Noi figli degli anni ‘90

Gli anni ‘90 sono stati un inizio per la nostra generazione, per altri una fine, tipo per quel blocco sovietico che forse ancora ci insegue, e ci diletta

Pier Francesco Corvino
La Caduta 2016–18

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Callicratida […] non dette una buona risposta quando, all’indovino che lo pregava di guardarsi dalla morte che le vittime sacrificate presagivano, disse che le sorti di Sparta non dipendevano da un solo uomo.

(da Vita di Pelopida, 2, 1, tr. di S. Bocci e A. Georgiadou, 1998)

Plutarco scriveva biografie a coppia per dimostrare come il carattere, per i vizi e le virtù, influenzasse i destini di uomini celebri. Purtroppo per noi, dal giorno immemorabile del crollo dei valori, di queste Vite Parallele se ne sono viste sempre meno, e non è detto che non se ne senta la mancanza. Fatti condannati all’irrilevanza politica, infatti, potrebbero essere, ad esempio, storie d’altri tempi; come potrebbero essere, diciamo, questioni di cuore. Questa nostra piccola biografia di una coppia sconosciuta, in particolare, appartiene a chi ha sperimentato un «impero alla fine della decadenza», a chi ha visto morire gli anni ’90. Ma andiamo con ordine, e lasciamo che sia la storia a presentarci i profili adombrati dei nostri soggetti:

La nostra vicenda comincia in Moldavia, nella Moldavia che ha sperimentato un breve ma sanguinario conflitto nel 1992, tutto su una striscia di terra situata ad est del fiume Dniester. A seguito di esso, veniva riconosciuta la Repubblica di Moldavia, con governo a Chişinău. Era stato proclamato, però, anche un altro governo, a Tiraspol, seconda città della Moldavia per numero di abitanti, nonchè odierna capitale dell’autonomo stato di Transnistria.

Igor Smirnov

La Transnistria è oramai uno stato de facto dal 1990, da quando, cioè, gli abitanti di questo lembo di terra, che si frappone a Moldavia e Ucraina dichiararono la propria indipendenza. A dire il vero, già poco tempo dopo la dichiariaziono d’indipendenza, essi cercarono disperatamente di entrare a far parte dell’URRS come Repubblica Sociale Socialista Moldava Pridnestroviana (RMSSP). Sfortunatamente per i nostri, però, L’URSS sarebbe caduta di li a poco e la repubblica sarebbe divenuta Repubblica Pridnestroviana di Moldavia, o più teneramente, Transnistria, lo stato di Igor Smirnov, capo del governo dal ’90 al 2011.

Questa strana storia, dovrà ora spostarsi sull’Adriatico, percorrendo i Balcani, appena sotto la fragile Jugoslavia. È sempre il 1990, ci troviamo nell’Albania socialista. Purtroppo, il popolo albanese, in quei mesi, stava sperimentando il lungo addio del presidente del Partito Comunista, padre di tutto il popolo albanese: Enver Hoxha. Hoxha era noto, altresì, fuori dalla patria, per aver inaugurato un’ideologia nazionale all’insegna dell’anti-revisionismo, con cui veniva riconfermata l’assoluta fedeltà al regime staliniano ed ai suoi comandamenti. Ora che la Russia, infatti, aveva ripudiato Stalin in favore di timide apertura al libero mercato, all’Albania non restava che resistere, attendendo stoicamente il proprio destino. I rapporti internazionali, salvo qualche frequentazione con la Cina, erano ridotti all’osso e la politica interna verteva, necessariamente, sulla costante costruzione di bunker sparpagliati per tutto il territorio nazionale, che sarebbero serviti all’imminente guerra totale del capitalismo contro gli ultimi custodi del messaggio.

Ramiz Alia

Se Hoxha riuscì, per decenni, a dirigere con maestria una gigantesca parata di finzione ideologica, in questo teatro gigantesco che è la storia del mondo, non lo stesso potremmo dire del suo vice, cui questa nostra seconda biografia è dedicata: Ramiz Alia. Ovviamente, quel che ci interessa è il Ramiz Alia del 1990, il Ramiz Alia che assistette alla fine della Repubblica Popolare d’Albania; il resto è storia e a noi non interessa. A questo riguardo, anche se questa storia vuole insistere sulle curiose sorti del blocco post-sovietico, dovremo rimanere, come si intuisce, molto distanti dalla complessa grandezza, fulgida e tetra allo stesso tempo, della Jugoslavia titina.

