ogni aspetto, dimostra come il nostro abbia una saggezza musicale superiore a tutti. Quello del Noyz è un verdetto. Forse anche l’ultimo. Teniamocelo stretto. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: Mic Check, Mark Renton

9 — /10

Panopticon — The Scars Of Man on the Once Nameless Wilderness

Quando si dice pensare in grande… Austin L.Lunn (alias Panopticon) firma la tripletta dopo i precedenti Roads to the North e Autumn Eternal , portandoci questa volta un progetto ancora più ambizioso. The Scars Of Man on the Once Nameless Wilderness è un doppio album, uno in cui si concentra la parte prettamente più oscura e graffiante del suo sound; l’altro che racchiude tutte le ispirazioni e le sonorità folkloristiche e acustiche, parte altrettanto importante della sua visione della musica, legata fortemente alla sua terra natia, il Kentucky, aspro e magico alla stesso tempo. Partendo dal primo capitolo, ci troviamo davanti il classico sound del cosiddetto Cascadian Black Metal, peculiare interpretazione made in USA del sound norreno delle origini; insieme ad Agalloch, Alda, Fall of Ruaros, Wolves in the Throne Room e molti altri, Panopticon si inserisce in questa corrente, dando uno dei contributi più efficaci. Il riverbero delle sue chitarre, il suo scream e l’inserzione di strumenti tradizionali (archi, banjo e fisarmoniche) danno forma ad un mix brillante, che non scade facilmente nel banale. Si possono trovare re-interpretazioni di stilemi classici dell’heavy metal (come in Blatimen) e riff serrati e stridenti cari alla tradizione norvegese, forti di una carica travolgente anche nella sezione ritmica (si veda la parte centrale di Sheep in Wolves Clothing o l’attacco di En generell avsky ). La seconda parte dell’opera ci mostra un artista diverso, o meglio una condensazione del suo lato più malinconico e prettamente americano; basta blast beat, scream e chitarre ronzanti. Ora nella sua voce e nelle sue melodie si percepisce l’eredità della figura ormai classica del cantautore tormentato e sognante, immerso, in questo caso, nella solitudine dei boschi americani. Un salto nel folk rock di stampo classico, che non raggiunge vette altissime, ma che rimane comunque ricco di significato e valore. Con questo doppio disco Panopticon non ha sfoderato le sue carte migliori, ma ha lasciato un segno consistente ed eloquente della sua idea di musica. Ci ha dimostrato, ancora una volta, il suo spessore come compositore, diviso tra influenze e sensazioni diverse, unite in ciò che per Austin sembra valere più di tutto: la sua terra, il Kentucky. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Snow Burdened Branches

7+/10

Paolo Spaccamonti/Jochen Arbeit — CLN

Torino ha sempre esercitato un fascino particolare per tutti quelli interessati, a vario titolo, al mondo esoterico. Uno dei vertici del triangolo magico, intrisa di storia e crocevia di importanti influenze; però, appena all’ombra delle simmetrie mistiche di piazza San Carlo, escluso dall’attenzione delle fontane del Po e della Dora Riparia, c’è un altro luogo non meno partecipe del fascino enigmatico tutto tipico di Torino: piazza del Comitato di Liberazione Nazionale, il cui nome cerca assoluzione per la passata occupazione nazista e dal quale prendono il via i fatti di Profondo Rosso. Ridefinizione del passato, dunque, e capacità di coglierlo nelle sue contraddizioni e similitudini sono i primi aspetti che emergono da un’analisi, pur superficiale, della storia di piazza CLN e di Torino — elementi che non passano inosservati alle sensibilità di Paolo Spaccamonti e Jochen Arbeit, le cui vicende si sono intrecciate proprio a Torino con la conseguenza che da questo incontro ne è nato un disco straordinariamente interessante.

