Credits to Pavel Mazur

Neophyte Visionaries — Intervista ai Rosetta

Due chiacchiere con su Utopioid, caposaldo del 2017, che consolida lo status dei Rosetta come una delle più innovative realtà della musica heavy

Antonio Del Basso
La Caduta 2016–18
9 min readMay 2, 2018

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Nella fuga da se stessi — che sia nella direzione di un viaggio interplanetario oppure nel conseguimento di visioni e sogni in cui riporre le proprie speranze — in ogni caso ci si muove, a dar retta ai Rosetta, verso cocenti delusioni. I protagonisti dei concept-album dei metallari di Philadelphia spesso discendono, vorticando furiosamente, verso amarissime conclusioni e, soprattutto, verso solitudini senza redenzione. C’è da dire però, che il viaggio risulta il più delle volte memorabile, specie per l’ascoltatore avvezzo alla miscela di suoni duri e paesaggi sonori delicati che dai più sono accostati al post-metal. Guai però ad etichettare così la loro musica, come ci spiega Matt Weed, chitarrista e membro fondatore della band. In quest’intervista approfondiamo alcuni aspetti nascosti di Utopioid, ultimo lavoro della band, che anche a distanza di mesi suona ancora come il lavoro più ispirato, vario e meglio confezionato dei Rosetta.

Da sinistra: David Grossman, Mike Armine, Eric Jernigan, Matt Weed e Bruce McMurtrie.

Portate il nome di un satellite della NASA che da tempo ha terminato la sua missione. Come band, invece, vi siete occupati in maniera esplicita di viaggi interplanetari solo nel primo, mozzafiato Galilean Satellites. Qual è per voi l’importanza e il significato che attribuite al vostro nome?

In realtà è stata solo una coincidenza, non abbiamo dato il nome alla band in base alla sonda spaziale; eravamo interessati alla tematica spaziale, ma abbiamo saputo della missione “Rosetta” solo più avanti. Il nome non aveva perciò per noi alcun significato profondo, all’inizio. Avevamo solamente bisogno di un nome e Rosetta suonava bene, può anche essere interpretato in diversi modi. In qualche modo, è impossibile farsi venire in mente un nome prestabilito per una band. Quando inizi, scegli un nome prima che tu davvero sappia cosa stai facendo; esso acquisisce significato via via che crei musica con quel nome.

Come sta andando la ricezione di Utopioid? Nel materiale informativo scaricabile assieme al download digitale dell’album si evince che Utopioid rappresenta un grande investimento in termini di impegno e sforzo collettivo. Siete stati quindi particolarmente “ansiosi” di scoprire le reazioni di fans e critica? Siete soliti leggere le recensioni dei dischi che pubblicate?

Il riscontro del pubblico è davvero importante per noi — facciamo musica per i nostri fan e abbiamo a cuore cosa pensano — ma proviamo a non leggere le recensioni. Il ruolo dei recensori sta diventando obsoleto, attualmente — puoi ascoltare la musica prima di comprarlo, perciò perché hai bisogno di qualcuna che di dica se è buono? Puoi valutarlo da solo. Inoltre, sembra che molti recensori competano tra loro per dimostrare la propria credibilità provando a dire qualcosa di nuovo e perspicace (al fine di distinguersi in quanto scrittori), piuttosto che fare i conti con la musica stessa, nel suo contesto creativo.

Detto ciò, sembra che Utopioid sia stato recepito molto bene. Commercialmente è andato anche meglio delle aspettative e abbiamo sentito molte storie personali dei fan riguardo quanto essi siano entrati in connessione col concept dell’album e quanto siano stati toccati da quest’album. È questo il tipo di riscontro più importante che possiamo ricevere, oltre che uno degli stimoli più grandi per continuare a fare musica.

Vorrei rivolgerti una serie di domande su Utopioid, basate su impressioni e su osservazioni maturate nell’ascolto del disco. Utopioid è un concept album a nostro giudizio estremamente ben sviluppato, coerente nel suo intreccio di musica e testi. Utopioid si fa strada attraverso i sentimenti umani della speranza, dell’aspettativa, della gioia, sprofondando infine nel buio d’una disillusa presa di coscienza dell’illusione dei propri sogni; o meglio, del pericolo insito nel cullarsi in visioni e scappare dalla realtà. Paradossalmente però, Utopioid è un disco riuscitissimo, che capovolge il cupo e disperato finale, risultando in ultima analisi forse il vostro disco più maturo e variegato. Sei d’accordo?

Utopioid.

