Copertina di Tommaso Casoli

MEGARECENSIONI Vol.19 — Maggio 2018 Pt.2

Nove maggio m’hê scurdat’ / t’hanno vist’ ca’ turnavi ‘nziem’ a ‘n’at’ / nun me siente, nun me pienz’ / tengo ‘o core ca’ nun può purtà pacienz’

La Caduta
La Caduta 2016–18
12 min readMay 28, 2018

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Albedo — La Paura

Gli Albedo vengon da Milano e li si segue dal meraviglioso Lezioni di Anatomia, del 2013, disco di cui parlammo a suo tempo, se non ricordo male, quando La Caduta portava altre vesti rispetto ad ora. Se gli anni passan per tutti, ciò che sembra rimanere, nel salto che va da quell’inizio, al passaggio per Metropolis e ora con questo dolce EP, La Paura, è una certa attitudine, un certo suono, qualcosa di riconoscibile nei testi. Il tutto si traduce in una storia unica che parla di corpi e di relazioni, di qualcosa che c’è e poi scompare, dei timori delle sconfitte e le gioie dell’attimo. Quattro canzoni sofferte che fanno da ponte con la storia recente del gruppo e con un certo modo di far musica, fuori da schemi o direttive, solo parole, chitarre ora dormienti ora elettrizzate, batterie incalzanti (Questa piccola stanza), crescendi e momenti distesi. Quattro canzoni sofferte che sono un diario dell’esser (stati) figli e dell’esser padri, dell’esser contemporaneamente le cose, ora responsabili ora incoscienti, in ricerca costante di equilibrio, in un lavoro di fino che si concretizza attimo per attimo, senza eccessi di peso né di frivolezze, l’utopico e ideale giusto mezzo. Ancora una volta gli Albedo ci regalano qualcosa di prezioso e fuori dal tempo. La Paura è qua anche grazie alla pazienza e al sostegno della colonna V4V; la si affronterà, senza timore. ()
Ascolta: E’ il tuo compleanno oggi, La paura

7/10

Cosmic Church — Täyttymys

I Cosmic Church, sin dalla loro fondazione nel 2004, sono stati molto chiari: il nostro percorso si snoderà attraverso tre album, nulla di più. E Täyttymys è l’ultimo tassello del mosaico. Questo duo finlandese è dedito ad un atmospheric black metal paradigmatico, sotto certi aspetti, ma che ha saputo lasciare la sua impronta sulla scena successiva. Con i precedenti Absoluutin lävistämä e Ylistis hanno raggiunto vette notevoli, rimanendo sempre una realtà di nicchia, sicuramente per loro stessa volontà. I testi in finlandese e l’etichetta indipendente non hanno certo contribuito alla loro notorietà. Tralasciando queste cose futili, posso dire che i Cosmic Church, in particolar modo con Ylistis, hanno segnato la mia crescita musicale; l’uscita del loro ultimo disco mi ha colto di sorpresa, dopo anni di silenzio tombale: cosa avranno partorito? Tirando le somme, un album che supera la sufficienza, che non è vicino ai livelli raggiunti in passato, ma che in almeno un paio di canzoni è riuscito a coinvolgermi genuinamente. Ho notato un maggiore uso delle tastiere, che bene si inserisce su un tappeto di riff mediocri, che fanno il loro dovere. La batteria, come solitamente accade in questo genere, si limita tenere serrato il passo di marcia, senza fronzoli e fiocchetti. Ahimè gli anni passano e risulta sempre più difficile mantenere vivo un genere che, per sua natura, tende a spegnersi e sbiadirsi , visti i pochi espedienti compositivi di cui si nutre: i riff si fanno meno incisivi, i passaggi prevedibili, la voce a corto di pathos. I Cosmic Church ci hanno provato ancora una volta, prima di abbandonare la scena, e il risultato è dignitoso e coerente. Brani come Sinetti e la title track Täyttymys spiccano al di sopra di una steppa ormai anziana, con ancora poca linfa a sostenerla. Detto ciò, rimane adamantino il loro valore e onorevole la loro coerenza nel corso degli anni. Un gruppo che ha sempre allontanato da sé la boria della scena musicale mondiale, sfornando album che tutti i fan del genere dovrebbero ascoltare. Per ciò li ringrazio e li saluto: rispolvererò la mia copia di Ylistis in loro memoria. ()
Ascolta: Sinetti

7 — /10

Desiigner — L.O.D.