Debitamente intitolato in onore della piazza CLN è uscito il 9 marzo, frutto di una coproduzione tra Boring Machines ed Escape From Today, in edizione limitata di 300 copie. Pensato a Torino, registrato a Torino, mixato a Torino, inutile dire che Torino è il protagonista diretto e indiretto di questo lavoro. Nello specifico piazza CLN, posta davanti allo specchio della sua identità e riflettuta nei movimenti simili e contrari che l’hanno definita. L’analisi di questa simmetria, e delle sue rotture, rivela la natura ambigua e sotterraneamente coerente capace di simbolizzare, in sé, l’intera città e, più in grande, l’esperienza stessa del mutamento e la ridefinizione del proprio essere. Una natura che Spaccamonti e Arbeit traducono musicalmente in un dialogo non consequenziale tra chitarre e tappeti ambientali, lontano dallo schematismo botta-risposta. Il topos sonoro di CLN non si sviluppa orizzontalmente lungo direttrici stabilite rigidamente ma tridimensionalmente intorno al tema, lasciando gli strumentisti liberi di esplorare e rivelare diverse sfumature di questa natura enigmatica.

Una comunicazione spassionata, distillato di tre ore di registrazione libera, che riverbera in pieno della concretezza kraut degli Einsturzende Neubauten quanto del soundscape cinematografico di Spaccamonti, riuscendo a restituire tramite l’attribuzione di un suono ad un luogo il valore significativo dell’esperienza del mutamento: non già come miglioramento ma come movimento necessario, un passaggio dalle simmetrie alle rotture e al conflitto, fino al raggiungimento di un’identità organica e complessa. (Giacomo Bergantini)
Ascolta: II

7/10

Post Malone — Beerbongs & Bentleys

Post Malone ci aveva comunicato abbastanza efficacemente con Stoney che la sua musica è il nuovo pop, ma è Beerbongs & Bentleys, il suo secondo album, a fugare ogni dubbio e a convincerci definitivamente. In primis continua a viaggiare come il suo predecessore sul binario della (quasi) ventina di tracce, formula ormai consolidata con lo streaming, e ovviamente lo stesso si può dire per l’ampia gamma di collab presentate dall’artista cresciuto in Texas (21 Savage, Nicki Minaj e Ty Dolla $ign solo per citare alcuni nomi). Questa abbondanza di pezzi crea sempre degli squilibri, vuoi per la musica, vuoi per i testi, e le secche di qualità si fanno sentire immancabilmente in certi tratti del disco: un pezzo in cui parli della tua auto pimpata abbestia ci sta un sacco (92 Explorer), due sono già mmh (Candy Paint) ma tre (Sugar Wraith) messi di fila sono semplicemente un eccesso di tamarraggine. Ciò non toglie nulla ai pezzi in cui invece Post va a gonfie vele, che parlino delle sue paure come in Rich & Sad o Paranoid (se non si può fidare di un’anima «like I’m Snowden» allora piglia male sul serio) o che lo catapultino direttamente nella dimensione anthem dove risiedono Justin Bieber (cara Better Now, è una spruzzatina di Bon Iver quello che sento alla fine?) e i Maroon 5, che avrebbero potuto benissimo scrivere robe come Otherside o Stay, ed è un complimento. Sotto una coltre di testi mitomani e giochi di parole tra Zack e Cody e codeina sta comunque il successo indiscutibile di uno che è partito da SoundCloud e ora scala le vette di ogni classifica: i suoni più trap diventano quelli più catchy e quindi pane per i denti di Austin Post, che con un disco non indimenticabile si aggiudica, per ora, lo scettro del pop. (Marcello Torre)
Ascolta: ce n’è per tutti i gusti, fate voi

