Copertina di Tommaso Casoli

MEGARECENSIONI Vol.20 — Giugno 2018 Pt.2

Funeral Mist — Hekatomb

Da dove iniziare? I Funeral Mist sono un progetto parallelo di Hans Daniel Rostén, cantante dei celeberrimi Marduk, band che rappresenta l’archetipo del black metal svedese tradizionale. Questo suo progettino secondario (se così si può chiamare, vista la qualità della merce) rappresenta il lato eterodosso, “avanguardistico” del black metal di matrice scandinava. Partendo dalle tematiche trattate, si nota subito la vicinanza con gli inarrivabili Deathspell Omega: gli argomenti che vanno per la maggiore ruotano intorno ad una visione distorta e grottesca di tematiche religiose cristiane, un capovolgimento della religione della carità in estasi mortifera. Partendo da questi presupposti, la loro musica si fa già più vivida. Cercherò di portare ai vostri occhi dei brevi stralci di questo massacro sonoro. Si parte con In Nomine Domine: blast beat a livelli sconcertanti, un cantato acherontico e un riff che vola su e giù su tutto il manico della chitarra, riuscendo a costruire una bizzarra linea ritmica. Stacco. Riff cadenzato da headbanging automatico. Stacco. Si riparte. Poi c’è Naught But Death, che vanta buoni, ma classici, riff centrali alternati da stacchi di batteria e il canto di un monaco in adorazione (o almeno questo ci ho visto); questi piccoli espedienti compositivi rendono di fatto il prodotto più ricco e godibile, nonostante la qualità dei riff centrali e della sezione ritmica non sia affatto da buttare. Shedding Skin travolge come uno tsunami ritmico e riff trita-ossa, con dei cambi di ritmo micidiali. Da apprezzare l’uso dei synth in Cockatrice, che mi hanno riportato all’ambient black metal alla Coldworld. Prima di chiudere non posso non citare Metamorphosis, lenta e sublime, un esechiasmo diabolico fatto musica. Insomma, ho detto tutto e allo stesso tempo poco. Se siete alla ricerca di un disco black metal che non suoni pacchiano e monotono, vi indico Hekatomb e i Funeral Mist. Un battito del polso che ci dimostra che questo genere è tutt’altro che morto. Un album che aspettavo e che non mi ha deluso. ()
Ascolta: Metamorphosis, Shedding Skin

8 — /10

Homelette — Empty Suitcase

Homelette vengono da Bari ma sono sparsi tra Roma, Bologna e, sul loro bandcamp specificano, la tua camera da letto. Niente di così creepy, se c’è qualcuno che nel letto ti accoglie con melodie placide e così piene di cuore, cos’altro serve se non l’attacco di Ghost per conquistare qualsiasi persona in qualsiasi camera da letto? Non lo so, però questi sei pezzettini di Empty Suitcase, in quest’aria da fine giugno, in quest’odore di santità, sono un palliativo alle pene più nascoste, un vento di tramontana che si alza sulla piana calda e secca, aria che filtra in mezzo agli steli, focus sui particolari, un po’ di Elliott Smith. Piacevole scoperta Homelette, che ci regalano un pelo di quiete e di buonumore, un colpo di coda alla primavera e uno di frusta all’estate, una melodia che ci ispiri il giorno e un’altra che ci addolcisca il sonno più tormentato. Per esempio, Space è un notturno soffice, un cuscino in cui affondare. Si svuoti dunque a mano a mano questa valigia, nell’arco di venti minuti, si provveda al risciacquo dell’anima e al ristoro del corpo, si rilassino le spalle e ci si adagi, possibilmente, su un divano. Si decida o meno di addormentarsi. Non si discuta sulla possibilità di sognare. Sarà una certezza. ()
Ascolta: Ghost, Space, Song for U.