Desiigner non è più quello di una volta. O forse non è mai stato davvero nessuno. Dopo un entrata sfavillante nel panorama rap internazionale, tra il trionfo del singolo Panda e le collaborazioni con Kanye West, il rapper di Brooklyn sta cercando, invano, di seguire la scia del successo. Nel nuovo EP intotilato L.O.D. (Life of Desiigner), pubblicato lo scorso 4 maggio, escono allo scoperto tutte le lacune artistiche e compositive del nostro. Le formule trap utilizzate sono standard e peggio ancora stagionate. Per quanto tale strategia, in alcuni casi, garantisca risultati, è chiaro che senza un minimo di diversità e innovazione, si finisce in un pantano di modelli triti e ritriti. Ad aggravare la situazione, l’ombra di Future, che appare ancora troppo grande. Non solo per una questione di similarità vocale e tonale, ma anche negli atteggiamenti, nei ritmi, nel mood. Da stravagante ma interessante clone, Desiigner si sta trasformando in una copia difettosa, della quale possiamo fare a meno. Ed è un peccato, perché in un ambiente di bulli e prepotenti, la leggerezza e la simpatia che egli trasmetteva erano una rarità. Speriamo quindi che il giovane inizi a prendersi sul serio per ritagliarsi un spazio ben definito. Altrimenti l’oblio sarà l’unica destinazione. ()
Ascolta: ma anche no

4 /10

Durmast — Village

Durmast è il progetto solista del marchigiano Davide Donati e Village è il suo primo disco solista. Un disco di musica elettronica, tutto strumentale, pieno di loop e sample, che viaggia tra cassa dritta e momenti di distensione, suoni lo-fi e deliri vari. Undici tracce che sono un giro sulle montagne russe di tanta elettronica, dalla cassa dritta di Grazy Ella alla nostalgia ottanta di Bora il passo è breve, Village è un viaggione cosmico, fa prendere bene, avvolge e colpisce per le diverse anime che fuoriescono senza soluzione di continuità. Bello poi sapere che il disco è uscito per l’etichetta americana Future City Records e le italiane Big Lakes e Mangiare Bene Dischi. Non resta dunque che immergersi appieno in questi quaranta minuti di musica da chillin’, che prepara e allude a tutte le notti d’estate che si vivranno da qui in avanti. Tanto si sa, voglia di dance all night, voglia di riviera, tra fughe stellari e momenti distesi, sembra che l’unica voglia sia quella di far muovere le gambe, i piedi, di dar sfogo a quella parte selvaggia di sé, nascosta e repressa, sempre pronta a straripare fuori e investire tutto e tutti, senza esclusione di colpi. Sei ancora qui? Dai allora, balliamoci un po’ su. ()
Ascolta: A14, Aldyno, Bora

6½/10

LORØ — Hidden Twin

Era il 2015 che i LORØ apparivano sulle scene col loro omonimo disco d’esordio, lasciando tutti, a vario titolo chi più chi meno, sorpresi e un po’ confusi, vuoi per il garbuglio dei giochi di parole — “ho visto i LORØ ieri sera” “chi?” “LORØ” “Ma loro chi?!” — vuoi, soprattutto, per l’intensità inattesissima della proposta. Il trio veneto se n’era uscito con una amalgama di metal ed elettronica ancora in fase embrionale ma che lasciava presagire, negli scenari migliori, uno sviluppo dal potenziale impressionante. Insomma si erano create delle aspettative e serviva attendere un secondo lavoro per poter sciogliere la riserva. Oggi questo disco c’è e possiamo dirlo: le aspettative sono confermate, soddisfatte e superate. Uscito lo scorso primo marzo per le indipendenti Dio Drone, Brigante Rec., Cave Canem DIY, In The Bottle Records e Drown Within Records, Hidden Twin è un tritacarne di post-sludge al cardiopalma che non cessa, per un minuto, di menare colpi. Il ritmo è tirato, l’atmosfera tesa e non si risolve -e quando lo fa non in qualcosa di rassicurante-, il tono cinico e caustico. I LORØ colgono al volo l’opportunità di far evolvere la propria identità musicale, senza forzature ma secondo una necessità quasi naturale. Pur mantenendo salda la formulazione tripartita batteria-chitarra-synth -questi ultimi sempre centrali, mai come guarnizione- il suono si arricchisce di una moltitudine di esperienze e riferimenti che, a sfavore dell’impatto magari, restituisce un godurioso senso di completezza. Si pensa per esempio alla visceralità dello stoner primitivo e menefreghista in Last Gone, oppure la stilistica ritmica mutata da band come Gojira o, più propriamente, Meshuggah — qualcuno ha detto Low Raw? — tutto coeso in un suono che affonda le mani fino ai gomiti nella tradizione estrema nordeuropea: un’espressione multiforme dal sapore black che ospita sapientemente inserti industrial, techno, death e chi più ne ha più ne metta, che trova nel noise la necessaria rottura della regola per far funzionare tutto insieme. E di quanto sia fondamentale questa rottura ce ne da una chiara idea la title track, forse l’espressione più alta tanto dei LORØ quanto di Hidden Twin, che sicuramente alza l’asticella e setta le aspettative per il prossimo disco molto, molto in alto. Avanti così. (Giacomo Bergantini)
Ascolta: Low Raw, Hidden Twin