Sì, penso sia una buona sintesi. Una delle nostre speranze per lo sviluppo del concept era che l’album potesse essere leggibile in differenti modi — può essere interpretato attraverso un punto di vista più generale, o anche in un modo più specifico, come una narrazione allegorica riguardo un personaggio specifico e il disfacimento dello stesso come risultato dell’orgoglio e dell’isolamento (in questo senso, è simile a The Galilean Satellites). In un senso più generale, credo che funga come una storia di avvertimento riguardo ciò che accade quando abbandoni la comunità o smetti di combattere per rapporti e riconciliazione. In un senso specifico, esso ha a che fare con la domanda “che cosa succede quando batto i miei demoni ma la vita non è comunque degna d’essere vissuta?”

Utopioid è un disco che, come avete già sostenuto, rappresenta una innovazione anche dal punto di vista della strumentazione utilizzata, che vede ad esempio un uso maggiore dei synths e addirittura della chitarra baritona. Visto che avete già intrapreso un primo tour americano a seguito della release, vorremmo chiedervi se dal vivo cercate di essere più fedeli possibile al disco o se volutamente cambiate qualcosa, nella resa dei nuovi pezzi. Quali sono le sensazioni del pubblico e le vostre, nel suonare questo disco?

Una delle differenze rispetto agli album precedenti è che abbiamo scritto Utopioid senza alcuna preoccupazione riguardo come le canzoni sarebbero o potrebbero essere suonate dal vivo. Perciò abbiamo dato del nostro meglio nel suonare in un modo che esprima autenticamente il loro significato. Ci sono differenze nelle versioni live dei pezzi semplicemente perché in questo contesto c’è un limite alla strumentazione che possiamo portare con noi. Quando devi viaggiare in aereo con solo una valigia è difficile…

Già dalle prime note dell’album si percepisce una sensazione di novità. I due brani iniziali Amnion e Intrapartum aprono il disco alla grande. Tra la delicatezza degli arpeggi e dei vocalizzi, nel loro ottimo intrecciarsi, portano una ventata di freschezza, secondo me, nella vostra musica. A tal proposito mi viene da pensare: quant’è stato importante l’apporto di Eric Jernigan in pianta stabile nella line-up, dopo alcuni tempi di collaborazione esterna? Quali sono le sue influenze che ha portato all’interno della band?

Eric ha un gran senso per la melodia e condivide il nostro interesse nel lasciare “hooks” [da Urban dictionary, “hooks”: Catchy part of a song that draws in the listener. not necessarily the chrous.] nella musica. Ci aiuta a mantenere la nostra vena sperimentale all’interno di un songwriting di qualità, che concorre a mantenere un equilibrio tra accessibilità e sperimentazione. Ma oltre a ciò, dopo aver integrato con successo un nuovo membro, abbiamo voglia di considerare ogni sorta di possibilità non-convenzionale che prima non avevamo. Ciò è guidato dallo spirito più collaborativo col quale lavoriamo, e in mia opinione, a una più ampia varietà di sonorità.

Neophite Visionary e King of the Ivory Tower sono brani nei quali il “marchio” Rosetta è più evidente. Ascoltando e leggendo i testi, colpisce il livello con cui avete armonizzato la speranza, i sogni e il cullarsi nelle illusioni di grandezza descritti nelle liriche, con la musica stessa, che restituisce al meglio tali sensazioni all’ascoltatore. Come avete affermato più volte, tutto ciò è frutto di un lavoro “democratico”; ognuno ha dato il suo contributo anche nei testi. Scrivere testi e condividerli con gli altri non è però, di solito, una cosa così semplice e spontanea. Avete avuto difficoltà, almeno all’inizio, nel lavorare con questa metodologia così partecipativa?

L’unica vera difficoltà è stata che ci è voluto più tempo a completare il tutto. Ognuno ha contribuito al processo concordando esplicitamente a prendere più rischi e a mettere in disparte il proprio ego, al fine di provare qualcosa di nuovo. Sono davvero lieto che abbia funzionato. Ognuno aveva l’obiettivo comune di enfatizzare la forma (“gestalt”) della musica, partendo dal concept e compiendo ogni scelta musicale per supportarlo. Immagino che sarebbe stato molto più difficile se non ne avessimo parlato al riguardo e concordato queste cose in anticipo.

I pezzi successivi sono 54543 e Detènte (Hypnagogic). La curiosità che mi sorge per prima riguarda l’origine dei due titoli delle canzoni; potete spiegarceli? Mentre 54543 è un brano strumentale, Detènte presenta un testo molto ricercato e, a nostro parere, molto bello. Nel PDF con le liriche, questo testo presenta delle strofe in rima virgolettate; si tratta magari di un estratto da una poesia?

