Una miscellanea di nuove uscite tra rap & elettronica, underground & mainstream, indie&pop

MEGARECENSIONI Vol.8 — Maggio 2017 Pt.2

La seconda parte del calderone caldo e sudato quando smette di tirare l’aria

La Caduta
La Caduta 2016–18
25 min readMay 30, 2017

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Au Dessus — End of Chapter

È della lontana Lituania che arrivano questi 4 figuri incappucciati, noti a noi come Au Dessus, giunti in questo 2017 al loro primo full lenght dopo un EP risalente al 2015; sia dal look dei musicisti sia dalla bellissima ed altrettanto decadente cover art possiamo intuire che le sfumature sonore del gruppo in questione possiederanno un ammantante oscurità black metal, fortemente contaminata da influssi moderni e melodici: quel che abbiamo imparato a denominare post-black metal, in sostanza. L’accecante bicromia di luce ed oscurità prende carne e sangue nelle loro note, uno scream straziato e blast beat a tappeto contrapposti a melodici riff (come quello centrale di VIII) e parti di cantato pulito (in quest’album non numerose); mistura, questa, che gli anni in cui viviamo hanno saputo cullare e far crescere, più in quantità che in qualità a dir la verità: a mo’ di metafora, il pezzo di carne è stato troppo tempo sulla brace e all’essenza pura e febbricitante del sangue che sgorga si è sostituito il puzzo acre del fumo. Quest’album lascia un po’ di amaro in bocca, difficile da deglutire; la voce del cantante in primis contribuisce a rendere piatta la linearità dei pezzi, che non riescono mai a decollare del tutto, cosa, questa, resa ancora più inevitabile dalla non eccelsa originalità dei riff nel 95% del disco (quelli presenti nell’ultimo brano, al contrario, possono sorprendere e coinvolgere). Solo sul finire, in XII [End of Chapter] sembrano cambiare le carte in tavola, una vera e propria controffensiva: riff ben elaborati e posizionati, batteria più libera e precisa e una voce meglio bilanciata e che riesce a meglio esprimere le sue varie facce. Una sorpresa a doppia faccia, che felicita e innervosisce allo stesso tempo: un barlume di luce in un mare di tenebra piatta ed eccessivamente rimasticata. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: XII

6 — /10

Bassi Maestro — Mia Maestà

Che Bassi Maestro si prodighi per dare corpo a quel che vuol dire ‘essere maestri’, non si discute. Che Bassi Maestro rappresenti la scena hip hop di Milano da quasi vent’anni, non si discute. Che Bassi Maestro sia stato e continui ad essere uno dei rapper e dei beatmaker più attivi e prolifici, meno cazzoni e meno instagramstories (e non c’entra l’età), non si discute. Perchè Bassi si rinnova e sta alle regole del gioco senza alcun problema, ed è Maestro perché insegna e dà lezioni: di rap e di producing, di attitudine e di storytelling. Perché la scena la incarna e la racconta. Perchè è originale e sempre cangiante, sempre attento, perchè ha conservato il rispetto per la disciplina. L’omaggio è Mia Maestà, disco di 19 tracce in cui si mischia vecchio stilo e nuovo swag, perchè Bassi non ricicla merda e ne produce sempre new one, perchè ogni mio beat è un mantra/ogni mio disco un tantra, perché crea connessioni, si contamina con persone (non a caso nel disco ci sono featuring con vecchie conoscenze come Fabri Fibra, Nitro, Gemitaiz e con nuove leve come Lazza, Vegas Jones) e suoni (si passa da beat type-o-trap tipo Fottuto O.G. o $$$ e omaggi 2.0 al bum-bum cha dei novanta di Ancora in giro e Non muovono il collo). Un lavoro totale, il sunto di un lungo viaggio, ancora non finito, di un suono che si autoalimenta con la fotta e l’accortezza del suo fautore, con le punchline e i beat originali. Un disco monumentale, potente, fresco, un capolavoro sospeso, fuori dalla maglie del tempo. Certo, perché te lo dà lui il tempo: Busdeez aka Bassi Maestro, al mic e sul beat. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: Metà rapper metà uomo, Fottuto O.G., Benvenuti a Milano

8½/10

Le Città Invivibili — L’odore del nulla

Una ritmica irrefrenabile, padrone del suono, cocente e spaziosa al punto da concedere l’armonia, questo è L’odore del nulla, de Le Città Invivibili. Questo gruppo di Salerno, ci ricorda istintivamente i Fluxus, per i muri di suono, la potenza dei pezzi ed il cantato spoken. In questo primo lavoro, come dicevo, fa da padrone la batteria, ma lo scarto che fa di questo lavoro una buona prova è l’intersecarsi ottimamente orchestrato dell’intera strumentazione, in una strutturazione che, nonostante la sua complessità non fa che sottolineare la linea fondamentale del lavoro, esaltandone spesso il messaggio sonoro, spesso nichilistico o quantomeno polemico. Altra caratteristica peculiare è l’utilizzo di alcune ritmiche e di alcune sonorità proprie del folklore di regione, che si presta a potenti convergenze. Tutto sommato, questo disco corrisponde ad un equazione precisa, cui seguono, per l’armonia delle scienze dure, i risultati attesi e gli effetti desiderati; lo scarto fondamentale è la potenza del testo e la sottigliezza degli arrangiamenti, da cui però è lecito pretendere soluzioni in grado di spezzare il muro di suono, assuefacendo l’ascoltatore. Per il momento, siamo in una fervente, ribollente e grave buio ancestrale. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Rosea, Il Muro

