Psycho del Professor Bad Trip è la rappresentazione della paranoia pre-internet

Eris edizioni ha da poco deciso di ristampare tutta l’opera del Professor Bad Trip, ripartendo da Psycho

Andrea Capodimonte
La Caduta 2016–18

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Lo scorso Aprile sono stato al Ratatà, a Macerata, che tra le tante belle cose da vedere/fare dava spazio alle opere del Professor Bad Trip, nome d’arte di Gianluca Lerici. Di lui sapevo poco niente; le sue illustrazioni le avevo viste, e mi avevano colpito, sulle copertine dei libri di Ammaniti per la Mondadori. Sapevo anche, forse perché me lo aveva detto qualcuno, che il Professor Bad Trip faceva parte di quella grandissima etichetta identificativa che è stata l’underground. La mostra era in suo onore perché purtroppo un malore lo ha portato via prima del tempo, nel 2006. Quel cromatismo acido, quella sorta di orrore ultra-pop, violento e allucinato, quasi addormentato, in un immaginario poco lontano, di quando ancora si immaginava il futuro; le figure rappresentate, deformi, che sembrano appartenere a mondi paranoici, bruciate dagli acidi, semivive tra i cavi di connessione, che viaggiano su navi spaziali, che convivono sotto l’onnipresente occhio degli illuminati; gli abitanti dei pianeti totalmente industrializzati sono mutanti che come in Videodrome di Cronenberg hanno subito un’ibridazione del loro corpo con la tecnologia, come in un mondo post-apocalittico, ma senza l’esplosione di un’apocalisse.

Il Professor Bad Trip, oltre alle collaborazione con la galassia di Luther Blisset, disegnerà tantissime copertine per la rivista milanese Decoder, che si poneva come rivista cyberpunk, stampata dal 1986 al 1999. Le riflessioni della rivista erano incentrate principalmente sull'utilizzo sociale delle nuove tecnologie, quali i computer e quindi internet. Sintetizzando potremmo dire che la rivista nasce dalle intuizioni di Burroughs, che con i suoi cut-up tentava di spiegare come si inserissero messaggi subliminali nelle produzioni cinematografiche e musicali. La rivista nasceva con lo scopo di unire sotto la stessa finalità sociale tutti quegli hacker che, prima del tempo, si erano avvicinati alle potenzialita della Rete. In un’intervista a Wau Holland, uno tra i fondatori del Chaos Computer Club di Amburgo, intervistato da Ermanno “Gomma” Guarnieri, esponente di Decoder, disse:

E nacque così la pratica dell’hacking che definirei come quella pratica che ti permette di essere dentro una situazione appena questa accade e di poter da questa creare nuovi significati.
Gli strumenti che ti permettono di fare queste cose sono tecnologici, e già me ne resi conto quando andavo a scuola ed ero coinvolto nel movimento. Una volta volevamo incastrare un professore che faceva dei discorsi fascisti, allora mi portai un grosso registratore (all’epoca quelli portatili erano enormi), lo misi sotto il banco e riuscii a registrare le sue parole. Avevamo lì la prova di quello che diceva, potevamo buttargliela in faccia: “Hey, tu hai detto queste cose!”. Si vede quindi come anche un registratore possa diventare una macchina di potere. Tutto ciò che registra e copia può diventare una macchina di potere, prova a pensare a quello che potrebbe succedere se durante un’occupazione dell’Università venissero trovati dagli studenti degli studi su delle applicazioni militari e che questi fossero copiati e distribuiti in tutto il paese… non solo nessun militare potrebbe negare la loro esistenza ed il loro scopo ma anche la tecnologia utilizzata potrebbe diventare di dominio ed uso pubblico.

Decoder si fece continuatrice di tutti quei movimenti della controcultura del secondo ‘900, dagli hippy alla rivoluzione psicheledica, da i The Fugs di New York alla City Lights bookstore di San Francisco, dalle riviste underground di Londra alla milanese Re Nudo e al movimento del ’77. Proprio dei movimenti degli anni ’70, la redazione in un articolo sottolineava come, «Pur non volendo qui entrare nello specifico dei “situazionisti”, è doveroso ricordare che questa è stata probabilmente la più intelligente frangia del “movimento” degli anni Sessanta, nata come corrente di critica artistica, ma che si proponeva come obiettivo generale di “creare situazioni” che servissero a smascherare i meccanismi di oppressione della società. […]. Proprio per il rapporto rivoluzionario nei confronti dei media: lo scopo del buon situazionista è infatti quello di rovesciare il senso complessivo dei mezzi di comunicazione», riferendosi al movimento creatosi intorno a Radio Alice e ad A/traverso (di cui segnalo un bel libro uscito quest’anno, dell’amico Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto, che si propone di indagare quale impatto ebbero le teorie di Bifo e Negri).

