Memorie dalla Città dell’Eroina: T2 Trainspotting

Una recensione + riflessione sul sequel del film di culto che ha segnato gli anni ‘90

Luca Badaloni
La Caduta 2016–18

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Ormai sembrerebbe che il cinema occidentale di massa abbia raggiunto un livello di autoreferenzialità tale da rasentare il ridicolo, tra film di supereroi e seguiti dei seguiti — e anche se ovviamente siamo lungi dal vedere una tendenza del genere affermata nella totalità del cinema contemporaneo, T2: Trainspotting non può che rivelarsene una dimostrazione sfacciata. Ma anche se replicare il risultato raggiunto nel primo episodio si poneva già da subito come una mission impossible, Danny Boyle in questo sequel del cult del ’96 riesce ancora a sfoggiare le sue ottime doti di regista — e forse la critica maggiore che può essere mossa a questo film è riguardo alla sceneggiatura (nonostante l’ovvia inutilità di ragionare sull’adattamento più o meno attinente alla trama del romanzo d’origine, Porno). Il film alterna scene simpatiche e coinvolgenti, che richiamano in minima parte il percorso criminale e folleggiante del primo film, a scene imbarazzanti votate ad un attualismo troppo costruito. Ogni grande fan del predecessore rimarrà quindi abbastanza freddo alla fine della visione di T2, anche se non si tratta certo di un film brutto o insufficiente — e questo per la presenza di ottimi compensativi all'eccesso di nostalgia: la regia, la recitazione del folle Francis/Robert Carlyle, di un Sick Boy/Jonny Lee Miller credibile nel suo invecchiamento e di un ottimo Spud/Ewen Bremner che mantiene l’alienazione tossica con stile. Romanzo o meno, il personaggio di Ewan McGregor risulta artefatto e non comunica più nulla della malattia tossica di Trainspotting. Se si vuole guardare un film che ci ricordi che sono passati 20 anni dal 1996 — questo è il film giusto per voi.

Entrambi sembrano domandarsi: “Che facciamo ancora qua, Mark?”

Ciò che spaventa di una certa nuova ondata del cinema contemporaneo è la continua ricaduta nel revival sempre e comunque, una strategia di vendita che sembra fatta apposta per un pubblico concepito per ondate. Forse i giovani odierni non pagano abbastanza per l'industria cinematografica e non rientrano nella dimensione di pubblico considerata — e per questo i film andranno settati su un pubblico di 35–40enni, ovvero gente incapace di rapportarsi a stilemi di divertimento tecnologicamente alienanti (basta vedere Begbie in discoteca) e incapaci di rapportarsi ad una gioventù che si “diverte” in maniera differente. T2 è un film che si nutre di memoria proprio perché è un continuo commemorare. Se nel primo episodio ci si trova di fronte a dei giovani tossici e al loro rapporto malato con una sostanza, in un vero e proprio racconto rapsodico — nel secondo episodio invece si perde di vista il centro nevralgico dell’eroina e si punta tutto sui temi del tradimento e della vendetta, cercando inoltre di dare maggior spazio al genere femminile (quasi totalmente assente in Trainspotting), ma finendo per falsare la sensazione originaria. A questo va aggiunto il fatto che in questa seconda pellicola si ha continuamente la sensazione che il genere femminile rimanga accessorio ed inserito in maniera forzosa in un ruolo, senza dare un minimo di poliedricità psicologica al personaggio (vedi il personaggio di Anjela Nedyalkova). Danny Boyle ha costruito un museo visivo di buona fattura dove gli stessi protagonisti diventano memorie della città e dei luoghi, una serie infinita di reminiscenze che cancellano totalmente ogni senso di accanita vendetta: lo stesso Begbie non trasmette davvero questa sensazione, ma lascia spazio ad un’anzianità sentita di chi non vuole perdere qualcosa. In questo caso si percepisce un ribaltamento: è la città che ricorda i personaggi che si muovono in essa. Alcune scelte fotografiche aiutano proprio a capire questo cambio e danno la sensazione che i personaggi non costituiscano il vero centro della rimembranza continua. L’artificio dello Spud-narratore consente un giusto apporto comico che sfocia nella sentita-ma-banale rappresentazione dei suoi aneddoti.

Begbie mantiene un suo stile e diventa il vero protagonista dei quattro. Unico rimasuglio intatto del film precedente.