8 — /10

Princess Nokia — A Girl Cried Red

Per qualche motivo dopo aver dato il colpo di grazia al rock, molti soundcloud rapper hanno dimostrato nostalgia per diversi elementi dello stesso genere, facendoli diventare un trend che ha nell’emo-rap la sua massima espressione. È per le stesse ragioni che Chiara Ferragni indossa magliette degli Iron Maiden, Marilyn Manson è di nuovo un personaggio degno di nota e sono tornate le chitarre nei beat. L’emo-rap è però rimasto un sottogenere del cloud rap, senza sconvolgimenti a parte la virata sad dei testi e il modo di vestire e di tatuarsi di alcuni artisti; in pochi sembrano in grado di andare più in profondità rispetto a qualche citazione o all’idealizzazione di personaggi e status symbol. È qui che entra in gioco Princess Nokia, una delle rapper emergenti più interessanti in circolazione, ma soprattutto una che è sempre stata abituata a sperimentare con i generi musicali. A Girl Cried Red aveva tutte le carte in regola per essere l’ennesimo ammiccamento ai cliché emo, a partire dalla copertina con la t-shirt degli Slipknot e alla frase che torna ossessivamente su tutto l’EP e che sembra presa da un Tumblr a tema Fall Out Boy: “smash my heart in pieces / it looks so good on the floor”. Invece ci troviamo davanti ad un disco rap/R&B con dei riff di chitarra che vanno dal post hardcore al pop punk, cosa che può essere apprezzabile o meno. Sta di fatto che brani come Look Up Kid e Little Angel, nonostante suonino un po’ come delle cover con l’autotune dei Sum 41, in qualche modo funzionano e anche il pezzo meno rock e più cloud del disco (For the Night) si lega bene con tutto il resto. Dopotutto, se qui abbiamo avuto Polaroid possiamo lasciare passare anche questo EP. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: For the Night

7/10

Rolo TomassiTime Will Die And Love Will Bury It

Ho sempre trovato La combinazione di parole “Rolo + Tomassi” come una sorta di epifania eufonica, un’ accoppiata priva di senso in grado tranquillamente di stamparsi a caldo sull’area cerebrale dedita alla memoria a lungo Termine. Tale nome me lo sono portato dietro per mesi e mesi, forse anni; autori di un metal progressivo mulatto, con voce femminile dalla potenza e dalla duttilità senza davvero molti pari (almeno non da quando Krysta Cameron ha smesso di suonare con gli I Wrestled A Bear Once).

Time Will Die And Love Will Bury It è la coronazione di un percorso musicale che, per raffinazione, segna l’arrivo nel mercato di un gruppo musicale maturo e profilico. il singolo Aftermath è la cartina al tornasole delle scelte fatte in ambito compositivo: melodie chessy rubate al pop immerse in un pot-pourrì di arpeggi cameristici e volteggi acustici con la voce incredibile di Eva Spence a primeggiare. Dieci brani per cinquantatrè minuti bastano ai Rolo Tomassi per dimostrare che è possibile mischiare i migliori Between The Buried And Me (Rituals) a costruzioni quasi blackgaze che sembrano uscite dal prossimo disco degli Oathbreaker (Balancing The Dark) senza dimenticare un animo acustico attento a suoni e melodie in grado di aprire il cuore in due.
I Rolo Tomassi portano alla luce un disco memorabile, fatto di sperimentazioni, sicurezze e passi avanti; forti d’un identità rovente e di un gusto sopraffino per la melodia. Difficile pentirsene. (Graziano Salini)
Ascolta: Contretemps