6½/10

Del Norte — Teenage Mutant Ninja Failures

Se c’è una cosa che il punk non può essere — dopo esser stato di tutto e di più — è essere insipido. Va bene che essere punk è una questione di attitudine, però quando ti annoi ascoltando un gruppo punk vuol dire che o sei davanti a una performance di arte moderna sul conformismo dell’anticonformismo oppure c’è bisogno di cambiare qualcosa. Ignorate completamente le innovazioni di Japandroids e Cloud Nothings, la formula musicale dei Del Norte resta la solita: trita e ritrita musica up-beat, un mezzo muro di suono tra chitarra basso e batteria, testi in inglese proclamati scialbamente con finto ardore ed un master finto lo-fi alla Dinosaur Jr. Oltretutto, non lo ripeterò mai abbastanza, è ora di togliersi il vizio di cantare in inglese se tanto già sai che sarà dura trovare date in Italia: conoscere il tuo pubblico e valorizzare l’incontro si tratta del primo passo per dimostrare professionalità — e nonostante già mettere i testi su Bandcamp sarebbe un upgrade, la vera svolta resta sempre prendere coraggio e metterci la faccia… Comunque le scarse dinamiche delle canzoni più che un giro sulle montagne russe ricordano il white noise del televisore lasciato senza canale… Il grande interrogativo quindi, resta sul cosa fare con questa musica: devo pogarci? Devo annuire a occhi chiusi tenendo le mani in tasca? Devo prendere lo skate o restare in cameretta? Boh… Nel dubbio dormo. (Enrico Del Bianco)

4½/10

*Die Abete — Senza Denti

I ragazzi di Terni tornano con un nuovo disco, dopo l’esordio Tutto o Niente, uscito per V4V nel 2014. Con Senza Denti, i Die Abete perfezionano l’arte del rumore che avevano già portato avanti nella precedente uscita, smussando suoni e voci senza comunque perdere nulla per quanto riguarda la cattiveria, che anzi è forse ancora più sanguigna. Basta pensare a quella che può essere definita come la canzone più sincera e quindi più “dura” di tutto il disco, L’antropologa/Il trend del declino: le chitarre qui si intrecciano per poi dare spazio a un ribaltamento ironico della retorica donna-oggetto, in cui l'uomo è materiale da studiare. Insomma, nei 18 minuti di cui è composto questo nuovo disco dei Die Abete, c’è tutto quello che eravamo già stati abituati ad ascoltare tre anni fa in pezzi come Per un pugno di pugni o Ut: col tempo però, il gruppo è maturato e così anche i loro suoni, ancora più precisi e per questo ancora più taglienti. (Matteo Bordone)
Ascolta: L’antropologa/Il trend del declino, Cheers, Colera!

7/10

Dødsengel — Interequinox

Gli angeli della morte norvegesi sono tornati, il richiamo della desolazione e della malvagità ha impiegato ben 5 anni per invocare il loro ritorno, ma finalmente il momento è giunto. Interequinox, distribuito dalla Dabemur Morti, incarna l’oscurità musicale delle foreste norvegesi che 30 anni orsono diede il via all’oscuro percorso del black metal, reincarnandola però in una chiave più moderna: tradotto a livello pratico ciò si esprime in una produzione più pulita, una voce dedita a tenori spesso differenti al solito scream graffiante. A parte queste due variabili, i paradigmi del genere rimangono inalterati; blast beat inarrestabili, riff di chitarra semplici ma ipnotici e tanta malvagità dominano il disco, il quale però sa abbandonarsi a momenti più “alternative”. Pezzi come Rubedo, con un cantato eterodosso (sulla linea dei Dødheimsgard), melodie più armoniose ed una voce femminile ad accompagnare rendono l’ascolto del disco più completo e meno stucchevole. Caratteristica prima di questo album è la sua capacità di far coabitare sonorità differenti, dallo scream al growl, da riff black metal alla vecchia maniera (come quelli di Opaque) a giri di chitarra malinconici e carichi di patos (nelle seconda metà di Illusions ve ne è un ottimo esempio, così come quello che apre Palindrome). I Dødsengel escono a testa alta dall’ennesima sfida che il tempo gli propina, riuscendo a produrre un album che non cadrà nel dimenticatoio e che fa della sua piccole escrescenze sperimentali il suo punto di forza. (Francesco Eleuteri)
Ascolta: Illusions