Tornando alla nostra cronologia, allora, sappiamo che Alia stesso scelse, volente o nolente, di imprimere una moderata modernizzazione durante il suo mandato, sperando che questa linea morbida non pregiudicasse il disegno del suo predecessore, a cui anche lui teneva molto; certo, a modo suo, come spesso accade nelle questioni di coppia. Alia e Smirnov sono due spiriti antichi che hanno visto l’impero crollare; Alia e Smirnov sono stati virtuosi e viziosi allo stesso modo nella lora esperienza politica, ma non entrambi hanno saputo sopportare il peso della fine di un’epoca. Non a caso, crediamo, Smirnov, sia rimasto il padre, anche se non più il presidente, della Transnistria, un padre che ancora oggi dedica la sua esistenza al riconoscimento del suo stato, da parte della comunità internazionale. L’unico piccolo segno di speranza di quest’uomo è stata la Comunità per la democrazia ed i diritti dei popoli, di cui basti sapere che è presieduta, oltre che dalla Transnistria stessa, soltanto da Ossezia del Sud e Abcasia; due stati che come si può intendere, già dallo scarso eco che suscitano, non contano troppo sullo scacchiere internazionale, giacchè non sono, neanche loro, riconosciute.

Transnistria

Quel che ci rimane da dire, seguendo la lezione di Plutarco, è che la fine della Repubblica Socialista Albanese e la persistenza ambigua della Transnistria devono insegnarci qualcosa; qualcosa di quantomeno pittoresco, qualcosa di grottescamente brillante. Per esempio, storicamente parlando, ancor prima degli anni ’90, nessuno ha mai dato un soldo di fiducia all’hoxhaismo, anzi, pare che l’Albania ai tempi fosse un po’ lo zimbello d’Europa, tanto che, se non fosse stato per l’ingombrante presenza della Jugoslavia e della longa manus della guerra fredda, si sarebbe fatto anche di peggio; in quanto a burle, si intende.

Nell’85, morto Enver Hoxha, sale alla presidenza del Partito del Lavoro, il suo successore, Ramiz Alia. Ma chi era costui? Non lo sappiamo con certezza, sebbene sappiamo chi fosse il nostro personaggio del nostro racconto. Il nostro era un burocrate virtuoso, un quadro di partito stabile ed equilibrato, che, con eleganza e tenero riserbo, sapeva giostrarsi sulla tribuna elettorale. Eppure, l’amore della gente era tutto ancora per Hoxha, forse anche quello di Ramiz stesso. Alia non sarebbe potuto essere un buon padre, per la propria patria; egli doveva rimanere il figlio prediletto e non diventare un figlio degenerato, non avrebbe mai dovuto voler essere padre e figlio insieme.

Accade, comunque, che il democratico Berisha, uno dei tanti nuovi volti dell’Albania moderna e multipartitica lo accusa di corruzione, procurandogli una manciata d’anni diprigione. Quando ne esce, nel 1995, l’Albania non è più la stessa. La nuova nazione ha imboccato oramai, irrimediabilmente, una strada tutta diversa. Il popolo alabanese sembra oramai stanco delle favole dell’hoxhaismo, e anzi ben le baratterebbero per qualche strada asfaltata, o per un salario vagamente maggiore; comunque, la nostra storia non deve procedere oltre. Quel che resta è un Ramiz Alia condannato ad essere figlio eternamente, mai più padre, un povero figlio abbandonato, ma anche un parricida, e che non si dica purtroppo o per fortuna.

