Per una lettura di Paolo Nori: il detto oltre il narrato

Dopo “Le cose non sono le cose” e “Bassotuba non c’è”, “Spinoza” è il titolo del terzo romanzo di Paolo Nori, recentemente ristampato dalla Marcos y Marcos

Chiara Mammarella
La Caduta 2016–18

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“Che io, lo capisco, che può sembrar strano, che uno dia tanta importanza al nulla della sua vita da scriverci sopra non un romanzo, diversi romanzi, solo che io, mi dispiaceva, ero un po’ fatto così. […] Son cose piccole, uno nasce, uno muore, son cose piccole, ma per me sono quelle, le cose che me le sarei ricordate, perché fanno male”.

È a partire da queste piccole cose che prendono corpo e vita le pagine di Spinoza, terzo romanzo di Paolo Nori, edito per la seconda volta dalla Marcos y Marcos, dopo la prima pubblicazione per la Einaudi stile libero risalente al 2000. Il romanzo, presentato da un’interessante illustrazione di Mauro Cicarè in copertina, lungi dal presentarsi come una mera ristampa del “primo Spinoza” riporta numerosi cambiamenti rispetto a quest’ultimo, data la forte esigenza da parte dell’autore, dallo stesso sottolineata, di rimaneggiarlo in maniera consistente.

Il romanzo tratta delle vicende di Learco Ferrari, voce narrante del racconto, e, in particolar modo, del suo complesso quanto altalenante rapporto con la scrittura, a partire dal suo inizio. Ai numerosi personaggi nei quali ci si imbatte nel corso della non del tutto cronologica narrazione si aggiunge la presenza piuttosto ricorrente dell’ipotetica voce alla quale spesso il protagonista si rivolge in assenza di interlocutori esterni, al fine di spiegarle il perché di avvenimenti improbabili e del tutto contingenti della vita, o per rispondere, mortificandola, alle sue fastidiose quanto insinuanti obiezioni.

Continuando a scorrere le pagine di Nori si ha come sempre più l’impressione che non esista un’effettiva distanza, uno iato profondo a separare scritto e vissuto. Il protagonista, sorta di alter ego dello stesso autore, catapulta il lettore direttamente all'interno del vertiginoso e quanto mai estenuante processo che porta alla finale realizzazione dell’obiettivo della pubblicazione. In tal modo non sembra più possibile individuare una ben definita cesura fra il libro in sé ed i suoi contenuti, e questo per la progressiva fusione che va realizzandosi fra i due. Ogni tentativo di separare e distinguere il libro dalla materia narrata viene irrimediabilmente a cadere per il fatto che la storia riportata dal romanzo coincide esattamente con quella della sua formazione[1], nel suo articolato e complesso rapporto tanto con l’autore quanto con il mondo dell’editoria e del pubblico.

Come in una sorta di Synecdoche, New York, la più autentica forma che la rappresentazione — teatrale o letteraria che si voglia — sembra destinata ad assumere è quella della auto-rappresentazione, in cui vicende, personaggi e contesti non possono far altro che riproporre, più o meno fedelmente, il vissuto autoriale.

Altro aspetto interessante del romanzo di Nori va ravvisato nel fatto che, oltre alle particolari vicende riguardanti in prima persona il protagonista del racconto, viene presentato al lettore, seppur non esplicitamente, lo spaccato di una società — la nostra — ricostruibile in tutti i suoi devianti malfunzionamenti, attraverso la fitta rete di elementi disseminati nel corso della narrazione. La voce di Learco Ferrari, lungi dall'esprimere le sole proprie individuali problematiche, sembra dar voce a quell'intero precariato intellettuale incapace di trovare nell'ambiente culturale circostante l’adeguato medium attraverso cui veicolare le proprie produzioni. I confusi ma brillanti monologhi del protagonista fanno percepire tangibilmente la difficoltà ad interagire con una realtà che saluta la nascita dei ragazzi-azienda, che accelera vertiginosamente i ritmi della vita e in cui l’occupazione lavorativa stessa, da oggetto di emancipazione per l’uomo, si fa sempre più soggetto divorante individui alienati. Il confronto con queste dimensioni suscita in Learco Ferrari, aspirante scrittore, costretto per vivere a tradurre manuali e fare il magazziniere per qualche ora al giorno, flussi interi di riflessioni che lo portano ad assumere delle vesti di sveviana memoria. In questi panni anche il tanto atteso ed anelato momento di vedere finalmente riconosciuti ed avvalorati i proprio sforzi sembra non far altro che alimentare il proprio senso di disorientamento o, addirittura, inettitudine. Paradossalmente, è proprio in questo quasi epifanico momento di auto-realizzazione che il senso di disagio, anziché diminuire, si fa avvertire ancor più intensamente; se prima si poteva infatti contare almeno sulla consapevolezza ̶ e dunque sicurezza ̶ di quelli che erano la propria posizione ed il proprio ruolo all’interno di un contesto del tutto avverso, ora anche questa unica certezza viene irrevocabilmente a mancare, mentre l’idea della propria auto-definizione richiede a gran voce di essere rinnovata.

In occasione della seconda pubblicazione del romanzo è stato aggiunto in appendice Le agenzie ippiche, che è il primo di dieci discorsi pubblicati da Quodlibet nel 2008 sotto il titolo di Pubblici discorsi. Che cosa c’entri tutto questo con Spinoza si riserva al futuro lettore di scoprirlo.

[1] Non si vuole qui restrittivamente intendere la formazione di Spinoza in particolare quanto, più in generale, quella del Libro (delle varie opere di Nori) e, conseguentemente, del suo rapporto con l’autore.

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