7/10

Endlich — Endlich

Endlich è una sessione di improvvisazione, in cui il trio salernitano capitanato da Antonio Aversa, cerca di rendere visibile l’etereo concetto della produzione artistica. Il lavoro, tendenzialmente acustico, inframezzato da pezzi di concetto (come Parmenide), cerca di veicolare, ad ogni traccia, l’idea di una traccia coerente, circolare, che pur rimanendo in connessione con la successiva, ricerca una posa armonica, una propria ragion d’essere, diremo noi. Dal punto di vista strettamente sonoro, alcune soluzioni della musica leggera vengono arricchite da una miscela di etnico ed elettronico, che impreziosisce non poco il lavoro finale. In questa variazione sul tema del prodotto artistico, rimane, però, una misura ermetica, personalissima, che non ci permette, probabilmente, di affrontare fino in fondo l’intenzione del pezzo (come se fosse mai possibile direte voi); la questione, però, è ora: che cosa ci sta a fare quel mezzo guscio di noce in copertina? Siamo noi il guscio rotto, la parte aperta; o siamo noi il guscio chiuso, i significati che il pezzo acquisisce nel tempo? Ai posteri l’ardua sentenza. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Le carpe

7 — /10

Gemello — Indiana

Gemello fa rap da più di quindic’anni e dipinge quadri immaginifici e pieni di colore. Ha fatto parte della storica crew romana degli In The Panchine (‘o conosci er Chicoria?) confluita nel TruceKlan, dopo l’incontro coi Truceboys di Noyz Narcos e Metal Carter. Per un po’ di tempo si è occupato più di pittura che di rap, ma poi, tre anni fa, ha fatto uscire un EP di sei pezzi, Niagara. E dopo altri tre, Gemello trova una chiusa, una ideale prosecuzione, visiva e sonora: Indiana, secondo EP, si porta con sé altre considerazioni, nuove consapevolezze, concretizzate nei sei pezzi che scorrono e si sviluppano rapidi come polaroid. Diciotto minuti in cui Gemello sciorina un fiume di parole immaginifiche incastrate con sospiri e sbuffi sopra basi liquide che sono sali-e-scendi di beat e sintetizzatori. Valorizzati i featuring, con Coez in Stanza 106 (che ricambia il feat di Taciturnal) e Victor Kwality nel ritornello di Nostalgia III, oltre alla produzione di Dj Sine, soffice e al contempo epica, costruita perfettamente su misura per il flow e i testi der truceboy. A confezionare il tutto, la copertina disegnata dall’artista romano, che con Indiana trova il giusto equilibrio in cui far convivere in un tutt’uno pittura e musica, senza frenare l’immaginazione, riempiendo la tavolozza di colori, suggerendo trame, creando ambienti. Nello spazio di un secondo ci troviamo arricreati, come un Montalbano rinfrescato nel corpo e nella mente, al ritorno dalla quotidiana nuotata delle sei del mattino. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: Sirena, La parte migliore, Nostalgia III

7/10

Ghali — Album

L’Album postumo di Ghali come rapper. Sul prossimo ci sarà Tommaso Paradiso.
(Tommaso Tecchi)

Ascolta: Boulevard

7/10

Lazza — Zzala

Un altro promettente rapper è arrivato al debutto in questa prima parte del 2017. Stiamo parlando di Jacopo Lazzarini aka Lazza, rapper milanese classe ’93, conosciuto ai più per la sua indomabile tecnica. Grazie ad un flow preciso e tagliente, è riuscito a farsi spazio nel marasma della scena rap italiana. Per quanto talentuoso però, Lazza soffre del classico difetto che affligge molti altri suoi simili: quello di omologarsi troppo facilmente ad un certo tipo di tendenza ora predominante sul mercato, quella della trap. E sulla carta, non è questo il grosso peccato, quello di seguire un’evoluzione sonora, ma piuttosto il fatto di non farla propria, di non piegare il trend alle proprie volontà, di non provare a differenziasi dai big sulla piazza. In Zzala, la produzione curata dalla 333 Mob — cellula composta da producer come Dj Slait, Low Kidd, Zuno, Moab — gioca in questo caso un ruolo decisivo, con risultati troppo spesso negativi. Non si vuole sparare a zero, perché tracce come Origami, Silenzio, MOB hanno un buon tiro, ma in generale ci troviamo in territori già parecchio conosciuti. Anche nell’ultima citata, unica traccia con il (doppio) featuring di Nitro e Salmo e quella dal potenziale maggiore, c’è un errore d’impostazione: per il suo ritmo trainante, sembra un pezzo uscito da Hellisvback. Più che l’host, Lazza sembra l’ospite. Anche sul lato lirico, troviamo poche originalità: Zzala è un disco personale e autoreferenziale, dove il protagonista si apre molto al pubblico, specie nell’introduttiva Overture (come fatto dal compare Ghali nel suo video intro). Ma per il resto, tutto l’album è contraddistinto da un cortocircuito tra pussy, money e Mary Jane. Senza se e senza ma, Lazza si omologa allo stereotipo del macho da quartiere degli anni 2000. E come tutti, prende parte alla grassa recita del rap italiano. Con Zzala il giovane rapper milanese esce fuori dalla bolla della mediocrità per entrare a pieno titolo sul ring dei grandi. Peccato che si presenti, al debutto, con un disco più debole del previsto. La strada è ancora lunga e speriamo che Lazza possa sorprenderci nel prossimo futuro. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: Origami