8/10

Maurizio Abate — Standing Waters

La calma placida dello stagno, in un mattino autunnale, mentre la foschia sfuma i contorni del bosco e la vita brulica, nascosta e silenziosa. Questa è l’immagine che anticipa, emana e pervade Standing Waters, l’ultimo lavoro di Maurizio Abate, uscito lo scorso 9 marzo per Boring Machines (CD) e Black Sweat Records (LP). Un moto di spirito, un movimento del pensiero che dal paesaggio ritorna in sé stesso, scambiando incessantemente un confronto tra l’impermanente vitalità dello scenario e la condivisa, universale, stagnazione dell’anima. L’intimità è la chiave di Volta che Abate sceglie per rimpostare il discorso iniziato tre anni fa con Loneliness, Desire and Revenge; un’intimità magistralmente enfatizzata dalla limpidezza cristallina della chitarra lead ricca, nel suo folk aperto e retrò, di ben più di una fascinazione americana -e già in parallelo si profilano la vastità di praterie colme di un senso di solitudine-. In Standing Waters Abate si muove con sorprendente agilità in una complessa trama emozionale, restituendo senza didascalie la profondità, anche ambigua, di esperienze interiori poliformi e caotiche (Nymphs Dance), della serenità tinta di blue (Odonata) o della malinconia nostalgica che a poco a poco scioglie i nodi delle sue mancanze (Shaping the Mud). Una pittura fresca e dettagliata, naturalista a suo modo, quella sonora di Standing Waters, arricchita nello sfondo dai violini e violoncelli di Lucia Gasti che lascia ad Abate la libertà di rappresentare quella ambiguità sospesa e di favorirne, nelle espressioni più accentuate, una riconciliazione catartica. Un invito, in qualche modo passivo, dunque, alla contemplazione di questo stato di immobilità feconda, nell’immagino dello stagno, placidamente coerente nelle sue contraddizioni; non già come una fine ma come il Tutto in atto. (Giacomo Bergantini)
Ascolta: Shaping the Mud

8/10

Parquet Courts — Wide Awake!

Con Human Performance i Parquet Courts avevano sbancato il 2016 facendoci innamorare della loro semplice quanto efficace formula punk: con il nuovo lavoro Wide Awake!, sempre di casa Rough Trade, la band texana è riuscita a ribadire con veemenza quanto affermato due anni fa, aggiungendo elementi decisamente graditi al loro stile. Il disco si presenta come una successione di brani brevi, riottosi, che non lasciano respiro sin dall’iniziale Total Football e che si lasciano guidare dal filo conduttore teso dal basso di Sean Yeaton. L’album è intriso di spirito fast & furious e si lancia spesso e volentieri in riff aggressivi di stampo Clash (Almost Had to Start a Fight/In and Out of Patience), equilibrandoli sapientemente con parentesi più distese (Mardi Gras Beads, Back to Earth) nelle quali ci lasciamo cullare dai synth e dalla voce profonda di Austin Brown. Tra le migliori tracce spicca sicuramente la title track, un funk di selvaggia rapidità da cui è impossibile non farsi prendere. Ascoltando i Courts l’unica conclusione possibile è accettare che le chitarre avranno sempre qualcosa da (riba)dire: questo LP lo dimostra con sorprendente nonchalance, dandoci il mix di generi giusto per rendere ancora una volta accattivante e divertente il rock. ()
Ascolta: tutto

