Milena Jesenská: come un’ombra in una luce implacabile

Per un’ulteriore lettura di Milena, oltre Kafka

La Caduta
La Caduta 2016–18

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A permetterci di conoscere più da vicino, e in tutta la sua ricchezza, la vita di Milena Jesenská vi è, fra le altre, la preziosa biografia scritta dalla Margarete Buber-Neumann (Milena l’amica di Kafka, Adelphi, Milano, 1986), una volta uscita dal campo di concentramento di Ravensbrück. La premessa apposta dall’autrice va immediatamente a smentire quella prima impressione che, a partire dal titolo del libro, potrebbe — erroneamente — crearsi nel lettore: impressione che si tratti, ovvero, del semplice racconto di una delle molte sfaccettature di cui si compose la vita di Kafka; la Buber-Neumann si premura infatti di precisare che «Milena Jesenská non merita attenzione solo come donna amata da Franz Kafka; era lei stessa una personalità affascinante, una donna che durante la giovinezza ignorò le convenzioni borghesi e nel corso di una vita difficile riuscì a evolvere, a prezzo di una dura lotta interiore, da un estremo individualismo alla responsabilità sociale e politica».

È fra le testimonianze di tale sviluppo che va a collocarsi Qui non può trovarmi nessuno, nuovo tassello recentemente venuto ad aggiungersi al purtroppo esiguo materiale bibliografico, in traduzione italiana, relativo alla scrittrice ceca. L’edizione, curata dalla Giometti&Antonello di Macerata (con una traduzione di Donatella Frediani), propone due distinte raccolte di articoli, pubblicate dalla Jesenská per alcune famose riviste (Tribuna, Národní Listy, Přitomnost, Pestry Tyden) delle quali fu preziosa redattrice nonché collaboratrice, cui vanno ad aggiungersi in appendice le Otto lettere di Milena a Max Brod; documento quest’ultimo d’estremo valore, dacché rappresenta l’altra faccia — o, meglio, quanto ce ne resta — dell’incantevole medaglia delle Lettere a Milena.

L’edizione italiana uscita lo scorso mese prende vita in particolare, al pari dell’edizione tedesca, dalle due raccolte che Milena pubblicò in vita: Cesta K Jednoduchosti (uscito a Praga nel 1926, traducibile come “Il cammino verso la semplicità”) e Člověk dělá šaty (uscito l’anno seguente, sempre in una edizione praghese, traducibile come “L’abito fa il monaco”). In esse Milena sintetizza un lungo periodo da pubblicista in varie forme di scritti: articoli di costume, recensioni cinematografiche, riflessioni su temi generali, inchieste ed elzeviri. Entrambe le pubblicazioni presentano una particolarità: sono stampate in una bassissima tiratura (non oltre le 300 copie) e riportano il solo nome “Milena”. Oltre il fatto che la circolazione probabilmente era prevista per un giro di amicizie prossime e per i collaboratori dei giornali con cui lavorava, la presenza del solo nome proprio va forse a spiegarsi secondo una duplice via, che non sia quella di una nuda elementarità ed esigenza di raccoglimento.