6+/10

Levante — Nel caos di stanze stupefacenti

Un album che, sinceramente, di stupefacente ha ben poco, o quasi nulla. Forse, in realtà, qualcosa che mi fa sentire stupefatto c’è: sto ascoltando Nel caos di stanze stupefacenti e rimango stupefatto dall’immortalità della banalità. Ciò che è banale, che è scontato, si perpetua nel tempo senza tregua verso di noi, e anzi, riesce addirittura a dare una sorta di sollievo e piacere in alcune persone. Mi sono chiesto tante volte ultimamente quale sia l’urgenza di questi personaggi del mondo della musica, da dove nasca il loro desiderio di continuare a fare brani come Il peggior Venditti (che poi, mi hanno detto, essere migliore del miglior Manuel Agnelli). Ecco, una recensione track by track, che sia un’analisi di questo disco non credo neanche valga la pena farla, perché sul web c’è gente che scrive meglio di me e ne capisce più di me, che a recensire a scaletta mi fa sentire come il miglior Manuel Agnelli davanti all’incommensurabile grandezza del peggior Antonello Venditti. Qui basta capire quali siano le proprie esigenze e virtù, perseguirle e realizzare se Levante, se non per la bellissima visuale che compare sulla copertina, valga un ascolto. Io nel dubbio, mi continuo ad ascoltare fino a che non mi sanguinano le orecchie quella “pippa” di Manuel Agnelli, chi vuole vivere “sotto il segno dei pesci” ben venga e si goda questa banalità. (Edoardo Piron)
Ascolta: Il peggior Venditti

3/10

Linkin Park — One More Light

Non c’è una spiegazione intellettualmente razionale per comprendere come cazzo sia possibile che i Linkin Park siano passati da essere dei ragazzi prodigio nei primi 2000 — fautori di un breve e sfortunato sottogenere come il nu-metal — a degli almost-fourty-years-old completamente rincoglioniti. E non giudico tanto per farlo, prendiamo un paio di esempi: guardate le espressioni di Mike Shinoda alle reazione di alcuni adolescenti all’ascolto di quella schifezza di Heavy, guardate come commenta Chester Bennington tutti coloro che li criticano (giustamente) per essersi “venduti” con questo nuovo One More Light. È completamente incomprensibile come riescano a difendere con tanta nonchalance, senza alcuna vergogna, un prodotto così pop, così commerciale e così fatto male che nemmeno Ed Sheeran con la pistola del CEO dell’Atlantic Records puntata alla tempia riuscirebbe mai. Mike Shinoda ha parlato — in uno di quei cazzo di vlog che fanno su Instragram per far vedere al pubblico come lavorano in studio, quando è chiaro dai risultati che non ci fanno proprio un cazzo lì dentro — di come volessero sperimentare la formula del pop più becero, di potersi misurare con questo banale filone per contendersi il posto con Katy Perry e Halsey. Ma 1) non è assolutamente vero, è chiaramente una mossa commerciale — perché ospitare l’innocente 22enne Kiiara nel primo singolo non serve a far altro che continuare la legacy del brand LP sui giovanissimi 😏 — e 2) anche se fosse vero non ci sono nemmeno riusciti, ma che peccato 😭. Non c’è nulla, davvero nulla di ascoltabile in questa cazzo di schifezza, catalogabile come il peggior disco pop di questo nuovo millennio: Shinoda è lì che sorride cronicamente mentre suona sempre le stesse tre note alla pianola; Bennington che cerca di cantare con le tonalità e le movenze di una donna; Bourdon, Delson, Phoenix e Hahn non pervenuti. Gli unici a salvarsi sono quei due martiri di Pusha-T e Stormzy, che riescono a non sporcarsi anche sopra un trono fatto di merda. I Linkin Park sono riusciti nell’impossibile: sono diventati, senza volerlo, la parodia di loro stessi. O forse questo è solo un simulacro di una versione seria e impegnata di loro stessi, che in un universo parallelo continua a produrre musica nel vero senso della parola. Ma non è ovviamente così, quindi possono andare beatamente a farsi fottere. 🤗 (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: ma cosa vuoi ascoltare, ma facciamo i seri pls