Ma ora siamo molto più ad est, tra la Moldavia e l’Ucraina, in terra di Transnistria. Siamo a Tiraspol, nella capitale dove finisce questa storia. Qui, a ben guardare, è un po’ tutto come prima, la città è rimasta quella che era trent’anni fa. Certo, molte cose sono cambiate, ma Tiraspol non è certo un posto fatto soltanto dei suoi palazzi; Tiraspol è anche e soprattutto la storia strana e poco nota del suo popolo. Tiraspol è, in fin dei conti, una delle più varie e strabilianti prove di estetica post-stalinista, sovrastata dalla ferrea architettura sovietica e dominata dai suoi ornamenti allegorici. Il cirillico ha oramai sedimentato, impedendo la destabilizzazione dell’alfabeto latino, anche rispondendo con la forza a rivolte silenziose, fatte da scuole per la prima educazione.

A dispetto delle impressioni, mon stiamo cercando di fare della blanda promozione di luoghi esotici, e non stiamo nemmeno cercando di inventare il disegno armonico di una città paradossale; stiamo soltanto sostenendo l’immagine che Tiraspol merita, in quanto terra di lunghe trattative per il preteso riconoscimento, in quanto terra di sotterranei rapporti con la madre Russia, che rimane sorda da un orecchio, che fa finta di non conoscerti in pubblico, perchè si vergogna di lei. Probabilmente da queste contraddizioni, è uscita la Tiraspol che ospita corruzione e ladrocinio estero, diventando un paradiso artificiale troppo terreno, costretto a rimanere gaiamente e cautamente fuori dal mondo.

È forse per questo poco di malinconia, che ci piace pensare che il nostro Smirnov sia ancora un quadro di partito, un gerarca che ha concesso inconsapevolmente alcune lacune di potere, alcune sostanziali modifiche della prassi sovietica, soltanto per un po’ di sano disimpegno; per garantirsi, cioè, modeste passeggiate ai giardini pubblici, dove poter omaggiare la statua illibata di un Lenin fiero, un Lenin che non ha mai visto sconfitta.

Transnistria (bandiera)

Quel che più ci viene da pensare, infine, è che le notti della Transnistria sono le notti della democrazia. Ci viene da pensare che quando gli stati democratici hanno preso il sopravvento, essi abbiano previsto la sopravvivenza di uno stato simile, uno stato sgabuzzino, uno stato-super-Io. Uno stato così strano, così eccedente, così fuori luogo, uno stato sempre e solo di confine. Figurarsi, parliamo di uno stato che si era secesso, proprio per potersi sottomettere alla madre Russia; uno stato pronto alla più sincera devozione, propria delle repubblica indipendenti e socialiste. E invece? E invece il grande impero sovietico è crollato, rendendo la Transnistria un orfano sordo, incapace di sperimentare il rigoglioso processo dialettico di stalinizzazione totale e secolarizzazione democratica, lasciando la percezione della rivolta soffocate nel cuore, nell’irrazionalità delle pulsioni violente; quantomeno rendendo storte, incomplete e povere le ambizioni ed il futuro della Transnistria. Un regno di favola, che formalmente nemmeno esiste, una piccola macchia colorata sul planisfero, senza nome. Ed allora noi diciamo:

lunga vita alla Transnistria! Che è il rimosso lacaniano delle nostre democrazie! Diciamo lunga vita ad uno stato che non c’è e che, proprio per questo motivo, deve diventare il luogo dove si specchia la nostra bonaria cultura liberale, il luna-park delle nostra follia progressista. Come impallidisce a confronto, questa presunta epoca della fasulla post-verità, che, a differenza della Transnistria, si vergogna di dire che non esiste!

Tutto sommato la biografia duplice, per come la insegnava Plutarco, è venuta un po’ sgangherata, forse un po’ troppo vanitosa, un po’ troppo edificante. Eppure, se proprio dobbiamo trovare una virtù universale, che faccia quadrare i conti, confidiamo che questa sarà sempre la virtù dell’assenza, la virtù del nulla, assoluto e gratuito, il nulla bonario che scorrazza libero nella nostra malignità.

Non siamo un po’ tutti Transnistria? Non è quello il nostro fine ultimo, la nostra suprema escatologia? Un mondo di relativa autonomia, di candida impostura, dove l’immaginario e la realtà si sovrappongono, in funzione di un isolamento sostenibile. Alla fine di tutto, dovremo soltanto scegliere se essere, come Alia, i burocrati della dissoluzione, o, come Smirnov, i profeti della sua conquista.

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