7/10

Joan Thiele — Tango

Joan Thiele è un personaggio atipico all’interno della nostra scena nazionale: canta in inglese in un panorama che sta cercando in tutti i modi di rivalorizzare l’italiano, ha dei suoni che vanno dall’Inghilterra agli USA passando per il Sud America contro i vari revival battistiani e affini che stanno facendo la fortuna dell’itpop. Di più: Joan Thiele è un ottimo prodotto discografico e non c’è niente di male in questo, specialmente oggi che si spaccia per indie roba strapagata e strapromossa dalle major. Con il suo primo EP avevamo avuto un assaggio del suo talento, ancora a tratti un po’ acerbo, ma Tango conferma la crescita che tutti aspettavamo. Produzione e arrangiamenti sono impeccabili e le sonorità — per quanto molto affini a quelle di certi big esteri — sono chiare e coerenti con il personaggio e con l’immaginario del disco; non c’è niente di forzato o di eccessivamente costruito. Unica pecca: sarebbe stato bello sentire più brani in spagnolo, ché i dischi bilingui sono sempre ben accetti e Azul è nettamente il pezzo più interessante del disco (nonostante Polite sia la vera hit). È arrivata finalmente l’ora di prendere Joan Thiele sul serio, prima di fare la solita figura da sprovveduti quando inizierà a spaccare fuori dai nostri confini. ()

PS: colgo l’occasione per scusarmi con Joan Thiele per quella volta che a Milano ho cercato di farle dei complimenti per la sua musica nonostante le mie condizioni mi stessero impedendo di tirare fuori frasi comprensibili e di senso compiuto. 🙃

Ascolta: Azul

7½/10

Mecna — Blue Karaoke

Ciò che rende Drake unico fra i rapper è probabilmente quell’attitudine, tanto perculata dai suoi colleghi, a far prevalere i sentimenti sul solito, trito, machismo dell’hip hop. In Italia cominciamo forse a renderci conto di quanto sia liberatorio lasciarsi andare a nuovi spunti pop nel genere, dimenticando la vecchia bagarre coi puristi e lasciando che gli artisti evolvano a piacere. Mecna è uno di quelli che, in costante lotta contro i pregiudizi, stupisce sempre per la brutale onestà che mette in gioco spogliando se stesso alle nostre orecchie di ascoltatori. Ho sempre amato la sua capacità di condividere i propri enigmi dipingendoli con le tonalità più fredde, le uniche adatte a descrivere i tratti più bui della vita e a smuovere le emozioni nascoste più in fondo. Blue Karaoke è quel salto di qualità sorprendente in termini di sensibilità pop che non ti aspetti nemmeno da uno col suo talento: dopo l’ottimo Lungomare Paranoia dello scorso anno Corrado è riuscito a dare un po’ di colore a certi spazi grigi nella sua musica, e lo ha fatto con quel tocco alla Drizzy che ora, senza inutili paragoni, è decisamente nelle sue corde, anche per merito di produzioni da pelle d’oca. Il compito di realizzarle è toccato a una schiera di nomi di indiscussa qualità, fedelissimi del rapper pugliese come Iamseife, Lvnar, Yakamoto Kotzuga e Godblesscomputers: si fa fatica a evidenziare solo pochi brani, tanto che si potrebbe parlare per ore della bellezza di Senza Di Me, degli echi daftpunkiani di Piano B o delle atmosfere da club di Non Sono Come Te. E forse del momento più alto dell’album, quell’Ottobre Rosso con Ghemon, lettera aperta a una scena rap italiana che tanto ha dato e tanto ha tolto. Mecna non ha abbandonato il rap: l’ha abbracciato inglobando con gli anni sempre più elementi, con la sicurezza di chi sa cosa vuole e può prendersi ora tutto ciò che gli spetta. Come lasciavano intuire il titolo e le stories che lo hanno anticipato, Blue Karaoke vuole essere cantato, rappato, ballato, non importa: ciò che conta è che vuole rimanerti nel cuore. ()
Ascolta: tutto