1/10

Lil Yachty — Teenage Emotions

Lil Yachty è un personaggio: basta vederlo mentre ride, oppure guardare la sua acconciatura, oppure vederlo nella pubblicità della Sprite insieme a Lebron James, oppure… vabbé ci siamo capiti. Dopo il successo di Broccoli e del mixtape Lil Boat si è guadagnato un pezzo con Young Thug nell’ultimo di Chance the rapper, la copertina dell’XXL Freshmen Issue 2016 e l’orgoglio di aver infiammato i puristi hip-hop di tutto il mondo, constantly hating l’ennesimo Lil Whatever, per dirla alla J.Cole. Con la sua aria bambinesca e affabile, il suo essere drug-free ed i suoi testi semplici e divertenti, Lil Yachty — meritatamente o meno — si è preso il suo posto e dopo un paio di mixtape ha presentato al mondo il primo full-lenght Teenage Emotions, che come il titolo lascia ben intuire è vario e contrastante. In un’ora si passa dai bangerz Forever Young (con Diplo) e All Around Me, alla fotta di DN Freestyle e Dirty Mouth, arrivando ai momenti à la Drake di Lady in Yellow e alle strizzatine d’occhio anche troppo radiofoniche di Better e Bring it back — ma c’è troppa carne al fuoco ed è facile perdere il filo del discorso in un disco così variopinto da sembrare l’ennesimo mixtape. La verità è che forse avremmo preferito un qualcosa sulla falsariga di Savage Mode — pochi producer, poche canzoni, less-is-more — mentre qua il disco è troppo lungo, le canzoni non si muovono dal porto sicuro e la sensazione rimane quella di un qualcosa di fatto uscire perché era il momento giusto per capitalizzare sul personaggio. «18 years old, I made my first million/now I’m tryna make 100/bitch, I’m 19»: forse però di fare un bel disco Yachty se ne frega altamente, e non c’è nemmeno tanto da discutere o analizzare… Per lui, e per un sacco di rapper, le priorità saranno sempre le stesse: comprare una casa alla madre e diventare ricco coi suoi fratelli. E siamo davvero nella posizione di chi non ha avuto niente e prova a prendersi tutto? (Enrico Del Bianco)
Ascolta: All Around Me

5/10

*L’ora X — Sottovoce

I due fratelli Mangano accantonano gli Yattafunk per dedicarsi al loro nuovo progetto, L’ora X. Il power duo abbandona in toto le sonorità funk, Sottovoce (titolo del loro debut album) ha un sound a cavallo tra il post metal e il crossover chiaramente influenzato da band come Korn e Linea 77. Interessante l’idea del concept che tratta dell’amore in tutte le sue sfumature. Scelta che può far titubare in un primo momento apparendo scontata. In realtà, tenendo conto che si sta parlando pur sempre di una band metal, decidendo di trattare questo argomento i due fratelli hanno compiuto una scelta coraggiosa. D’altronde non si può dire che i ragazzi siano riusciti totalmente nell’impresa. Rifacendosi a sonorità tipicamente anni ‘90 il duo rende il disco piacevole ma allo stesso tempo ripetitivo. Il riffing e le strutture dei brani risultano standardizzate e a tratti persino ridondanti. Ma non è assolutamente tutto da buttare, canzoni come Che sarà di noi e Non è Francesca (cover del celebre brano di Lucio Battisti) bastano a dimostrare che il talento c’è, ma manca qualcosa affinché si possa esprimere al 100%. I testi sono la vera nota dolente, troppo adolescenziali. In Io ci sarò e Sottovoce, le lyrics toccano davvero il fondo nauseando a causa dell’eccessiva smielataggine e della banalità latente. Se L’ora X non avesse deciso di complicarsi il lavoro scegliendo di parlare di amore in generale in un album nu metal, magari il risultato sarebbe stato molto ma molto migliore. In ogni caso va apprezzato l’estremo coraggio dei due fratelli. Tenendo in considerazione la novità del progetto ci si augura che il duo italiano riesca a maturare nel migliore dei modi dopo un debutto tentennante. (Matteo Sputore)
Ascolta: Che sarà di noi, Non è Francesca

5/10

Nick Murphy — Missing Link

C’era una volta Chet Faker, c’è oggi Nick Murphy. Quanta fretta in questi tre anni, quante svolte inaspettate, quanti cambiamenti. Chet Faker non c’è più: l’elettronica sospesa, giocata sui silenzi, dipinta di soul e r’n’b, e quella voce calda, quell’acido live all’Hiroshima di Torino, al giovedì sera, due Club to Club fa; evaporati. Una vita precedente, con altri suoni e altri volti, mutati, scomparsi, svuotati, di nuovo riempiti. In quella primavera dell’anima, Built On Glass calzò a pennello, dando nuove energie, nuove ragioni, a quel cuore mutilato, ma non ancora arreso, non ancora disilluso. Eccoci dunque a varcare la linea d’ombra, abbandonare i soprannomi, ridurci all’essenzialità, chiudere la porta, aprire il didascalico portone. Tra questi due gesti, Nick Murphy costruisce Missing Link, il ponte che collega “what’s out and what’s coming”: cinque tracce, cinque fotografie. La trasformazione è sonica, sintetica: la voce filtrata, ma riconoscibile, è lo strumento che porta a tensione canzoni come Your Time (col producer KAYTRANADA) e I’m Ready — tra falsetto e baritono. Se la voce non tradisce, nonostante la spinta verso altri lidi, è la musica che trova nuove vie — un’elettronica molto più ritmata, più distorta e lineare, ma con meno soul, meno freschezza, meno leggerezza. Al susseguirsi degli ascolti, monta una sensazione di pesantezza, e di riconoscibilità — Forget About Me è una canzone a metà tra Radiohead e Sampha. Solo nel finale godereccio di Weak Education, dove Nick torna a fare quel che sa bene, farci muovere il collo e poi il bacino, con un po’ di quel groove, costruendo un lento crescendo qualcosa si muove sottopelle: finalmente parte una cassa, un ritmo, quel ritornello ripetuto ad libitum. Proprio a quel punto, proprio quando mi lascio andare, Missing Link finisce, e non ci rimane quasi niente. Peccato. (Pietro Giorgetti)
Ascolta: Weak Education

