Primi piani di una società al margine: A Ciambra

Lo sguardo di un giovane cineasta puntato sulla comunità rom di Gioia Tauro: un insolito ritratto di una tra le più povere periferie italiane

Michele Bellantuono
La Caduta 2016–18

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Eravamo liberi, senza padroni. Eravamo liberi, non dovevamo niente a nessuno. Eravamo liberi e andavamo sempre in giro. E adesso invece siamo qua. Ricordati. Siamo noi contro il mondo.

Quando il marzo scorso il giovane regista Jonas Carpignano, newyorkese di nascita ma di origine italiana e afroamericana, è salito sul palco dei David di Donatello per ringraziare la comunità zingara di Gioia Tauro, si è verificata una circostanza piuttosto insolita, considerato il contesto (l’importante cerimonia dedicata ai cosiddetti Oscar italiani). Il fatto che Carpignano si sia spinto a dedicare il prestigioso riconoscimento anche ai rom della degradata località calabrese porta con sé una sorta di doppio significato. In primo luogo, più superficialmente, questo atto significa compiere una manifestazione d’affetto e d’amicizia verso una comunità emarginata che il regista ha voluto conoscere di persona: Carpignano è residente nella provincia di Reggio Calabria da oltre sette anni e, come risulta evidente dalle sue spiegazioni in diverse interviste, in questo degradato angolo del Meridione Carpignano si è integrato davvero bene, stringendo speciali legami (certamente anche affettivi) con gli abitanti delle periferie, di quegli insediamenti ai margini della società che già il regista aveva raccontato nel suo lungometraggio d’esordio, Mediterranea (intenso racconto che ricostruisce i fatti di Rosarno avvenuti nel 2010, quando a seguito del ferimento di due immigrati africani si è scatenato uno scontro tra comunità africana, polizia e residenti).

Il regista italo-americano Jonas Carpignano

Il ringraziamento agli zingari della Ciambra, zona periferica del comune di Gioia Tauro, ha però una seconda importante valenza: esso, accompagnato alla pellicola di Carpignano, assume i toni di una sorta di grido “d’autore” che sembra proclamare a gran voce l’avvio di una rinnovata (contro)corrente del cinema italiano, della quale il film premiato ai David, A Ciambra, costituisce un fresco esempio. Parliamoci chiaro: che la sensibilità sociale dei cineasti sia una preziosa chiave per accedere ai podi di piccoli e grandi festival cinematografici è noto e confermato; l’italiano Gianfranco Rosi (per fare un nome oggi abbastanza noto tra i tanti autori di docu-film “impegnati”) è un fortunato esempio di questa tendenza, con ben due riconoscimenti (il Leone d’oro per Sacro GRA nel 2013, l’Orso d’oro per Fuocoammare nel 2016) in importanti festival internazionali assegnati a pellicole che vedono l’utilizzo del mezzo cinematografico al fine di raccontare realtà emarginate e discriminate, oppure complesse dinamiche come quelle innescate dal fenomeno dell’immigrazione nel sud Italia.

Certo anche A Ciambra di Carpignano può essere incluso in questa categoria di film; dalla questione dell’immigrazione affrontato in Mediterranea si passa all’indagine di un’altra problematica realtà di molte periferie italiane: quella delle famiglie rom e dei fenomeni di microcriminalità legati ad esse. Il regista racconta le tante difficoltà degli zingari, osservando senza filtri e soprattutto senza una retorica di fondo, elemento quest’ultimo che permette di tracciare una linea di confine piuttosto netta tra questo film e altre opere a tema sociale. Carpignano non compie alcuna inchiesta e non impone allo spettatore uno specifico punto di vista: la sua cinepresa mostra frammenti di quotidianità, inserendosi come un ospite invisibile nelle case e nelle vite degli zingari di Gioia Tauro. Dagli atti di piccola criminalità ai vivaci pranzi in famiglia, il film non si allontana mai da questi personaggi, inquadrandoli in primo piano e inseguendoli sempre a breve distanza: Carpignano ha dichiarato di voler far sentire lo spettatore proprio in mezzo a questi personaggi, la stessa gente con la quale lui ha fraternizzato dopo essere stato derubato (pare che proprio il furto della sua automobile e dell’attrezzatura abbia spinto Carpignano a formulare il progetto di questo film).