Psycho, ristampato da poco da Eris Edizioni, è un‘opera che viene da questo mondo, che non c’è più; internet non si era ancora diffuso, il concetto di nerd era qualcosa che non apparteneva alle masse, c’erano solo gli hacker, che facevano paura; Bad Trip li frequentava, perché questi stessi hacker frequentavano i centri sociali, ma lui non amava la tecnologia, anzi, la odiava. La sua attitudine è stata fino alla fine quella di un antagonista, un vero e proprio punk. Da una sua lettera:

Ho continuato a seguire e consumare le robe punk più politiche, tipo Alternative Tentacles, la casa discografica gestita da Jello Biafra dei Dead Kennedys, e anche altri generi musicali, garage punk, noise, industrial, elettronica e sperimentale. Nonostante abbia un archivio musicale in vinile di varie migliaia di dischi, i miei preferiti rimangono: il primo dei Fear, il primo dei Germs, il primo dei Circle Jerks, tutti i dischi di Black Flag, Dead Kennedys, DOA e ovviamente il primo Ep 7 pollici dei Fall Out. Ogni tanto, due o tre volte all’anno, quando Jena, la mia compagna scultrice, non è in casa, me li sparo uno in fila all’altro con la manopola dell’amplificatore a volume lancinante, e faccio tremare per un paio d’ore le mura del palazzo del condominio dove abitiamo. Nessuno dei nostri vicini borghesi è mai venuto a protestare: hanno paura di me, sanno che sono punk e vengo dal Canaletto

Dicevo che l’artista ci ha lasciato proprio nel momento in cui stava per esplodere la diffusione di massa delle teorie complottistiche che, rafforzate dalla caduta delle torri gemelle, diventano una paranoica costante in una qualsiasi discussione, in qualsiasi luogo del paese. La televisione italiana dal 2002 la istituzionalizza con programmi come Voyager, che parlavano di cerchi nel grano, profezie, misteri maya, contatti ufo e sostanzialmente ogni tipo di pseudoscienze. Classico di ogni stagione televisiva di questo spettacolo sul complotto era il mistero di Roswell, zona del Nuovo Messico in cui il mito vuole che sia caduta una nave spaziale con a bordo degli alieni, che furono poi sezionati e la cui autopsia fu filmata ed erroneamente diffusa al pubblico. Naturalmente tutto questo era un mito volutamente creato, che ha oggi l’effetto di aver trasformato l’area 51 in una meta turistica, sebbene nell’area 51 non sia mai successo niente (vedi qui, ad esempio). Tutte queste erano credenze diffuse, ma mancava un testo di riferimento, qualcosa che circolasse fuori dalle strade istituzionali e che si spingesse appena appena più in là. Mancava Zeitgeist. Chi parla ha vissuto gli anni dell’adolescenza parallelamente alla diffusione di internet nelle case. La televisione stessa ci diceva ogni giorno che la televisione era controllata da un unico uomo, che vivevamo sotto una dittatura mediatica. Internet era l’alternativa agli spettacoli satirici su Berlusconi, si spingeva oltre, arrivava a me ragazzino, mi diceva la verità. Ricordo di aver visto il documentario nell'adolescenza, quindi intorno al 2007. Alcuni miei amici l’avevano preso come una vera e propria bibbia. Le nostre vite erano determinate, non da esseri superiori, ma da esseri umani come noi, ma più ricchi e più malvagi, che attraverso i media comuni ci facevano il lavaggio del cervello. Ricordo che organizzammo delle cene a casa di un nostro amico che aveva un bel soppalco, per poi vederci tutti insieme il documentario e così discutere su quelle teorie ancora più misteriose di Voyager. Non era d'altronde la prima volta che ci affidavamo ad internet come una fonte attendibile; sempre dalla rete, molto prima del 2007, avevamo trovato delle pseudo indicazioni per effettuare una seduta spiritica, con la tavola Ouija, che era possibile costruirsi o acquistare online. Zeitgeist era convincente perché trattava delle semplici supposizioni con modo scientifico, dissimulando autorità per quelle teorie alternative. Raccontava che l’undici Settembre era un avvenimento inventato, che la religione era falsa, che Gesù non era mai esistito. Finito Zeitgeist volevamo altri racconti del complotto e allora andavamo avanti su Youtube. Ce n’erano a bizzeffe, spesso si incrociavano storie di Ufo, di signoraggio bancario, di Rettiliani, per poi arrivare quasi sempre agli illuminati. Leggendo le pagine di Psycho ho come l’impressione di fare un tuffo indietro, di tornare lì, di rivedere quel timore per il progresso tecnologico, esasperato fino alla distopia. Zeitgeist non ha inventato niente, ha solo fissato quelle paure in teorie sul più potente mezzo di propaganda dei primi anni del XXI secolo.