8½/10

Melody’s Echo Chamber — Bon Voyage

Tante e forse troppe cose cambiano da un giorno all’altro, figuriamoci cosa sia addormentarsi per qualche anno, finire in letargo e risvegliarsi dopo diverso tempo, un Capitan America è stordito dal presente e dal circostante, può capitare che impazzisca, che abbia qualche scompenso. Dal primo, omonimo, splendido disco di Melody’s Echo Chamber a questo Bon Voyage, di mezzo ci sono stati due dischi dei Tame Impala, uno spostamento peso di attenzione e hype dalla psichedelia di nuovo al rap, un sito di Pitchfork in evidente crisi d’identità e un mondo che ha raggiunto la pazzia più deviata. Bon Voyage dunque: un augurio, di sopravvivenza, di guarigione da una malattia, in primis quella di Melody (il disco ha avuto dei ritardi per un brutto incidente), e in secundis quella di tutti noi. Sette sono i pezzi, di varia lunghezza, dove tornano tappeti di chitarre e synth che ci portano lontani, batterie valchirie e una voce inconfondibile, che gioca con le lingue e le parole, che crea immagini ad alta definizione pronte a scomparire l’attimo dopo. Bon Voyage ci restituisce, incredibilmente, una Melody che ha maggior bisogno di attenzione e di ascolto, ma che raggiunge picchi più alti, supera la psichedelia dei primi anni dieci e la riporta, la riadatta alle esigenze di questo 2018 dai suoni imperiosi e quadrati, ora smussati ora raschiati. Sogni onirici e apparizioni fantasmatiche per una mezz’ora abbondante in cui Melody’s Echo Chamber torna a riproporci la sua miscela di pop, psichedelia sixties conditi da una prateria di synth, chitarre elettriche, chitarre acustiche e una voce tutta particolare, dove sensualità e innocenza si incontrano, dove senza soluzione di continuità si rincorrono sogno e realtà, in un dialogo fatto di spasmi e sussurri, pause, momenti di profondo ascolto e silenzi. Welcome back psychedelia. ()
Ascolta: Desert Horse, Var Har Du Vart, Quand Les Larmes D’un Ange Font Danser La Neige

7½/10

Mighty Bear — Einn

Mighty Bear è l’alter ego Magnus, pezzo fondante dei We Made God (di cui vi abbiamo già parlato) e Einn è il suo primo lavoro. Mighty Bear è un progetto solista che fonde l’ambient, il post rock e l’elettronica. I testi sono in islandese e il volume di spazio percepito ascoltando questi brani è liminale all’infinito. Grandi eco, voce trainante, ritmi incalzanti, ogni tanto c’è dell’autotune, Einn che significa uno, è il punto d’arrivo di un percorso iniziato una decina di anni fa ad alto tasso di sperimentazione e senza pretese alcune. Dentro questi 4 pezzi, in appena un quarto d’ora, ritroviamo elementi sonori capaci di tenere l’ascolto sempre attento, particolari che aggiunti improvvisamente colorano di nuovo la scena. C’è una forte componente di nero, gli ambienti sonori sono scuri, opprimenti, una new wave palpitante è tenuta a bada dall’elettronica e solo a tratti riesce a liberarsi e dare potenza al pezzo (ne è esempio Burt). Magnus in copertina è vestito di nero, travestito, nascosto, ma tutt’intorno c’è luce, il nero la luce la attira, poi la assorbe, e l’androgino in copertina ci guarda, da dietro un velo, ed è pronto ad accogliere l’ospite e a scagliargli contro tutta la sua forza. Einn è un bel viaggione e conferma il talento e la poliedricità di Mighty Bear, che speriamo presto anche di poter vedere e ascoltare dal vivo. EP caldamente consigliato ai tristoni andanti. ()
Ascolta: Burt, Gleyma