Pur avendo nella sua carriera optato per una molteplicità di varianti di nomi o pseudonimi (A.X.Nessey, Marie Kubešova, M.P.), per i lettori e le lettrici della rubrica di costume degli anni ’20 sul Národní Listy il solo nome “Milena” valeva come segno di riconoscimento per chi ne leggeva le prose. Il grado di personificazione descrittiva che l’autrice raggiunge in queste prose non la fa assolutamente stonare di fronte ai riconosciuti maestri della prosa breve, della recensione o dell’elzeviro come “forma frattale, condensata, ironicamente allusiva del saggio o del romanzo” quali si potrebbero trovare in nomi consolidati quali Alfred Polgar, Peter Altenberg o Walter Benjamin. L’esigenza del fattuale, di un reale da non edulcorare, non viene mai elusa o mascherata: secondo la stessa Jesenská non può che inglobare giustizia e morale, intesa quest’ultima come un’etica dello sguardo ed una prassi dei dettagli descrittivi. In questo senso il solo nome può essere visto, oltre che come un vezzo di complicità, come una assunzione radicalmente personale del proprio dettato. Un tentativo di meditazione in cui l’incisività della denuncia sappia sempre ben accompagnarsi alla vivacità della divagazione, ad un incedere che sembra implodere o mascherarsi in una pagina di diario in pubblico (per quanto la stessa autrice scriva ad uno suo redattore: “Scriverò per il suo giornale diverse cose, ma non tema, non sarà un diario di viaggio”) o nella rielaborazione di lettere e proprie personali riflessioni in aperte esposizioni di pensiero (come nel caso di una lettera a Max Brod poi divenuta il noto necrologio pubblico per Franz Kafka, con qualche variante dalla lettera all’articolo). In entrambi i casi, l’esigenza di notare precisamente il culmine, di puntualizzare un fatto che si mostra come un emblema nascosto in una trama consueta sembra avere diverse risonanze con forme più intime, come appunto il diario o la lettera. Ma la necessità di una forma pubblica, di agile esposizione, fa sì che la notazione assuma un tono conciso e preciso, come preso in diretta, pur nella sua incredibile variabilità di dettaglio, di ricchezza lessicale, di ironia e maestria (da toni realistici, a scherzosi e fantastici, o di cupezza e gravità).

Partendo da sinistra: “Il cammino verso la semplicità”, “L’abito fa il monaco” e la prima pagina del giornale “Přitomnost” con in apertura l’articolo di Milena “L’Anschluss non ci sarà”

In alcuni passaggi questa personificazione e libera divagazione, che trova nel feuilleton una forma perfetta per l’autrice, diventa estremamente palese: si pensi alla descrizione dell’ostinazione giovanile nella prosa Giovinezza: «Con ogni giorno che passa, con ogni libro che legge, egli [il giovane] crea e lotta, ama e odia, si difende, si difende fino all’ultima goccia di sangue, cerca, corre in avanti armato di un revolver immaginario e, come un dio cieco, stabilisce l’itinerario sicuro della sua vita. Ma appena prende coscienza di ciò che ha creato, perde i due grandi doni della vita: il dono della disperazione di fronte alla morte e quello dell’infinitezza dell’io».

Come questo passo fa evincere, e con esso diversi altri sparpagliati in molteplici prose, è il pensiero della stessa autrice che va a tradursi nel peculiare elenco di dettagli all’apparenza marginali, banali o a tratti estremamente emblematici, come l’immagine di un dio cieco o del revolver immaginario di quest’ultima prosa. In questi dettagli la specificità del pensiero della Jesenská come “mondo a sé” sembra offrire qualche indizio: emblematica la riflessione sul matrimonio intitolata Il diavolo in casa, in cui l’ostinazione nel voler modificare l’altro essere con cui si è fatalmente contratto il vincolo va ironicamente ad assumere lo stesso valore di pretesa grottesca attribuibile al fatto “che uno stupido comprenda Kierkegaard”.