8 — /10

Sleep — The Sciences

Un fulmine a ciel sereno, il cielo invaso da fumi e vapori impenetrabili e fatalmente inebrianti. Poi accade: il messaggio inizia a propagarsi per il globo, suoni e voci da un mondo che ci si è manifestato l’ultima volta più di dieci anni fa, lungi dal cadere nell’oblio degli anni. Insomma, gli Sleep sono tornati con The Sciences : la recensione potrebbe finire qui, se fosse per me. Ma per amor di discussione, proviamo ad illustrare la situazione ai non iniziati. Gli Sleep rappresentano una delle realtà storiche e fondamentali dello Stoner, tra i più grandi fabbri di riff dai tempi di Tony Iommi. Lo spazio siderale, il fluttuare senza peso e forma nel vuoto più assoluto, immersi in sonorità che sono psichedelia distillata, pura e cristallina. Un perdersi tra sonorità monolitiche e ridondanti, abbracciati dalla inimitabile voce di Al Cisneros (che segue il medesimo stile del suo gruppo parallelo, gli OM, dove esce allo scoperto il lato prettamente mistico di questo musicista) e dai riff di Matt “the President” Pike ( arricchito anch’esso dall’esperienza con gli High on Fire). Musica che si prende il suo tempo, lenta ed inarrestabile. Negli Sleep non esiste sobrietà, la musica perde la sua innocenza originaria e viene drogata, rimodellata e nutrita di una linfa più succosa. Sul piano strumentale, bisogna alzare le mani e appendere basso, chitarra e bacchette al chiodo. Il basso fotonico di Al Cisneros non ha perso la cera di un tempo e crea vere e proprie foreste di suoni, vibranti di forze arcane, attraverso le quali Matt Pike si insinua a colpi di ascia. I suoi assoli e i suoi riff sono epici, ispirati e azzeccatissimi, sia nelle parti più cadenzate (Giza Butler) che in quelle da solista, disseminate per tutto il disco. Alla batteria c’è Jason Roeder dei Neurosis, sempre preciso e impeccabile, un rinforzo decisivo alla già mastodontica ritmicità del gruppo. Non mi sento di aggiungere altro; siamo di fronte ad un ritorno in grande stile, autentico ed emozionante, dove tutte le cose sono al loro posto. Un album di cui avevamo bisogno. Il Pellegrinaggio, iniziato decenni fa, continua. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Giza Butler

9/10

Tedua — Mogwli

Nel forte bipolarismo che domina l’ambiente rap italiano, con Milano e Roma come arene principali, poche altre zone riescono ad avere un richiamo notevole. Con la recente esplosione della trap però, alcune città minoritarie hanno finalmente superato i loro limiti. Di pari passo con le altalenanti scene di Napoli e Palermo, negli ultimi anni ha preso forza anche la realtà di Genova, grazie al successo di personaggi come Izi o come Tedua. Quest’ultimo, lo scorso 2 marzo, ha pubblicato il primo album in studio, Mowgli. Dopo moltissimi featuring e comparse e un promettente mixtape dal titolo Orange County, con il quale ha dimostrato le sue potenzialità tecniche, il nostro ha deciso di fare il passo, scrivendo un disco di 14 inediti interamente prodotto da Chris Nolan. Mogwli è un viaggio profondo nella vita tormentata del giovane rapper, all’anagrafe Mario Molinari. E’ un disco personalissimo e complicatissimo, come le sono le barre che il nostro intreccia beat dopo beat. Dal lato poetico infatti il lavoro è sopraffino e la super-tecnica di Tedua impreziosce ed esalta le liriche. Ma l’impostazione ultra-melodica, presente in ogni brano, rende l’opera troppo piatta e omegeneo, tanto che alla lunga tende a stancare. Sembra come se nel cercare una formula nuova e unica — riuscidendoci tuttosommato — il nostro abbia messo da parte quel tipo di visione necessaria a rendere un disco perfetto in ogni sua parte, in ogni sua canzone. Viste le capacità del rapper genovese, siamo certi che nel prossimo album questo errore non verrà commesso. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: Burnout

7 — /10

TesseractSonder

Sonder, quarto album della discografia degli inglesi, continua sul solco tracciato dal precedente lavoro Polaris: Djent molto atmosferico caratterizzato da una forte preponderanza del lato emotivo grazie all’uso di armonie vocali e da arpeggi fuori dal mondo in grado di donare intangibile sostanza ai pezzi del gruppo. I Tesseract, in poco più di mezz’ora, sciorinano due pezzi ambientali, un pezzo di 11 minuti e un paio di pezzi più radiofonici (prendete ovviamente il radiofonico con le pinze) senza mai perdere i colori scuri della loro musica. Encomio completo per un Daniel Tompkins in spolvero assoluto, in grado di modulare la propria voce con maestria e delicatezza, complice anche un songwriting indirizzato all’utilizzo attento ed emotivo delle melodie. La voce, ora accompagnata dalla chitarra, ora dal rantolio poliritmico di basso e batteria, rimane autrice di alcuni dei momenti più belli dell’album come la sottile Orbital o le battute finali di Beneath My Skin/Mirror Image. A rendere imperfetto il disco è il songwriting, sempre molto se non troppo arioso e ancora claudicante nel suo comunicare con l’ascoltatore. Questo, unito all’utilizzo di determinate scelte sonore, fanno di Sonder un disco sì bello ma ancora lontano dai fasti del genere o dai fasti del gruppo stesso.(Graziano Salini)
Ascolta: King

