Copertina di Tommaso Casoli

MEGARECENSIONI Vol.20 — Giugno 2018 Pt.1

A$AP Rocky — Testing

A$AP Rocky è rappresentante di una categoria di rapper che più o meno da Kanye West in poi hanno alternato perfettamente l’essere tamarri e festaioli (specialmente nei featuring e nei progetti collettivi) al dimostrarsi degli artisti innovativi a 360 gradi (soprattutto nei dischi solisti). Se i due volumi di Cozy Tapes della A$AP Mob radunavano sotto l’ala protettrice della crew tutti quei giovani soundcloud rapper che fanno tanto incazzare i vostri amici puristi, in Testing ci sono FKA Twigs, Skepta, Dean Blunt, Blood Orange e Moby (idea geniale fargli ri-registrare Porcelain per l’outro di A$AP Forever). Questo disco è l’evoluzione naturale dei precedenti lavori del rapper newyorchese, che mantiene un suono riconoscibile ma mai ripetitivo. Di più: Testing è un passo avanti rispetto al resto della discografia di Rocky, perché dà ancora più spazio ai momenti psichedelici e sperimentali (prima solo sporadici) e elimina gli elementi più grezzi e “ignoranti”, che in questo caso sarebbero stati fuori luogo. Si tratta probabilmente di quello che l’anno scorso Vince Staples aveva cercato di fare col suo Big Fish Theory, ma con una maturità artistica che quest’ultimo deve ancora raggiungere e che ormai è invece un marchio di fabbrica per A$AP Rocky. ()
Ascolta: Tony Tone

9/10

Belize — Graffiti

Dopo X Factor, dopo il 2k17 di Replica, col tempo che passa e le consapevolezze che si fan sempre più profonde e quei piccoli tagli sulla faccia somiglian sempre più a delle rughe, è giusto uscire fuori, trovare nuove vie, continuando a seguire l’intuizione che il flusso pieno delle cose ci indica. Eppure talvolta si percepisce una certa resilienza, un minimo di reticenza, si instilla un dubbio rispetto a questo flusso incontrollato, a cui in qualche modo bisogna far fronte, che in qualche maniera va indirizzato. Graffiti è il secondo disco dei Belize, una delle band più valide e sincere del grande e grosso panorama musicale italiano. Graffiti è già per me uno dei migliori dischi 2018, lo so già perchè ascoltandolo la testa si spegne e il cuore si apre, perché c’è una sincerità e una precisione nelle parole di Riccardo circa questa nostra strana situazione generazionale, perché c’è un tumulto di rabbia controllata nella batteria di Dede, incanalata nel rullante di Buenos Aires Pt.2 — hit estiva sopra tutte le hit estive che già vi stavate ascoltando — e perchè c’è un lavoro di fino del maestro Tavani, coi suoi arpeggi e i suoi refrain di chitarre dapprima cristalline e poi effettatissime. C’è un quoziente di sincerità e di amore e di rabbia e di frustrazione in questo disco che lo spedisce di forza in alto; c’è il feat azzeccato con Mecna in Non aprite quella porta, cassa drittona e scioglilingua rap, c’è l’altro geniale feat con Generic Animal in Barca, altra super-hit estiva come un tramonto a Fregene. Graffiti mi piace perché va per i fatti suoi, i Belize mi piacciono perché ereditieri di una certa scuola musicale, che non è una né trina, ma multipla nelle sue ispirazioni, e veramente trasversale. I Belize mi piacciono perché sono una band, oggi che le band sembrano dei dinosauri pronti a estinguersi in mille progetti, mentre i nostri ancora ci stanno dentro, ancora ci provano a tenere le cose insieme, ad essere un gruppo. Graffiti è un disco che mi auguro viva una vita lunga, che possa attraversare e navigare gli anni a venire con gioia, invecchiando bene come i vini rossi buoni. Viva. ()
Ascolta: A Lei, Buenos Aires Pt.2, Barca