5/10

Nine Eight Central — In The Woods

In The Woods è il primo lavoro dei Nine Eight Central, band alternative di Verbania. Le sonorità spingono molto sull’indie, ma ne escono influssi dagli U2, da Adele, da vulgate brit&post-rock. Qualcosina di accattivante, molta roba d’altri ed una certa coesione d’insieme nel suono, che rendono il prodotto sensibilmente duttile all’ascolto. La decisa voce femminile sembra, però, piuttosto costretta su tonalità abbastanza canoniche, mentre dà l’impressione di poter ampliare il raggio d’azione. Proprio perciò, anche se, sulla scorta di Adele, dei Temper Trap, dei The Gossip, il disco conosce una certa chiarezza, una certa organicità; si fatica comunque a rimanere presi, a consumare un ascolto interessato che non sia di mero assenso, che non sia, vogliamo dire, passivo. La delicatezza delle chitarre cammina, ad esempio, sul baratro dell’inespressivo o quantomeno, del tappeto musicale, se non fosse sospinta da una ritmica comunque attenta e calibrata. È chiaramente un disco d’esordio, di cui premiamo alcuni spunti, come la scelta finale di un switch alla voce, che imprime un altro verso al lavoro. Ci aspettiamo a questo punto, una secca virata verso un sound più vigoroso, come l’ultima Melt down appunto, oppure la matura e dichiarata franchezza del pop. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Against, Melt down.

5/10

Olla — A Day Of Thousand Years

Gli Olla sono un quintetto dedito ad un pop meravigliosamente melodico intarsiato su dei muri di suono in grado di scioglierti il cuore. I pezzi dell’album in questione si chiudono in un minutaggio contenuto e sciorinano alcune delle melodie più belle sentite nel corso dell’anno con una notevole esperienza compositiva; si può affogare nella coda strumentale di Wonderland come sentirsi cullati dall’accoppiata xilofono e piano elettrico presenti in Gimme a day. Poche le oscurità presenti nel disco: un quasi percepibile sentore di già sentito aleggia (è sintomo di una varietà non esagerata) e la voce non sembra essere sempre perfetta nel suo cantare queste linee vocali, complice un timbro che potrebbe migliorare un po’ nell’ impostazione. Gli Olla mi ricordano un po’ gli Anathema del secondo, meraviglioso, periodo nella pace inquieta che provocano, in quella sensazione di poter apprezzare i colori dell’autunno anche se il cielo ti ricorda un sacco la primavera. Bellissima anche la copertina, giusto per chiudere il cerchio. Da tenere assolutamente d’occhio. (Graziano Salini)
Ascolta: Live Visuals And Love