In realtà un punto di vista nel film è comunque presente, ovvero quello del protagonista, dal quale la macchina da presa sembra non staccarsi mai: l’adolescente Pio Amato, interprete di se stesso proprio come nella tradizione di quel neorealismo all’italiana che qui sembra essere efficacemente rievocato in chiave contemporanea. La trama di A Ciambra dipende tutta da Pio, dai suoi spostamenti a cavallo di un motorino che non potrebbe guidare, oppure in automobili rubate da riconsegnare ai proprietari nel cuore della notte. Sigaretta in bocca, sguardo torvo e determinato, nessun pelo sulla lingua. Pio è un personaggio tanto carismatico e “cinematografico” che per alcuni attimi potremmo dimenticare il fatto che in realtà non sia un vero attore, così come non lo sono i suoi parenti e amici che lo affiancano nel corso del film. L’autenticità del racconto è in A Ciambra sempre virata in funzione cinematografica; il contesto della storia richiama necessariamente tematiche da docu-film, ma in verità la storia raccontata riesce persino nell’intento di intrattenere. L’adozione di un punto di vista peculiare e dinamico come quello di Pino trascina lo spettatore in una sorta di montagna russa della delinquenza minorile, che ha permesso all’autore di ottenere dal pubblico reazioni emotive diverse da quelle che ci saremmo aspettati dalla visione di un film (ad esempio d’inchiesta) girato all’interno di una autentica comunità rom.

A Carpignano sembra interessare proprio questo girare liberamente tra gli zingari con la cinepresa in spalla, osservandone gesti quotidiani e attività più e meno lecite, senza mai uscire dal ruolo di osservatore imparziale che il regista si è voluto imporre. In merito a questo punto, Carpignano ha esplicitato in varie interviste che il fulcro del suo film è proprio Pio, ogni cosa ruota necessariamente attorno a lui e alle sue scelte: in base a queste ultime, ben rappresentate nella pellicola, lo spettatore può quindi formulare un proprio giudizio sul personaggio. Siamo dunque davvero molto lontani dalla sensibilità documentaristica o da qualunque formato audiovisivo di stampo giornalistico: A Ciambra costituisce un ottimo esempio di come si possano raccontare temi socialmente impegnati e realtà complesse, come quella della degradata periferia di Gioia Tauro, attraverso una storia di per sé coinvolgente, capace di proiettarci dentro un contesto a noi estraneo.

Il film riesce nell’intento di farci sentire il peso delle scelte che il giovane Pio è costretto a prendere per sopravvivere e crescere in quel difficile mondo che il regista pone davanti ai nostri occhi in ogni suo dettaglio. Non si punta il dito contro alcun colpevole e non si eleggono modelli. La morale è del tutto secondaria, mentre l’immediatezza delle azioni dei protagonisti e la cruda realtà della Ciambra sono sempre in primo piano. Carpignano è dunque, forse, un neo-neorealista del terzo millennio? Si potrebbe azzardare questa definizione “retrograda”. Resta il fatto che, al di là di ogni definizione, si possa comunque riconoscere che questo A Ciambra, realizzato tra l’altro con l’ausilio di un produttore d’eccezione come Martin Scorsese, meriti davvero i premi e riconoscimenti che ha ricevuto nei festival internazionali: forse è proprio su questo cinema che l’Italia dovrebbe puntare, su racconti di margini e periferie che da tempo stiamo affrontando secondo schemi rigidi e anonimi, senza tentare quell’approccio sensibile (e artistico) che contraddistingue una ben costruita opera cinematografica.

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