8/10

Father John Misty — God’S Favourite Customer

A distanza di appena un anno da Pure Comedy, terzo e complesso disco, il buon Father John Misty torna sulla scena con una nuova, bellissima opera. Sembrava impossibile che in così poco tempo il mistico John Tillman riuscisse a trovare ispirazione. Eppure ci sorprende, per la nostra gioia, con dieci nuove tracce di una qualità sopraffina, autentiche come autentico è il suo impegno nella creatività. Non siamo di fronte a nessun tipo di sferzata sperimentale, bensì a un semplice ma nobile ritorno assoluto ai rudimenti. Se nel precedente avevamo assaporato qualcosa di appena diverso, un arricchimento sonoro, degli arrangiamenti sfarzosi, in questo caso torniamo sui binari standard del soft rock, cancellando ogni virtuosismo. Father John Misty suona sempre allo stesso modo senza suonare allo stesso modo. Un paradosso apparente che dimostra la grandezza di questo uomo dalla dolce tenebrosità. Quello di Tillman è un approccio stacanovista alla scrittura e alla musica, orientato a raccontare, con tendenze al rialzo, la complessità dell’uomo e della società. Egli sembra erigersi , quasi con coraggio, ad una sorta di osservatore speciale della quotidianità. Esamina le realtà da un punto di vista interno e quindi autobiografico ma anche esterno e quindi globale. Father John Misty è il profeta artistico che aspettavamo: umano. ()
Ascolta: Hangout at the Gallows

8+/10

Ghost — Prequelle

Il nuovo atto dell’opus musicale dei Ghost è arrivato. Prequelle è il suo nome e porta con sé il solito miasma, affascinante e barocco, che questi svedesi hanno saputo evocare con la loro musica. Sin da Opus Eponymous i Ghost hanno saputo far parlare di sé, nel bene e nel male, a seconda degli spiriti. Il sottoscritto appartiene alla prima categoria. Ebbene sì, anche io sono stato stregato dal suono pulito, ed allo stesso tempo demonico e scabroso, delle chitarre dei Ghoul senza nome; dalla voce aggraziata e cerimoniale dei Papi e dalla irrefrenabile orecchiabilità, quasi ipnotica, che i loro album possiedono. Lungi dal poter essere bollati di monotonia, i Ghost hanno sempre portato qualcosa di nuovo sul piatto, senza sbilanciare la loro immagine e il loro sostrato ideologico. Dopo il mirabile Meliora, che rimane a mio parere il loro miglior disco, insieme al primo, eccoci davanti Prequelle. Il primo impatto, soprattutto se anche voi come me venite da un background costruito su musica estrema (tra cui i precedenti dischi dei Ghost), sarà micidiale. Dopo le prime quattro tracce (di cui una, Miasma, strumentale e ben costruita) inizierete a sentire qualcosa che stona, qualcosa che non quadra. Sarò breve e diretto: a partire da Danse Macabre in poi, Prequelle è un album Pop. L’ho detto, esatto: sentirete queste tastiere quasi alla Abba, queste voci cantilenanti, i ritornelli cadenzati e ripetuti, quegli assoli così pacchianamente melodrammatici. C’è poco da fare, ammettiamolo: i Ghost sono uno dei fenomeni musicali più importanti degli ultimi vent’anni, Prequelle non è che l’ennesima conferma. Ho sentito gente massacrare questo album, urlando in modo isterico “Ma questi non sono i Ghost! Questa è robaccia pop, pacchiana, da radio!!1! Gne gne”, e via dicendo. Rispondo semplicemente: i Ghost sono sempre stati tutto ciò, tutto era previsto e costruito nelle loro menti, tutto è al proprio posto, nulla ingiustificato. Io faccio un applauso e mi inchino a Tobias e compagni, che sono riusciti a portare alle orecchie del mondo della musica estremamente godibile e, allo stesso tempo, a costruire una storia coinvolgente, che viaggia parallela all’uscita dei dischi (vi lascio un link per farvi un’idea). A parte Pro Memoria (con il suo ritornello abbastanza indecente), l’album è da salvare e incorniciare, come un nuovo atto della chiesa satanica e grottesca dei Ghost, edificata sulla pietre angolari del metal più classico e della teatralità tragi-comica, che sola, a questo genere musicale, si addice. ()
Ascolta: Rats