54543 è il codice del governo degli Stati Uniti per un comune antidolorifico oppioide. Scrivemmo quella canzone come un pezzo impressionistico nel quale il personaggio principale giace in una vasca da bagno, godendosi la calma euforia dell’oppiaceo. La batteria è “attutita”, si sente come se provenisse da oltre una porta chiusa. Questa è la seconda di tre apparizioni dell’acqua nell’album — l’acqua della nascita in Intrapartum, l’acqua della vasca da bagno in questo pezzo e l’acqua dell’annegamento in Qohelet e Intramortem.

Dètente ha invece due voci — una è la voce del personaggio, che combatte contro l’isolamento e dipendenza, mentre l’altra (la voce racchiusa dalle virgolette) è la voce della sirena dell’oppioide, che prova a ritrascinare il personaggio in fondo a questo suo isolamento.

In primo piano, Mike Armine.

Negli ultimi momenti del disco è situata Qohelet. Un pezzo nel quale sento, magari sbaglio, influenze dei The Ocean. Ascoltate la loro musica? Può avervi ispirato?

Li ascoltiamo, ma non direi che siano stati un’ispirazione per quella specifica canzone. Quel pezzo si basa su un’ampia progressione di dinamiche (che abbiamo sempre avuto nella nostra musica) e più ancora su di una lunga progressione di accordi, che è invece in una novità per noi. Non siamo mai stati una band “riff-oriented” — preferendo invece più contrappunti — ma in quella canzone ci siamo diretti in una direzione opposta, basando la canzone su di una progressione di otto accordi con un rivolto. E’ un modo molto tradizionale di comporre, quasi come un canto di chiesa, ma comunque abbastanza alieno per noi.

È notizia di pochi giorni fa, a proposito dei The Ocean, che Utopioid uscirà per Pelagic Records, etichetta di musica metal fondata da Robin Staps, chitarrista e fondatore della post-metal band tedesca. Avete inoltre realizzato l’edizione giapponese di Utopioid, con 2 bonus tracks specificamente per questo mercato, assieme all’etichetta Tokyo Jupiter. Ciò offre lo spunto per parlare della vostra scelta, da The Anesthete (2013) in poi, di divenire una band completamente indipendente da Label e gestire in prima persona le vostre release. In quanto tali, come gestite le vostre collaborazioni con le etichette per le operazioni di cui sopra e con le agenzie di Booking, per quanto riguarda l’organizzazione di tour e quant’altro?

È semplicemente il miglior modo per noi di rimanere sostenibili finanziariamente e in controllo del nostro lavoro. Abbiamo un pubblico ben consolidato, ma non molto ampio. Perciò è importante avere una modalità di pubblicazione della musica che ci permetta di coprire le spese di ogni release, oltre che di essere in grado di andare in tour senza contrarre debiti. Il “self-releasing” di musica digitale ci permette tutto questo. Sfortunatamente, non possiamo produrre da soli supporti fisici a distribuzione globale, perciò collaboriamo con etichette, a questo fine. Ciò funziona bene perché le label non devono sostenere i costi di produzione dell’album; semplicemente autorizzano alla vendita un prodotto finito e ciò è a nostro favore, anche perché non dobbiamo trattare per manifattura e distribuzione del disco. Il nostro modello di touring è invece più tradizionale.

All’epoca del vostro esordio, vi presentaste come una band di “metal per astronauti”, espressione coniata per descrivere il vostro stile musicale. Cosa ne pensate dell’etichetta “post-metal” usata ormai di consueto per definire il vostro stile musicale e quello di molte altre band a voi affini?

Le persone possono chiamare la musica nel modo che vogliono, ma non abbiamo mai sentito troppa connessione col “post-metal”, come definizione. La nostra musica è “droney” e concettuale, ma penso che quando le persone vengono a vederci dal vivo, possano comprendere come le nostre radici sono molto più nell’hardcore che in qualsiasi altra cosa. Non proviamo a mettere le persone a dormire, ma a farle fare stagediving — il che è un goffo (sciocco) modo di dire che stiamo cercando di facilitare la catarsi, non l’ipnosi. Non penso che questo paradigma sia tipico di ciò che la gente chiama post-metal.

Quali sono i prossimi passi per il 2018? E’ molto recente la notizia della vostra partecipazione al Pelagic Fest di Berlino, il prossimo 20 maggio. Ci verrete a trovare anche in Italia? Ci sono poi altri paesi, in particolare, nei quali vorreste suonare e che vorreste visitare, magari anche per interessi personali?

Ci piace sempre arrivare in nuovi posti, ma a volte non è possibile a causa di logistiche del touring; ècomunque sempre divertente anche tornare nei vecchi luoghi. Stare in tour è bello in generale, per via del modo in cui ti connette con le persone e costruisce relazioni. Siamo davvero entusiasti di fare un po’ di concerti con i The Ocean questa primavera. E infine sì, stiamo arrivando in Italia!

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