In T2 non si ha un vero e proprio centro: e ciò non è stato fatto per una sorta di ricercatezza registica — sembra invece per una pura casualità. Dal seguito di Trainspotting ci si aspetta di vedere il marcio e il malato della società nei suoi aspetti grotteschi e tragicomici, non ci si aspetta una memoria di queste sensazioni. A tratti si sorride e a tratti ci si commuove, ma prevale sempre quel velo inalienabile di malinconia che fa perdere qualunque coordinata che possiamo azzardare a definire classica del genere. Edimburgo sembra stretta dal laccio emostatico di una sceneggiatura elementare, forzosamente pompata da un’eroina nostalgica e vittima di un orgasmo mediatico di matrice tossica che porta dritto dritto a un memoriale. Cosa ci si poteva aspettare? Sicuramente questa consapevolezza deve essere ben presente nell'osservatore — e possibilmente ci sarebbero stati due modi per reagirvi: la nostalgia o un’altra scarica di adrenalina, la stessa adrenalina che si potrebbe ottenere da una fuga forsennata, fuga dal mondo e fuga da sé stessi. Si è scelta invece la prima strada. E proprio per questa scelta al pubblico manca il topos di riferimento: il pubblico conosceva le coordinate di Trainspotting e non si aspettava un cambio netto che puntasse tutto sulla reminiscenza. Dall’eroina al suo malinconico ricordo cambiano nettamente le prospettive dello spettatore. La malinconia — che si pone anche come rifiuto delle passate scelte folli — è per questo un passaggio esagerato? No, però il discorso perde il filo anche nella sua dimensione memoriale poiché l’autoreferenzialità dovrebbe richiamare su di sé tutta l’attenzione sia registica, sia di sceneggiato, musica e fotografia — peccato che in T2 si sia cercato di unire malinconia e adrenalina (esempi siano la scena del pub anticattolico e l’inseguimento tra Mark e Begbie) senza considerare l’effetto che il passare del tempo avrebbe avuto su una nuova scarica adrenalinica.

Edimburgo ricorda i suoi tossici: li ha mitologicamente incisi su pellicola. In “T2” invece, solo i loro fantasmi.

Dopo 20 anni sembra che qualcosa si sia consumato totalmente in questo filone narrativo della Edimburgo eroinomane e follemente criminale. Scelta difficile quella di Danny Boyle, ovvero spiattellare in faccia ai fan la distanza temporale dal primo episodio — in una sorta di “non siete più giovani neanche voi che guardate questa roba”. Un film del genere non ha più il senso del divertimento e dello stupore, ma ha solo il rancore di chi crede nell'impossibilità di rilanciare il cinema di genere. Si tratta di una viltà di fondo che impedisce sia all'industria cinematografica di dar spazio a ciò che nuovo lo è veramente, sia di offrire allo spettatore dei film compiuti — un impedimento che nasce dalla non-replicabilità dello stesso impatto emotivo. Produrre un film del genere con tali ovvi risultati, finisce per assumere pure una componente di sfottò — della serie “ecco un contentino per nutrire la vostra malinconia, mentre io prendo i soldi dell’incasso”. Inutile ricordare che il cinema odierno è pieno di esempi del genere — e che in alcuni casi il numero di seguiti raggiunti potrebbe mettere in crisi la differenza di definizione tra serie-tv e film. Il vero tossico, cinematograficamente parlando, è quello che guarda film come se fossero serie — quello che spera nelle continue varianti dei remakes e che perde tanto tempo dietro tiritere senza fine. T2 perlomeno ha questo aspetto positivo: ci risveglia da questo torpore grazie alla sua evidente mediocrità. Tutto il resto è diventato contorno e adattamento, a partire dalla follia imperante della nostra società moderna e capitalista (il discorso di Mark a Veronika) per finire alle disamine familiari del disadattato Begbie. Non si ha di certo bisogno di questo film per sondare certi messaggi che già ci sono molto chiari nella quotidianità — e che qui sono espressi in una maniera fin troppo grossolana. Il passato va ricordato ed è giusto così, ma non abbiamo bisogno di fotocopie. Tanto meno se vengono sfocate e tutte storte.

Begbie l’ha capito: “È necessità liberarsi soffrendo, ma lottando soffrire, la storia.”

P.S. Il titolo Trainspotting è un double-entendre: deriva da una scena del libro (poi non inserita nel film) in cui Begbie e Renton incontrano un ubriacone nella stazione dove vanno a bucarsi, che gli chiede sarcasticamente se sono lì a fare “Trainspotting”: una pratica simile al Birdwatching in cui ci si siede in stazione e si annotano tutte le caratteristiche dei treni e delle locomotive che passano — ma anche un modo di dire bucarsi, nell’Edimburgo di quegli anni. Il trainspotting oltretutto è un hobby veramente ossessivo e ripetitivo, che non ha nessun senso pratico e non dà alcun piacere — per chi lo guarda dall’esterno, ovviamente: forse più di una cosa in comune con la vita di chi non fa altro che bucarsi e cercare la prossima dose…

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