Nel pensiero dell’autrice sembra che si stabilisca una polarità dialettica tra la ricchezza del presente, come momento di aperto divenire, e l’immutabile del vissuto come forma del passato. Intorno sta la morte come proiezione del domani certo, dell’idea di fine del proprio vivere e del proprio sentire come misura restrittiva. L’età adulta viene, da questo lato prospettico, ad essere momento di solidificazione, di preannunciata perdita dell’infinitezza, di anticipazione della morte. Questo scontro va a riguardare anche il concetto cardine di esperienza, come atto che rinnovi e reinglobi la tradizione del precedente. L’esperienza che sostanzia la coscienza adulta è un cumulo di misure cautelari rispetto all’incombere della fine, da cui la stessa esperienza nasce. Essa rimane un elemento chiave per il sopraggiungere negli anni di una specifica forma vitale chiamata età adulta, una possibile variante del filisteismo. Questo atto che accade senza precedenti, come per caso, impoverisce la natura e la densità interiore al suo sorgere, in virtù della logica di compromesso e sopravvivenza a cui l`uomo decide di adagiarsi. Occorre sottolineare come non ci sia nessuna velleità titanica in questa critica: per l’autrice ogni eroismo in sé, o decantato, è menzogna. Questa resa alla povertà potrebbe essere tradotta in una splendida immagine che ricorre in più prose: una finestra cieca. Avere lo sguardo aperto su un muro che non cambia forma. Questo sembra volerci suggerire l’autrice raccontandoci l’impatto frontale dell’essere disperati ed avere sedici anni. Nella Jesenská “per tutta la vita l’uomo fa esperienze, ma è solo nella giovinezza che vive trasformazioni interiori”, “[l’esperienza per il giovane] non è altro che un impoverimento della coscienza, la cupa consapevolezza della fine”. “La tensione prodotta dall’inesperienza” è il vero motore che anima la vita umana, il resto è un affare di ridimensionamento e rassegnazione progressiva rispetto al decisivo, al responsabile, al doveroso che ci sostanzia e a tratti ci assale. Il futuro, se non viene colto nella sua continua radice con la giovinezza, con l’inizio, è puro rimaneggiamento, una “menzogna imbellettata” (alcune risonanze potrebbero esservi con l’esperienza della rivista Der anfang e della Metafisica della gioventù di Walter Benjamin). Certamente, in tutte queste esperienze, la lettura dello Zarathustra nicciano è base di ispirazione e di sperimentazione teorico-critica, come dimostrato anche da una lettera di Milena alla sua maestra Albina Honzáková.

L’atto di sfida con l’immutabile sembra essere la cifra specifica dello stile e dell’ethos: dalla microstoria delle reclamé fino ai destini degli esuli e delle potenze inquietanti delle grandi nazioni, alla protesta contro gli sconvolgimenti che sembrano valicare ogni confine o restringerlo fino alla sordità e mutezza; figlie queste della incapacità sostanziale di accogliere il grido netto, o spesso intangibile, degli oppressi, dei mendicanti, dei clandestini, da raccogliere e curare con la propria testimonianza.

“Pestry Tyden” e “Národní Listy”

A separare le due raccolte di articoli una cesura assai profonda, testimoniata da quell’iniziale velo di onirico disincanto che, irrimediabilmente intrecciato al costante richiamo ad una primigenia libertà, finisce col cedere il passo ad una nuova asprezza della prosa, riflesso questa di quella altrettanto acuta del mutato contesto storico-politico. La Milena dei reportages composti fra il ’37 e il ’39 ha difatti ormai accantonato le pur brillanti riflessioni sul cinema e l’arte, come le romantiche divagazioni su quella volontà di fuga, a tratti impellente, dalle ristrettezze del quotidiano, tanto autentica proprio nella sua finale, sempre mancata attualizzazione. Pur nella lucidità delle descrizioni e nell’acutezza dei passi maggiormente analitici, dalle righe della “prima Milena” trapela alle volte una luce di vivacità quasi fanciullesca, di continuo ed instancabile stupore dinanzi all’armonia del mondo e col mondo, alla cui evidenza è l’attenzione stessa del lettore ad essere richiamata: «Non vi è mai capitato di vedere un uccello che vola “per voi”, le ali spiegate, tranquillo, felice, e che poi dispare in lontananza per non tornare più? Non vi siete mai imbattuti in una strada il cui selciato può sopportare soltanto il numero dei passi che vi occorrono per liberarvi del vostro dolore? Io sono fermamente convinta che il mondo ci venga in aiuto. Non so come, né attraverso che cosa. interviene improvvisamente, insperatamente, semplicemente, pietosamente. A volte, però, la salvezza è dolorosa quasi quanto il dolore stesso. […] Bisogna farsi coraggio e amare ardentemente la vita, in modo che essa, di fronte a tanto amore, si lasci intenerire e si liberi dalla maledizione…».

Due caricature scherzose di V.H.Brunner, amico di Milena

E proprio da tale amore, la consapevolezza che quando la propria patria — la Boemia in questo caso — si trasforma in una desolato deserto dei tartari, dove i contorni del nemico da indistinti e inafferrabili sempre più si trasformano in forma ben definita, non può più esserci spazio per la moda, il cinema, il qualsivoglia divertissement; anche il viaggio come divagazione e fuga dal reale perde ora completamente di senso. Si condensano tutte qui la lucidità e la razionalità scintillante di Milena, femminea intelligenza che non disdegna — al contrario ama — il tempo dell’ozio, del riso, del puro vagheggiamento poetico, ma che ad un tempo, di fronte all’urgenza della storia e del reale, sa animarsi della stessa concretezza della terra, nella comprensione che i sogni richiedono uno spazio ed un tempo precisi, che l’impellenza della vita deve, quando necessario, mettere in secondo piano.