7 — /10

The Weeknd — My Dear Melancholy,

Da quando ha iniziato a fare musica Abel Tesfaye aka The Weeknd è sempre rimasto un animale notturno: dopo la svolta che lo aveva visto passare dall’oscurità della Balloons Trilogy al pop più mirato di Beauty Behind the Madness e soprattutto Starboy l’atmosfera che si respira ad ogni suo ascolto è ancora una certezza come i brividi che mette la sua voce, capace di creare immagini fosche e nitide allo stesso tempo, come in certi film noir. L’EP My Dear Melancholy, non fa eccezione, con la differenza che si lascia indietro tutta la zavorra pop inutile di cui straripava Starboy, mantenendo invece tutto ciò che ha sempre funzionato di Tesfaye: i sei pezzi che lo compongono mostrano una compattezza sonora (produzione coi fiocchi curata da Gesaffelstein, Mike Will Made It, Skrillex e Guy-Manuel de Homem-Christo) e lirica che mancava al disco del 2016, con testi in cui dominano rimpianto e senso di impotenza, come d’altronde mette in chiaro fin dal principio il titolo. In questo senso i versi con cui si apre l’ultima traccia, Privilege, sono forse il manifesto più indicativo di questo progetto e dei sentimenti del canadese: Enjoy your privileged life / ’Cause I’m not gonna hold you through the night. My Dear Melancholy, non si apre a significative svolte di stile e nemmeno si affaccia troppo sui toni dark dei vecchi mixtape. La malinconia che si respira per tutta la durata dell’EP resta faticosa da digerire a causa della leggera monotonia di The Weeknd, ma ciò che colpisce veramente è la coesione tra i brani, prova definitiva della chiarezza del suo dolore e della validità di questo ultimo lavoro. (Marcello Torre)
Ascolta: tutto

6½/10

Unknown Mortal Orchestra — Sex & Food

La psichedelia è contagiosa di questi tempi e Ruban Nielson, mente dietro al progetto Unknown Mortal Orchestra, lo sa bene. Con il suo quarto album Sex & Food il neozelandese resta su questo terreno già calcato nei lavori precedenti, versando stavolta nella miscela nuovi ingredienti che abbiamo imparato ad apprezzare ascoltando l’evoluzione musicale di gruppi come i Tame Impala. I dodici brani mostrano un’apertura a generi come folk, R&B e soprattutto funk, operazione che non brilla tanto per originalità quanto per il calore che sprigiona: la dolcezza di una Hunnybee si alterna ai potenti riff di chitarra ultraeffettati del singolo American Guilt e ai vortici funky simil Calibro 35 di Major League Chemicals. Mancano forse pezzi che emergano più degli altri per bellezza, come invece accadeva in quel Multi-Love che tanto successo aveva riscosso nel 2015, ma forse la completezza di Sex & Food sta proprio nell’indifferenza che permette agli UMO di mantenere quell’atmosfera fatta di intimità e introversione, restando altrettanto fedeli alla loro passione per sonorità lo-fi ed estetica vintage. Questo disco ha portato Nielson a registrare in giro per il mondo, lontano dall’amato seminterrato di Portland che appariva in copertina su quello precedente, e tutto l’eclettismo che deriva da questo girovagare rappresenta sicuramente il maggior pregio di Sex & Food. (Marcello Torre)
Ascolta: Hunnybee, American Guilt

7/10

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