8 — /10

Heart of Snake — S/T

Trenta minuti di musica condensata in due lunghe suite dal cuore di serpente. Heart Of Snake è un progetto che ho avuto il piacere di sentire live qualche tempo fa, a HEX, il festival di Volume — dischi e libri. Due chitarre classiche, uno slide, incroci sinuosi di arpeggi che s’affastellano uno sull’altro per poi scomparire e lasciare spazio al silenzio e al vuoto, a momenti di distensione ed altri in cui sei lì affannato e concentrato sulle trame che Vincenzo Marando e Alberto Danzi, con matematica psichedelia, costruiscono e distruggono quando ne han voglia. D’altronde il background è quello lì, tra psichedelia blues medioevo e folk, il duo ha dato alla luce questo self-titled, uscito per la santa Maple Death Records, che fatto di quiete e tempesta, continuità e strappi, apparizioni e scomparsi di chitarre, viole, Onde Martenot, vibrafoni, steel guitar, synth e percussioni, in una montagna russa, un viaggio di ombre e luci, in vie strette e poco frequentate e poi paesaggi di vallate e deserti. Insomma ci sono tutte le carte in regola per il trip, pronto a rivelarsi catartico quando meno te lo aspetti. Ascoltare questa mezz’ora di musica è di un piacere inedito, sepolto sotto un presente di easy-listening e consumo sfrenato, Heart of Snake ci dà un pezzo di pace e ci mette tutti d’accordo, a sedere, gambe incrociate, in silenzio, in ascolto della maestosità che proviene dall’apparecchio di riproduzione musicale. P.s. L’esperienza live è consigliata. ()
Ascolta: I

7½/10

Jorja Smith — Lost & Found

In ambito musicale è sempre difficile parlare di prodigi evitando di fare grandi sfondoni o di seguire vicoli ciechi. Spesso infatti si finisce per urlare al miracolo quando invece si è solo davanti a interessanti eccezioni. Quello di Jorja Smith però è un esempio di cristallino talento dove suonerebbe strano invece non parlare, fin da subito, di prodigio. La 21enne britannica arriva al primo grande traguardo del disco di debutto, intitolato Lost & Found e pubblicato lo scorso 8 giugno per FAMM. Partita su Soundcloud, come molti altri attori della generazione digitale, la giovanissima cantante ha dimostrato delle qualità canore indiscutibili, sia melodiche che tecniche, e un estro artistico molto promettente. Jorja infatti si muove con sorprendente sicurezza tra le mura più moderne e contemporanee dell’R&B. Pur essendo debitrice delle grandi donne del genere come Lauren Hill, Alicia Keys, Alliyah, la nostra trova una sua personale cifra, influenzata anche dal rap e dal reggae. Se pensiamo che Blue Lights, il brano più importante del disco, è stato anche il suo primo pezzo pubblicato, non potevamo che aspettarci grandi risultati. Jorja Smith è qui per rimanere e incantarci con le sue bellezze artistiche. ()
Ascolta: Blue Lights, Wandering Romance