È così che all’analisi più strettamente reportagistica si accompagnano dei veri e propri appelli, più o meno impliciti richiami all’impegno, alla consapevolezza e alla resistenza del lettore. In tal modo la Jesenská osserva che «finché gli uomini che non si occupano affatto di politica non impareranno a considerare “la politica”, cioè “quel che accade”, importante non meno delle loro faccende private, la grande massa della gente si lascerà trascinare con indifferenza dagli eventi, senza rendersi conto che quegli eventi penetrano fin dentro le pareti domestiche e prendono posto alla sua stessa tavola davanti alla scodella di minestra di mezzogiorno».

Milena con la sua amica Staša, con sua figlia Jana e col suo maestro di tennis

Compendio di questo incredibile senso del politico (politico qui autenticamente inteso come cura della polis) è rintracciabile nell’immagine che la Buber-Neumann ci restituisce all’interno della sua biografia, frutto di un intenso, viscerale a tratti, rapporto di amicizia con Milena, portato avanti per quattro lunghi anni all’interno del più grande campo di concentramento della Germania nazista. La Jesenská è qui presentata come una donna le cui abbondanza, carica vitale e potenza sembrassero non conoscere limite o ridimensionamento possibile, nemmeno dinanzi alle più aspre e disumane brutture della guerra; guerra che, in qualche modo, venne come a fare da spartiacque nella sua vita, non tanto in relazione alla sua più intima indole o natura o, ancora, alle sue convinzioni politico-morali, quanto — ed inevitabilmente — al proprio modo di vivere. La Milena giornalista cede qui il passo, priva di qualsiasi pur minima ombra di rassegnazione, alla vera «mamma Milena», come amorevolmente Kafka era solito chiamarla. Qui poté infatti, con ancora maggiore forza rispetto al passato, dar prova di quell’immenso desiderio di soccorrere il prossimo, di aiutare il bisognoso di là dal cieco — talvolta buffonesco e sempre in fondo idolatrico — credo legato a questa o a quell’altra svolazzante banderuola, politica o religiosa che fosse. Così, ad esempio, la rottura col comunismo, consumatasi dopo un tempo di intensa ed attiva partecipazione, di cui Milena stessa riferisce in una lettera ad Olga Scheinpflugová in cui si legge: «Sono entrata nel partito comunista dopo la malattia e dopo la paralisi, spinta dal grande desiderio di rendermi ancora utile al mondo. Credevo che solo là fosse possibile. Ho concentrato tante cose belle nella parola compagno e per anni mi sono subordinata alla cosiddetta disciplina rivoluzionaria, anche dopo, quando ho scoperto che questa cosa con la disciplina rivoluzionaria non aveva nulla in comune, che è sempre la stessa cosa ovunque: ognuno difende se stesso e sputa sull’altro. Cambia solo la terminologia».

Milena a tredici anni, lungo la Moldava

Da qui allora, dopo l’iniziale disillusione, la volontà di riscatto e rivendicazione di un senso di maggiore autenticità, definitivamente svincolato dai nonsensi delle ridondanti e vuote retoriche, perennemente chiuse nella propria cieca autoreferenzialità. Nella convinzione che, sempre, una consapevolezza rinnovata possa riempire il vuoto di una certezza venuta a mancare, dando nuova linfa al giorno a venire. Così, forte di tale sicurezza, Milena scrive: «So che per tutto bisogna pagare e che, sull’una come sull’altra sponda, non si sfugge al rimpianto del passato. So tutto questo. Ma, è vero, ogni primavera il sole risplende sui prati fioriti; se questa è la sola certezza al mondo, intendo aggrapparmici con tutte le mie forze».

Articolo a cura di: Chiara Mammarella e Edoardo Manuel Salvioni

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