Orchi e vittime nel cinema di Matteo Garrone

L’imbalsamatore, Primo amore e infine Dogman: tre film per raccontare il rapporto morboso che può nascere tra vittime e carnefici

Michele Bellantuono
La Caduta 2016–18

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In un periodo in cui capita spesso di interrogarsi sul presente e soprattutto sul futuro del cinema nostrano, è giusto ricordare che ben due sono stati i film italiani applauditi calorosamente al 71esimo Festival di Cannes. Un film scritto e diretto da una cineasta giovane ma già pronta a spingere audacemente il proprio cinema verso derive interessanti, l’altro realizzato invece da uno dei registi più importanti e stimati (certamente anche all’estero) del nostro Paese: stiamo parlando di Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher e soprattutto del Dogman di Matteo Garrone. Abbiamo già speso qualche parola di apprezzamento nei riguardi del primo, inquadrandolo come uno dei titoli italiani più interessanti degli ultimi mesi. Ma il film italiano che ha fatto più parlare di sé a partire da inizio anno, assieme naturalmente a Loro (l’opera di Sorrentino, si sa, è sempre capace di stimolare il “chiacchiericcio” che tanto disgusta il suo Jep Gambardella), è Dogman. Tra gli aspetti più commentati del film c’è sicuramente la straordinaria prova attoriale di Marcello Fonte, un attore scoperto per caso da Garrone in una delle tante compagnie teatrali napoletane durante uno spettacolo. Fonte è stato premiato a Cannes per la sua interpretazione dell’omonimo protagonista Marcello, un gracile toelettatore di cani le cui giornate sono interamente dedicate al proprio lavoro e alla figlioletta. Un’ombra tuttavia gli impedisce di vivere serenamente: un uomo pericoloso che terrorizza il suo quartiere e minaccia la sua libertà. Il film è ispirato liberamente a un fatto di cronaca avvenuto nell’88, l’omicidio di un ex-pugile invischiato in giri di droga da parte di Pietro De Negri, noto come il “canaro della Magliana”. Il fatto è tutt’oggi considerato tra le pagine più truci della cronaca nera italiana. De Negri seviziò a lungo e crudelmente il pugile, che in inizialmente era stato suo amico e compagno di misfatti, ma che in seguito diventò il suo aguzzino: prima di essere ingabbiato (letteralmente) dal canaro, Giancarlo Ricci era arrivato a maltrattarlo pesantemente, costringendolo infine a entrare nel giro della criminalità.

Marcello Fonte in Dogman

La vendetta del canaro si è manifestata in atti di estremo sadismo che qui non vogliamo certo rievocare, così come fa lo stesso film di Garrone. Il regista rinuncia infatti alla tentazione di offrire allo spettatore un macabro spettacolo alla Hostel (che pure in questo caso restituirebbe una rappresentazione più realistica dell’episodio), preferendo focalizzare l’attenzione sul rapporto ambiguo tra i personaggi protagonisti, tra il canaro Marcello e il brutale Simone (alter ego di Ricci). Il film presenta in questo senso una struttura narrativa ordinaria, configurandosi come storia di una relazione pericolosa e malsana di un uomo di buon cuore e onesto con un criminale di quartiere violento e senza scrupoli, che progressivamente, attraverso vari episodi che vedono Simone sempre più arrogante nelle sue “richieste” a Marcello, si trasforma in un percorso obbligato di vendetta del debole contro il forte (ruoli che infine vengono drammaticamente ribaltati). L’apparente banalità del plot è però bilanciata dall’essenzialità di una sceneggiatura che prevede i pochi dialoghi necessari a inquadrare le vicissitudini quotidiane dei personaggi. Come spesso si osserva nella filmografia di Garrone, sono soprattutto le immagini a parlare; a partire dalle scenografie, che mostrano qui un paesaggio urbano anonimo e decadente, spettro architettonico che rievoca gli scenari della Scampia inquadrata in Gomorra.