8/10

Santii — S01

Dopo la scelta coraggiosa di terminare gli M+A, progetto affermatosi ben oltre i confini italiani, e ricominciare da zero, Michele Ducci e Alessandro Degli Angioli sono risorti dalle proprie ceneri con Santii, idea nata dall’esigenza dei due artisti di declinare la loro arte in maggiori direzioni. In questo freschissimo S01 l’elettronica pop del duo si snoda attraverso l’imprescindibile logica dei featuring: gli artisti presenti non compaiono semplicemente come collaboratori, bensì completano alla perfezione col proprio talento atmosfere create appositamente per loro. Esempio perfetto è OUTSIDER (feat. Rejjie Snow), primo singolo e vera bomba trascinatrice dell’hype creatosi attorno al disco: qui il rapper irlandese cavalca l’onda del successo del suo Dear Annie uscito a febbraio grazie al romanticismo travolgente del sound forgiato da Miki e Alex. La formula si ripete con le dovute variazioni di brano in brano, col risultato che a ognuno corrisponde una distinta e perfetta dose di catchiness. Se poi consideriamo che alla miscela si aggiungono hit da dancefloor infuocate come BODIES (feat. Uli K) o la caraibica NEVERSORRY (feat. Supah Mario) l’ottima operazione dei Santii acquista ancora più forza e sensualità. L’appeal non sarà (per ora) ai livelli di un Mura Masa, ma con quest’album ci avviciniamo pericolosamente a quelle vette. Giù il cappello per il lavoro di questi ragazzi. ()
Ascolta: OUTSIDER (feat. Rejjie Snow), TOOFAST (feat. Idk), BODIES (feat. Uli K)

7½/10

Thou — The House Primordial

Un’aura sinistra ammanta il lavoro dei Thou, personalità provenienti dalla Louisana e intenti alla somministrazione di disperazione e marcescenza a grandi dosi, attraverso sonorità sludge e scream graffianti. Come se la fangosità sonora dello sludge non bastasse, The House Primordial si addentra ancora più in profondità, nell’abisso. Se prima di questo momento la vicinanza con i conterranei The Body era sicuramente ideologica, ora essa è trasfigurata anche sul piano sonoro. Nuovi meandri, quelli del drone e del noise più catatonico, si spalancano in questo EP, che segna per i Thou un cambio di rotta, anche se tutt’altro che incoerente. In trentasette minuti i Thou sfornano un agglomerato quasi inseparabile di sonorità sludge/doom, smembrate e distorte da uno stile di registrazione squisitamente minimale, in puro stile black metal old school. Sul piano tecnico c’è poco altro da dire, poiché la tracotanza e la potenza dei suoni copre tutto ciò che resta fuori, offuscando in modo consistente la profondità e lo stile d’esecuzione. I pezzi sono costruiti in maniera canonica, con pochi picchi stilistici, ma muovendoci in un contesto del genere il danno non è essenziale e compromettente. Se siete amanti delle atmosfere sporche ed orrorifiche, The House Primordial fa per voi; un ascolto molto complicato e poco “entusiasmante”, che ha il suo punto forte nella potenza dei suoni: massimo volume, massima resa. Questo è il primo di una serie di EP che spianeranno la strada al nuovo full lenght dei Thou; in essi la band si darà alla sperimentazione, andrà alla ricerca di un siero ancora più oscuro. Ce la faranno? Se questo EP è la premessa, oso immaginare il finale. ()
Ascolta: Diaphanous Shift

7 — /10

We Made God — Beyond The Pale

Dare tempo al tempo e tener d’occhio la valenza dei numeri. Son passati sette anni da It’s Getting Colder, secondo disco dei We Made God, band islandese all’apparenza dura e cruda, ma dietro il ghiaccio ci son dei cuori caldi che battono forte. E han battuto, a fatica forse, in questo tempo sospeso in cui li si è visti crescere e cambiare, in cui le pieghe della vita han preso direzioni spesso inedite, non calcolate. Ecco dunque Beyond The Pale, l’ultimo disco dei ragazzi con la formazione con cui li abbiamo visti nascere e crescere. Una band che è una famiglia di quattro fratelli, cresciuti tra hardcore, emo, metal e ambient, fautori di un post rock freddissimo ma splendente come le lingue di ghiaccio che circondano il cuore della loro isola, un post rock tutto loro, tutto codificato nei dialoghi di chitarre tra Arnor e Magnus, nell’incedere del basso di Stuni a tre corde, nella frustate di doppio pedale di Birkir, nel respiro dato alla voce ora profonda, ora matura. Otto pezzi puri, frutto di un lungo lavoro maturato nelle pause dalla vita di tutti i giorni, un tempo che va oltre tutti i discorsi discografici e di mercato che si possono fare, di ragazzi diventati grandi, pronti ai cambiamenti, agli imprevisti, sempre uniti; li vediamo contare il numero delle battaglie discernendo quelle vinte da quelle perse, ora che la guerra è finita ed è tempo di tornare a casa, sfiniti ma salvi, questo è l’ultimo saluto, prima della dipartita. Ora che l’inizio appare come la linea dell’arrivo, i ragazzi si guardano intorno, poi tra di loro, desti a ripartire, in altre forme. ()
Ascolta: Untitled, Glass, IV

7½/10

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