6½/10

Nerobove — Monuments to Our Failure

La Sicilia, terra di incontri e di scontri tra le più grandi civiltà del Mediterraneo, una terra che porta dentro di sé i frutti, a volte ahimè nascosti ed ignorati, di questa ricchissima storia. E voi direte: “Si ok, tutto bello, ma dove vuoi andare a parare?”. E io rispondo: ci sto arrivando, dovevo rompere il ghiaccio, in qualche modo. Insomma, questa giovane band siciliana se ne è uscita con Monuments to Our Failure, che si porta appresso un bagaglio di sonorità ed influenze bello pesante. Al posto dell’architettura araba, delle rovine greche e dei resti della dominazione romana i Nerobove traggono ispirazione da una vasta moltitudine di sottogeneri musicali. Grossomodo si parte da una base thrash/death metal, che trova vita in growl cavernosi e riff cadenzati, momenti da headbanging da manuale e altri melodicamente più distesi, che spezzano ed arricchiscono l’ascolto. Si sente l’estro stilistico del prog, la profondità e la fatalità del doom, ma soprattutto una rabbia ragionata ed ammaestrata, che prende vita non solo nelle note, ma anche nei testi (perciò vi invito a passare dalla loro pagina bandcamp, dove viene spiegato il concept del disco). Per quanto riguarda l’apparato tecnico, basti mettere in luce l’ottima qualità della registrazione e la precisa esecuzione da parte di tutti i membri, elementi che permettono la perfetta fruizione della varietà stilistica dei brani. Monuments to Our Failure è un album completo nella sua sostanza, che porta con efficacia sulle sue spalle quel macigno che è lo status di opera prima. Un album che mi ha già messo la pulce nell’orecchio, devo ammetterlo. E dopo tutto ci riguarda un po’ tutti da vicino, a noi amanti di questa musica. Si monumentum requiris, circumspice: i monumenti ci circondano, ci siamo immersi, ma l’ombra che gettano, a volte, è solo pesante ed avvilente. Come dicono i Marnero, “bisogna andare avanti anche se avanti non c’è nulla”; i Nerobove lo sanno e, perciò, li ringrazio. ()
Ascolta: Of Mud and Bones, Diluvio

7½/10

Pretty Solero — Romanzo Rosa

Dopo il nuovo album di Ketama126 è arrivato finalmente l’esordio solista di un altro amatissimo Lovegang. Col suo Romanzo Rosa quanto fatto sentire di ottimo nei singoli usciti finora trova finalmente la sua espressione definitiva, come definitiva è l’affermazione dello stile di Pretty Solero dentro e fuori la gang. Ghiaccio sul mio cuore / lacrime d’amore / bello come il sole / brucerò passione: basterebbero questi versi dell’intro di Del Rey a inquadrare la peculiare “poeticità” delle sue parole, sempre orientate verso un decadentismo lirico tutto rose rosse ed una mélancolie tipici della cantante newyorkese che dà il titolo al brano (e dalla quale lo stesso Pretty attinge una buona dose di estetica, vedi copertina). La presenza su disco dei compagni di vita della 126 lo rende ancora più solido (devastanti i versi killer di Carl Brave in Vicoli), ma la scelta che paga i dividendi è l’aver affidato la produzione a Generic Animal e Zollo, capaci di creare con le chitarre il mood perfetto per la voce soffice di Pretty. Ogni membro Lovegang ha la propria maniera di raccontare quei giorni morti immersi nel sole della capitale, e Romanzo Rosa ne è l’ennesima dimostrazione: sono infatti pezzi come Tilt o Maglione Blu a far scendere quella lacrimuccia che non puoi ignorare, l’unico modo per sintetizzare quelle sensazioni di presa bene e presa male che la musica del Solero rimescola come farfalle nel tuo stomaco. In una parola: sentimento. ()
Ascolta: Del Rey, Vicoli (feat. Carl Brave)

8/10

SOPHIE — OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES

SOPHIE è il personaggio più interessante della nuova ondata di musica elettronica degli ultimi anni. Arrivata in parallelo a quel progetto geniale che è PC Music, è passata inaspettatamente dal nascondersi dietro a immagini artificiali di scivoli d’acqua (recuperate l’ottima compilation PRODUCT) al mettere la sua faccia al centro della sua musica, con una provocazione transgender più eterea e meno aggressiva di quella di Arca. Ma tornando alla musica, OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES è una specie di upgrade del suo ultimo lavoro, dove l’aggressività spesso veniva solo anticipata e non sprigionata e dove le parti vocali venivano sempre filtrate dall’ironia dei pitch alti. Questo disco inizia con un brano cantato — It’s Okay to Cry — che è volutamente melenso e sovraccarico di pathos, poi però iniziano ad arrivare gli schiaffoni di Ponyboy e Faceshopping (da ascoltare rigorosamente insieme al video) che portano la stessa cattiveria del primo Aphex Twin. Il resto del disco è un’alternanza di questi due registri, con Not Okay come apice di anarchia sonora e Immaterial come parentesi ultra-pop sulla scia del collega Danny L Harle. Se penso a questo genere nel 2018 penso a SOPHIE, convincetemi che mi sbaglio. ()
Ascolta: Faceshopping

9/10

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