A sinistra una delle più riconoscibili location del film Gomorra; a destra, una location di Dogman

Il cinema di Garrone ama riflettere e citare se stesso, attraverso luoghi, personaggi, situazioni, oppure proprio attraverso queste immagini significative, elementi che non a caso occupano prepotentemente l’inquadratura: compongono con le figure umane un insieme figurativo intriso sempre di forte realismo, ma certo anche molto disturbante. I grigi palazzi della periferia napoletana di Gomorra, le gabbie degli animali ne L’imbalsamatore, i cupi spazi interni della casa/torre dell’orafo Vittorio in Primo amore. Quella raccontata da Garrone è un’umanità in trappola, incastrata da vincoli che sono sia sociali (vedi Gomorra, ma anche Reality) che legati a rapporti morbosi tra individui, come quelli che appunto sono al centro delle vicende di almeno tre film del regista romano: L’imbalsamatore (del 2002), Primo amore (2004) e lo stesso Dogman (2018).

Queste tre pellicole all’interno della filmografia del regista costituiscono idealmente un trittico omogeneo di temi e stili narrativi, segno della presenza di una sensibilità concreta dell’autore nei confronti di storie dai risvolti drammatici, narrate con schiettezza ma assieme intrise di una forte ambiguità. Questa viene nei film citati resa in una sottile chiave grottesca, che comunque non apre mai distanze da quel dominante senso di realismo che costituisce le fondamenta del cinema di Garrone (fatta eccezione per la temporanea deriva fantasy-folkoristica de Il racconto dei racconti). Quello per il grottesco e per la devianza della deformità (fisica e/o mentale) è espressione di un preciso gusto autoriale, mentre la rappresentazione realistica è naturale punto di arrivo di soggetti ispirati a fatti di cronaca nera, che la visione di Garrone trasforma in più e meno efficaci narrazioni cinematografiche che poco o nulla hanno a che vedere col genere del cinema d’inchiesta. Garrone infatti si è dimostrato capace di estrapolare dalla cronaca potenti storie di vendetta, storie di sfruttamento o di affetti morbosi destinati a chiudersi nel sangue. L’imbalsamatore reinventa la vicenda del “nano di Termini”, il tassidermista Domenico Semeraro invaghitosi del suo giovane collaboratore; Primo amore recupera la storia del romanzo autobiografico Il cacciatore di anoressiche, racconto dettagliato della parafilia di Marco Mariolini; Dogman, come ricordavamo, coglie invece la suggestione offerta dalla brutale vendetta del canaro della Magliana. Storie diverse, tutte nate dunque da un nucleo di realtà ma accomunate anche da una presenza (questa più strettamente legata alle necessità del genere drammatico) costante, che Garrone usa come perno attorno al quale svolgere la narrazione: un gioco di affetti instabile e malsano, morboso e pericoloso, inquietante. Tanto perverso quanto autentico.

L’imbalsamatore

Questo tipo di rapporto tra personaggi si riscontra in tutte le pellicole del nostro trittico. Prendendo in considerazione queste opere, ci accorgiamo allora che tanto si può lodare di Dogman meno che l’originalità del plot, che ricalca in modo evidente quella de L’imbalsamatore. A riecheggiare sono proprio queste dinamiche di relazione tra vittima e aguzzino, tra potente e ingenuo, nella sostanza tra individuo forte e debole. Peppino Profeta, il tassidermista bisessuale protagonista di L’imbalsamatore, soffre di nanismo, ma rappresenta una figura carismatica, carica di potere, capace di imporre la sua volontà sugli altri come appunto fa con il giovane assistente Valerio. Quest’ultimo è affascinato dalla vasta conoscenza e dalla personalità di Peppino e si lascia presto trascinare nel giro dei suoi eccessi, attratto anche dalla prospettiva di buoni guadagni (Peppino è sul libro paga della Camorra). Da parte sua, Profeta inizia a manifestare attrazione sessuale nei confronti del giovane, che arriverà a un punto critico quando Valerio decide di andare a vivere con lui per lasciare la famiglia. L’incontro con una ragazza di Cremona, che si innamora di Valerio, rovina però i piani di Peppino, che a questo punto è costretto a passare alle minacce per mantenere la presa sull’ingenuo ragazzo. Viene così a crearsi una scomoda e imbarazzante situazione a tre, che Garrone dimostra di saper gestire bene in quello che è pure uno dei suoi primi, e forse più imperfetti, lavori.