7+/10

Pallbearer — Heartless

Parlando di doom metal balenano naturalmente nella mente band dal valore storico sconfinato come: Pentagram, Candlemass, Cathedral e, per giungere a tempi più recenti, ancora My Dying Bride, Paradise Lost, Katatonia e chi più ne ha più ne metta. Analizzando la storia del doom, che veste i panni di uno dei più prolifici sottogeneri dell’heavy metal, oltre alle caratteristiche stilistiche, balza all’occhio una certa duttilità. Non sono rari i casi di band che mescolando e distillando il doom con personalissime influenze sono riusciti a creare un universo proprio nel quale l’etichetta del genere ha una funzione meramente categoriale. Diramandosi quindi in una quantità infinita di varianti questo sotto genere è stracolmo al suo interno di piccole svolte. Inutile dilungarsi ancora su questo argomento che sarebbe bene approfondire in altra sede. Sembra che qualche mese fa un’altra pietra miliare sia stata posata sulle tortuose e intrecciate vie del doom metal. Quasi inaspettatamente quattro ragazzi originari dell’Arkansas sono riusciti a reinterpretare la matrice originale del genere proiettando il tutto in un presente rigenerato. Per chi non ancora l’avesse capito stiamo parlando dei Pallbearer e del loro fantastico album Heartless. La maturità raggiunta dalla band è pari a quella dei lavori precedenti, la leva su cui è stata sollevata la loro ultima fatica infatti è la personalità. Brett Campbell, Devin Holt, Joseph D. Rowland e Mark Lierly sono riusciti a svecchiare un genere che fino al loro arrivo sembrava essere destinato alla fusione e alla creazione di ibridi. Mentre i quattro artisti statunitensi, rifacendosi a sonorità del passato profondamente ispirate al prog rock degli anni settanta, hanno creato qualcosa di nuovo, personale e (in piccola parte) rivoluzionario. Che si stia ancora parlando di doom metal? Domanda a cui è difficile rispondere con certezza visto che Heartless, pur avendo influenze marcate, non è minimamente etichettabile. L’empatia di tutta la soundtrack è sconvolgente e non si può spiegare, la si può solo avvertire ascoltando questo capolavoro. Tracce come Lie of Survival e A Plea for Understanding vengono incoronate ad icone del disco, le chitarre che alternano arpeggi romantici e dannati a riff dal peso roccioso ci trasportano in quel sentiero brullo, tragico e tormentato che può essere percorso solo tramite una profonda introspezione. Perchè infondo Heartless è proprio questo, un miscuglio di emozioni e riflessioni che si può cogliere soltanto se ci si guarda allo specchio e, tramite esso, al proprio interno. La voce di Brett Campbell sembra quasi parlarci per mostrarci qualcosa che si può vivere quotidianamente ma che continua a sfuggirci. Anche se il sound è stato sapientemente alleggerito la potenza non manca e grazie a ciò le composizioni intrecciate e progressive riescono ad essere meglio apprezzate. Le atmosfere che spaziano dall’epico all’etereo sono coinvolgenti e sincere, nulla di già sentito, tanto meno nel doom. Tutto è curato nei minimi dettagli compreso l’artwork. Al momento non sembra che i Pallbearer siano illuminati dalle luci della ribalta, magari tra qualche anno (come spesso capita) i tempi saranno maturi per poter cogliere il frutto del loro estro. Per ora l’unica cosa da fare è comprare e ascoltare Heartless fino a consumarlo augurando a questa strepitosa band che il loro terzo studio album possa diventare presto un oggetto di culto. (Matteo Sputore)
Ascolta: A Plea for Understanding

9/10

Rejjie Snow — The Moon & You Mixtape

Rejjie Snow è una giovanissima promessa del rap. Irlandese di nascita, ha però uno stile prettamente americano, sia per quanto riguarda i testi che le basi, che spaziano dalla old-school (soprattutto nel suo primo EP, Rejovich) alla trap dei suoi ultimi singoli (uno fra tutti, Flexin’). Questo mixtape, ci tiene a dirlo, non è il suo primo vero disco ma solo una serie di canzoni che sentiva la necessità di pubblicare. Come si può intuire dal titolo, il concept del mixtape è ispirato dal suo rapporto particolare con la luna e il fascino che quest’ultima proietta su di lui. La linea tracciata dai brani, che hanno comunque una forte coerenza nonostante sia un mixtape, è pallida e malinconica, proprio come la luna. The Moon & You vanta anche feat di un certo peso: è il caso di Joey Bada$$, che partecipa con una strofa in Purple Tuesday, uno singolo del mixtape. In generale, quest’uscita ci dà qualcosa da ascoltare da parte del rapper irlandese, nella speranza che il suo primo vero disco possa essere consumato il prima possibile. (Matteo Bordone)
Ascolta: Unborn, Purple Tuesday

7/10

Settler — Gabe EP

I Settler sono una piccola band emo-punk del Massachussets, quattro amici in attività da quasi dieci anni. Il nuovo Gabe, ennesimo EP autoprodotto, è un piacevole sorpresa per tutti gli appassionati (e amarcord) dell’emotional rock. Quattro semplici e brevi tracce di una purezza spirituale e compositiva davvero notevole. Le influenze sono le solite, i capisaldi del genere: American Football, Sunny Day Real Estate, Owls per citarne alcuni. In questi inediti dieci minuti, i Settler riescono finalmente a maturare il proprio suono, proponendo poco materiale ma buono, segno che sono riusciti a distaccarsi dall'acerbità dei tempi passati. Nella fase decadente della tanto amata revival-emo, la produzione di questi gioiellini dimostrano come questo genere sia ancora capace di intrattenere anche se non guarda molto oltre il proprio recinto. Ed è sempre un piacere se queste novità arrivano da una cittadina sperduta nel cuore del Nord America. (Lorenzo Mondaini)
Ascolta: Front Porch

7 — /10

Snoop Dogg — Neva Left

Dal suo esordio nel 1993 Snoop Dogg ha pubblicato in media un album ogni due anni, e ne ha tirati fuori tre nel triennio 2015–2017. Arrivato all’età di 45 anni tra cinema, reality show, football americano e tanta tanta erba, il buon Snoop ha l’aria di un artista realizzato con ormai ben poco da aggiungere alla sua lunga carriera. Specialmente dopo essersi affacciato su qualunque genere musicale, dal raggae dello strano periodo Snoop Lion alle collaborazioni EDM, passando per il funk del recente BUSH prodotto da Pharrell. Così il rapper californiano, per il suo ultimo album, ha optato per l’unica strada non ancora percorsa: un enorme throwback agli anni d’oro della west coast e del gangsta rap. Già dal titolo, Neva Left, e dalla copertina, una fotografia datata 1992, le intenzioni sono chiare; a fare il resto ci pensano i beat anni ’90, i vocoder (da recuperare al più presto), i testi nostalgici e un flow più fresco rispetto alle ultime uscite. Snoop è ormai davvero più vicino al milionario fattone che vediamo su Instagram, che al gangster di strada che dipinge sul disco; ma Neva Left resta comunque un buon lavoro, ci riporta in’un epoca che ci ha regalato perle come Doggystyle, The Chronic, The Predator, Me Against the World, e che ha visto nel ragazzo di Long Beach nella fotografia qui sopra uno dei suoi massimi esponenti. (Tommaso Tecchi)
Ascolta: I’m Still Here