8 — /10

Low Kidd — Indigo 3

Sorprende sempre vedere degli artisti cimentarsi in ruoli diversi dal proprio, sperimentando stili che non gli appartengono. E sorprende ancora di più quando questi riescono a produrre buoni risultati. Il caso di Low Kidd segue perfettamente questa favoletta dello spettacolo: dopo alcuni teneri approcci dietro il microfono e il successivo consolidamento come uno dei producer più interessanti d’Italia, in questo 2018 il nostro torna sui suoi passi iniziali. Con pochissimo preavviso, lo scorso 13 maggio Low Kidd ha pubblicato Indigo 3, opera prima solista per il ragazzone dei collettivi Machete/333 MOB. L’album segue le dinamiche tipiche del suo sound: una miscela forte e durissima di basi trap, composto da bassi potente e pervasivi, sempre in primo piano. Un lavoro sinfonico e melodico ricercato ma solo a tratti originale, specie se visto in confronto all’omologazione che affligge la scena. Il nostro infatti segue troppo, nel complesso, quanto di già fatto nella sua carriera dietro al mixer, rimanendo influenzato dai suoi compari, tra cui Lazza — non è un caso che N3W FRI3NDS, con il suo feat, sia tra i pezzi migliori. Notevole comunque il potenziale che Low Kidd mostra in veste da rapper, tanto da augurarci che possa continuare su questa strada. Se avesse un po’ di visione creativa in più, adesso staremmo davanti a uno dei dischi dell’anno. L’appuntamento è rimandato. ()
Ascolta: N3W FRI3NDS (feat. Lazza), TT 3

6/10

Nicolaj Serjotti — Oversized Thoughts

Nicolò è un ragazzo freschissimo, l’ho incrociato per caso al Linecheck Festival lo scorso anno e basta una sigaretta per attaccare bottone. Nicolò è un ragazzo della Brianza e fa il rap, è aggiornatissimo su tutte le uscite, c’ha un botto di passioni e la giusta fotta (e forse anche le giuste persone intorno) che gli dà l’innesto per produrre, muoversi, pensare e poi produrre. Nicolò viene dalla Brianza ma Nicolaj viene dallo spazio, fa l’apicoltore e si muove sulla traccia con sinuosità e leggerezza, con quel passo cadenzato che però inevitabilmente sembra tenerti dritto, in ascolto attento rispetto alle pare e alle sbatte del ragazzo di una provincia piccola vicino a una grande città che è una grande provincia. Oversized Thoughts è il suo primo EP, 5 pezzi che musicalmente sono una goduria: delle basi curate, molto chill, drum machine e synthini morbidi e sognanti, in sinergia con il flow un po’ damiciano del sergente Serjotti, che costruisce castelli di storie che niente han di meno rispetto a quelle che ci raccontavano i Tedua e gli Rkomi di appena due/tre anni fa, il sergente che si muove tra il freddo della city e la bruma della pianura, con l’ansia che pesa (ma quanto pesa?) e una Renault Clio sempre in riserva ma sempre pronta a volare. Grande e bella sorpresa, questo EP, tanto cuore in queste tracce, a Nicolaj consiglio Cali mentre voialtri che leggete, mi sa che sentirete parlare presto presto di un certo ragazzo di cognome Serjotti, professione apicoltore spaziale, lingua veloce pensiero tagliente, le spara rapide, colpisce a segno. Chi? Tutte le piskellette! ()
Ascolta: Senza Casco, Renault Clio, Quanto Pesa?

7/10

Oneohtrix Point Never — Age Of

Dopo aver pubblicato uno dei migliori dischi di elettronica del 2015, Oneohtrix Point Never ha sensibilmente aumentato le sue collaborazioni al punto di diventare uno dei producer più richiesti in circolazione. Due di questi lavori commissionati — HOPLESSNESS di ANOHNI (prodotto insieme a Hudson Mohawke) e la colonna sonora di Good Time dei fratelli Safdie (piena di sequencer à la Tangerine Dream o à la Stranger Things, in base al vostro anno di nascita) — devono aver influenzato in qualche modo il modo di comporre di Daniel Lopatin in vista del suo nuovo disco Age Of. Mentre nel precedente Garden of Delete ogni momento di quiete anticipava un’improvvisa e violenta tempesta trance, quest’ultimo lavoro è decisamente più leggero e melodico. L’elemento principale sono gli arpeggi quasi barocchi, sui quali si appoggiano i synth e un cantato in vocoder che fa molto Discovery dei Daft Punk. Ciò non significa che la musica di OPN abbia perso la sua cupezza e il suo rifiuto delle strutture tradizionali, ma l’impressione è che questa volta ci sia stata meno rabbia in studio rispetto ad altre occasioni e il risultato è un disco meno indimenticabile ma comunque molto interessante.
PS: grazie all’opera d’arte di Jim Shaw e il solito stupefacente lavoro di design di David Rudnick (avete presente l’artwork di Sirens di Nicolas Jaar?) Age Of ha quella che finora è decisamente la miglior copertina di un album del 2018. ()
Ascolta: The Station