Primo amore

La volontà di possesso dell’altro torna quindi protagonista nel film successivo, Primo amore. Vitaliano Trevisan interpreta il “cacciatore di anoressiche”, quel Marco Mariolini che, dopo aver dedicato un libro alla sua singolare perversione, uccise la compagna a colpi di coltello. Mariolini, mostrandosi in un’intervista per la trasmissione Storie maledette con il volto barbuto rasato per metà a professare la doppia faccia della natura umana, incarna lo stereotipo del mostro celato sotto l’uomo qualunque. In Primo amore la bilancia del controllo ossessivo pende verso Vittorio, il personaggio interpretato da Trevisan, un artigiano alla ricerca costante di un suo ideale di donna: attraente, affabile ma soprattutto scheletrica. Vittorio è ossessionato dall’unione perfetta di corpo e testa: ma se ad esserci è solo la “testa”, sul corpo si può lavorare. Inizia così a tormentare la nuova compagna Sonia (Michela Cescon) al fine di convincerla a digiunare per dimagrire fino alla sua soglia ideale. La donna inizialmente, per affetto nei confronti dell’uomo, è soddisfatta della perdita di peso e si vede effettivamente più bella. Ma presto arriva a un limite oltre il quale ne va della sua salute e la fame vince sull’amore; Vittorio inizialmente non le vieta di mangiare, ma sfoga su di lei la propria ira e la tortura psicologicamente in scene tra le più pesanti di tutto il cinema di Garrone. Come gesto estremo, la donna arriva a rubare piatti dalla cucina di un ristorante, sceneggiata che porta Vittorio a sgridarla violentemente, proibendole infine di lasciarlo nonostante le sue suppliche.

L’amore è significativamente parte del titolo di uno dei film di Garrone più difficili da digerire: come ne L’imbalsamatore, anche qui il macabro fatto di cronaca diventa pretesto per raccontare un legame morboso in cui la vittima si lascia un primo momento trascinare. Non si può dire che la storia tra Sonia e Vittoria non abbia una sua consistenza; Garrone vuole farci scorgere qualcosa che va al di là della perversione e anche qui il mostro ha dei momenti di umanità, che contribuiscono a rendere l’idea di un inganno, di una trappola per creature più deboli, suscettibili a volontà anche bizzarre. Così come nel finale de L’imbalsamatore, anche qui la conclusione precipita rapidamente verso la tragedia: il soggiogato si libera dell’orco, uccidendolo. Questo è infine anche il punto di arrivo della trama di Dogman, film che si inserisce perfettamente in questa ideale trilogia che potremmo definire del possesso, o della sottomissione a seconda del punto di vista: il debole, il personaggio a cui dà volto Marcello Fonte, supera la propria soglia di sopportazione e prende l’iniziativa di vendicarsi dell’uomo che lo ha fatto imprigionare, allontanandolo dalla figlia e rendendolo il reietto del quartiere. Garrone limita la dose di sangue al minimo necessario, tralasciando i cruenti dettagli dell’omicidio del vero canaro; la vendetta è cruda ma rapida e avviene nei minuti finali del film.

Dogman

Un filo rosso sembra dunque legare assieme queste tre pellicole: la presenza della figura dell’orco e quella della vittima prigioniera. Terminologia fiabesca a parte, si tratta di categorie che oggi potremmo definire mediatiche, ovvero eredità del lessico di quella cronaca nera dalla quale non a caso Garrone ama attingere abbondantemente. Ben venga però un cinema, come appunto il suo, in grado di reinterpretare le nere sfaccettature della quotidianità in una suggestiva chiave cinematografica, fatta di momenti di intensità drammatica e di non banali scelte registiche (l’utilizzo di campi medi e lunghi nei quali lasciare la figura umana può considerarsi un tutt’uno con lo scenario circostante, oppure soggettive particolarmente efficaci in questo genere di film), con il sostegno di interpretazioni efficaci e brutali e di un’immagine studiata eppure sporca, raffigurante un degrado che caratterizza assieme il contesto e la dimensione morale dei personaggi. Ma Garrone non sembra interessato a voler suscitare un giudizio, quanto piuttosto a dissezionare la psicologia dei suoi personaggi, a metterne a nudo l’ambiguità fino al momento risolutivo, alla liberazione da un male che però, bisogna guardare i suoi film per crederci, non evoca la genuina catarsi che ci si aspetterebbe. Il male perde, ma il bene manca all’appello.

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