7 ½/10

Solki — Peacock Eyes

Peacock Eyes è il secondo lavoro dei pratesi Solki, interessante trio pratese che ci aveva già stupito col precedente Sleeper Grele, disponibile anche in cassetta, cosa che a noi piace (vezzi). Di fatto Peacock Eyes non tradisce le aspettative, è un continuum nell’ottica di una sperimentazione tenera, di un confronto serrato col noise, con l’art rock e con un po’ di garage britannico. La voce della cantante, di una certa purezza, è, questa volta, più diretta, meno inscritta in un disegno lo-fi, com’era stato per il precedente lavoro. Non vogliamo fare nomi, per quanto riguarda le influenze, giacchè siamo sicuri ne troveremo molte, ma ben poche azzeccate. L’enigmaticità della copertina fa il paio con l’elementare espressività di tutto il lavoro, che gode di una certa solidità, nonostante i continui cambi di genere, sulla scorta di alcune coordinate fondamentali e di testi di una certa evocatività. La durezza della chitarra, la schematicità della ritmica e l’intima risonanza del cantato, che si intrecciano in fraseggi graziosi. A nostro parere, alcuni piccoli abbellimenti sfuggono un po’ dal tenore generale del lavoro, che sembra ripiegare qualche volta sul blues, per non rischiare troppo sul noise, non che la cosa ci dispiaccia, ma quantomeno disorienta. Un disco complessivamente riuscito, apprezzabile ma in vista di qualcos’altro; uno di quei lavori nati di passaggio? Forse, ma godiamoci la fase. (Pier Francesco Corvino)
Ascolta: Puddle, Lizas for All.

6½/10

Sólstafir — Berdreyminn

Dopo l’allontanamento di Gumondur Óli Pálmason, storico batterista e cofondatore della band, i cowboy islandesi si gettano a capofitto in nuove sperimentazioni dal retrogusto darkwave. La separazione di uno dei membri che ha dato vita ai Sólstafir sarebbe avvenuta a causa di divergenze artistiche, questa dichiarazione fece intuire a molti fan della band che il vento stava cambiando direzione. Bisogna ammettere che ascoltando il singolo Ísafold il timore che la band avesse deciso di intraprendere il sentiero del main stream si era fatto sentire, niente panico non è assolutamente così. Anche se la maggior parte dei brani segue una struttura che viene ripetuta in più frangenti, rendendo il disco più fruibile rispetto ai suoi predecessori, non si arriva mai a pensare di stare ascoltando qualcosa di radiofonico. Pur mantenendo il sound caratteristico i quattro musicisti esplorano nuovi lidi. Berdreyminn farà certamente discutere chi segue la band da tempo ed è rimasto affezionato alle sonorità sempre e comunque tendenti al metal quasi totalmente scomparse. Il piano e l’hammond guadagnano una certa supremazia donando al sesto album in studio della band un’atmosfera distesa, sognante e nostalgica. La voce dal timbro ruvido di Aðalbjörn Tryggvason abbinata alle composizioni che saltellano qua e la tra prog, ambient, darkwave e post rock riesce a farci perdere in pianure brulle coperti da un’aurora boreale di colori ed emozioni. Tutta la produzione dei Sólstafir è strettamente legata alla loro patria, ma durante l’ascolto di Berdreyminn ci si perde letteralmente in una terra aliena, tiepida e sconfinata. Se in Ótta l’intenzione dei musicisti era di guidarci attraverso le meraviglie naturali esclusive dell’islanda nell’arco di una giornata (non a caso il titolo del precedente album prende il nome da un antico sistema di calcolo del tempo delle popolazioni indigene), con questo disco non si sono limitati a farci esplorare le meraviglie dell’isola nordica fatte di suoni, odori, colori e vibrazioni ma ci indicano la strada per una terra onirica, magica e fatata. E se si svuota la mente e ci si abbandona all’ascolto di brani come Hulla, Nárós e Bláfjall il viaggio non può che avere inizio. Se la svolta segnata da Ótta è riuscita a rapirvi senza farvi rimpiangere la durezza dei primi lavori dei Sólstafir sarete altrettanto soddisfatti di Berdreyminn. Quindi riempite le valige e preparatevi all’ ascolto, buon viaggio! (Matteo Sputore)
Ascolta: Hula

8½/10

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