Psycho del Professor Bad Trip è l’espressione di quell’incubo pre-internet, che da lì a poco si sarebbe depotenziato con la diffusione nelle grandi masse. Tutto l’immaginario che va da Huxley a Orwell, da Baudrillard a Dick, traendo la forza allucinante da Burrougs, confluisce nel forma e nella sostanza dell’opera di Lerici.
La paranoia è il fulcro di tutto Psycho. Ovunque occhi e telecamere, ciclopi e robot. I personaggi sono dei drogati, ma la droga è la norma, lo stesso oggetto della ricerca è pur sempre la droga; ogni tipo di spiegazione ulteriore viene rappresentata con un blablabla, non c’è tempo per le chiacchiere, c’è bisogno di azione, ma azione immobile, immaginativa, c’è bisogna di mutazioni di forma, di trasfigurazioni, di viaggi lisergici. La città è totalmente industrializzata, non ci sono spazi vuoti, tutto è occupato, i fili controllano le persone, e quando non ci arrivano i fili ci sono dei macchinari appositi per il controllo della mente, come delle tapes da ascoltare per farsi dominare e determinare. Gli stessi esseri umani sono come cibo industriale; si viene al mondo solo per diventare cibo di piante sacre che producono a loro volta altre tapes per controllare la mente delle persone. Su tutto aleggia un meccanismo industriale estremamente perverso, razionalmente irrazionale. L’avventura nemmeno finisce. Siamo in un mondo alla fine, che ha perso completamente il senso, ma che è allo stesso tempo incredibilmente vitale.

Il volume si apre proprio con l’occhio degli illuminati, che era molto diffuso nella cultura pop di fine anni ’90.

Come ha ricostruito Raffaele Alberto Ventura in un suo articolo:

Se Internet ha accelerato la circolazione di queste teorie, il tema del complotto aveva iniziato ad affiorare sottotraccia nella cultura hip hop fin dalla metà degli anni Novanta. Nello stesso periodo in cui la serie televisiva X Files propagava la paranoia in tutto l’Occidente (e mentre i politologi tentavano effettivamente di definire quel “Nuovo Ordine Mondiale” sorto dalle ceneri dell’Unione Sovietica) i membri del Wu Tang Clan denunciavano in un’intervista un progetto “massonico” che prevedeva tra le altre cose d’impiantare dei microchip nei neonati, mentre l’ultimo disco registrato da Tupac Shakur poco prima della sua morte, Don Killuminati, è pieno di riferimenti esoterici e di accuse contro l’establishment. Ma quella era solo l’inizio di un’epidemia ideologica che nei vent’anni successiva si sarebbe diffusa

L’intera storia, in cui Psycho è il protagonista e detective, è un susseguirsi di tavole che mettono in mostra occhi e lavaggio del cervello, in cui i rapporti di potere sono completamente sbilanciati. La lingua in cui si esprimono i personaggi è una continua attività di creazione di neologismi, formando neo costrutti spesso dall’unione di parole del quotidiano con termini come tekno, o mikro, parole che prefigurano un cambiamento della lingua, che però, in internet, diventerà solo il modo di esprimersi dei cosiddetti bimbiminkia. In ogni tavola sono disegnati occhi, ciclopi, telecamere, oggetti dotati di visi che scrutano. A capo di tutto c’è il tekno-papa, che porta una papalina con su sopra stampato il triangolo con occhio all’interno, il simbolo degli illuminati. Psycho nel mezzo della ricerca si concede a delle prostitute-robot, come in una classica storia hard-boiled, ma pariodizzata. La narrazione non vuole esporre una trama, vuole rappresentare un immaginario, vuole essere una non-storia, diventando la stupefacente rappresentazione della visione di un mondo che da lì a poco sarebbe cambiato irreversibilmente. Come scrive Vittorio Baroni nell’introduzione al volume di Eris Edizioni, «internet azzera le distanze tra overground e underground e di fatto neutralizza il ruolo antagonista tradizionalmente svolto da tribù».

PS: Questa è una ristampa necessaria, che è meglio non farsi scappare, quindi recuperatela il prima possibile.

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