7½/10

TT — LoveLaws

Alla fine di maggio Theresa Becker Wayman, chitarrista delle Warpaint, ha pubblicato il suo primo lavoro solista sotto lo pseudonimo TT. LoveLaws arriva tre anni dopo l’esordio in solitaria della collega Jennylee e come per quell’occasione ci viene offerto un altro sguardo sull’apporto delle singole componenti al suono della loro band. Se right on! (il disco di Jennylee) enfatizzava l’elemento più dreamy, fumoso e anarchico delle Warpaint con risultati non sempre entusiasmanti, il disco della Wayman ci conferma che quest’ultima è invece l’architetto degli sforzi più pop del suo gruppo. LoveLaws, infatti, pur non allontanandosi troppo dai confini già esplorati è un album estremamente diretto e orecchiabile, e continua il cambiamento iniziato con l’ottimo Heads Up (ultimo disco delle Warpaint uscito nel 2016). I singoli sono stati scelti alla perfezione; Love Leaks per primo ha tutto ciò che serve ad un brano per essere efficace: ha un bel ritornello che rimane subito in testa, dei suoni per nulla scontati e un testo forte e coraggioso. Per forza di cose su questo disco non mancano anche i momenti più lenti, sperimentali e onirici; ma ciò non toglie che LoveLaws è il miglior spin-off del progetto Warpaint uscito finora. ()
Ascolta: Love Leaks

7½/10

Yob — Our Raw Hearts

Diciamocelo, Mike Scheidt ci ha fatto prendere un bello spavento. Il cantante e chitarrista degli Yob, infatti, ha passato molto tempo in ospedale, alle prese con una malattia potenzialmente letale. Per fortuna, tutto è andato liscio. Ed eccoci, il nuovo album degli Yob, l’ottavo, per l’esattezza: Our raw Hearts. Come tutti i fan degli Yob, ho sperato che il numero “8” possa, tramite una semplice rotazione laterale, trasformarsi in un simbolo d’infinità. Dopo tutto, gli Yob ci hanno abituato fin troppo bene, risultando una delle realtà più affermate e valide della scena stoner e doom internazionale. Invece no, la forza travolgente del trio statunitense ha fatto un passo falso, ha avuto degli intoppi non trascurabili. Il fatto è che fino ad Original Face, non ci sono stati momenti coinvolgenti, memorabili, trascinanti; caratteristiche fondamentali, in particolare per questo genere musicale. I riff sono fiacchi e fumosi, non ci sono ripartenze o passaggi vivificanti; su The Screen, addirittura, non volevo credere a ciò che ascoltavo. Neanche la parte più psichedelica della loro musica riceve un trattamento adeguato, a parte l’accettabile title track che chiude il disco. Tranne quest’ultima traccia e la già citata Original Face, non mi sento di salvare granché di questo album, se non brevi e sparsi stralci. Un album di una banalità che fa male, ma che alla fin fine è stato composto e registrato in un momento molto duro per il gruppo, vista la malattia di Mike; una giustificazione lecita, ma che non indora più di tanto la pillola. Diamo a questi ragazzi il tempo di riprendere a pieno le forze, poi ne riparleremo. ()
Ascolta: Original Face

5+/10

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