Qualcuno trasmutava i metalli

Recensiamo, di ritorno dal viaggio di Ferragosto, Il “Viaggio nell’Ermetismo del Rinascimento” di Francesca Cortesi Bosco, edito da Poligrafo — il libro dell’estate

Pier Francesco Corvino
La Caduta 2016–18

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Molte fatidiche domande assillano l’uomo comune. Se le disponiamo su uno spettro possiamo individuare una stringa che va, all’incirca, dal problema del fondamento del tutto, allo spot della ING Direct di qualche anno fa (il noto Conto Arancio). Nel mezzo, a calare, potrebbe starci una domanda del tipo: che cos’è una “lettura da ombrellone”? Una risposta sui generis sosterrebbe che una lettura da ombrellone è una lettura che si lascia leggere, pacifica — e noi, che non vogliamo peccare di accidia, ci atterremo a questa definizione.

E allora, è forse una lettura da ombrellone il Viaggio nell’Ermetismo del Rinascimento di Francesca Cortesi Bosco? Si e no, o meglio, no e si.

“Melencolia I”, Albrecht Dürer

Uscito oramai da diversi mesi, per i tipi de Il Poligrafo, in un’edizione, per altro pregevolissima, il Viaggio è un lavoro severo e meticoloso, di ricerca, sorretto da una sottile speculazione e veicolato da un’esposizione asciutta e distesa. Il Viaggio è, in prima istanza, una monografia di storia dell’arte, tanto più apprezzabile quando sceglie di non abbandonarsi ad una descrizione compiaciuta delle opere. Ma anzi queste stesse opere le indaga, le confronta e le vìola teneramente, con l’occhio impietoso dello storico e l’accortezza dell’artista. Si comprenderanno meglio, poi, la difficoltà di un’impostazione simile, quando sui bordi delle opere di cui sopra si scorgeranno tre grandi firme: Lotto, Dürer e Giorgione.

Questo trio iconico è, infatti, il fulcro di tutto il volume, attraverso la loro novità e le loro scuole; un fulcro capace di costituire una silloge dell’ermetismo nel Rinascimento. L’autrice ci introduce alle prove della frequentazione ermetica di tutti e tre i nostri, collegando le rappresentazioni artistiche a concetti strettamente filosofici, dalla quinta essenza alchemico-ermetica, all’intelligentia aristotelica, passando per la tradizione romana dell’inventio. Del valore intrinseco a questi tre autori, e pure della cifra ermetica della loro opera, non bastasse la parola autorevole della Cortesi Bosco, ne parlarono e ne parlano molti: da Panofsky a Edgar Wind, dai nostri Vailati e Garin, per citarne solo alcuni.

- Ma allora, scusi lei, quale sarebbe la lettura da ombrellone? E poi cos’è ‘sto ermetismo? C’entra con Ungaretti?

Eh, caro lei, la lettura da ombrellone è proprio questa, fa bene lei a richiamarmi all’ordine, che io divago. E allora, che cos’è ermetismo. Dicasi Ermetismo l’insieme delle dottrine e dei riti istituiti dal leggendario Ermete Trismegisto, personaggio tardo antico, presumibilmente egiziano, le cui dottrine conobbero una notevolissima diffusione, dovuta anche alla velocissima commistione che queste stesse ebbero con altre correnti di pensiero, quali il Neoplatonismo ed addirittura il Cristianesimo. L’ermetismo che dice lei è cosa del novecento, qui siamo molto più addietro nel tempo. Ma non credo suoni ancora nessun campanello.

- No, infatti.

E allora diciamo che cos’è Rinascimento. Rinascimento è un fenomeno tutto italiano, o che almeno nasce qui in Italia, di ri-fioritura delle arti e delle lettere, accompagnato dal recupero degli antichi, delle loro dottrine e del loro modo di vivere. Vivere a mo’ degli antichi, Cattolicesimo permettendo, volveva dire, semplificando molto, tornare a discutere delle cose di quaggiù e di quelle di lassù, come se fossero una cosa sola, come se fossero strettamente interconnesse o, per usare un termine più specialistico, significava tornare a parlare in termini di immanentismo.

“L’incantesimo”, William Fettes Douglas

- Molto interessante, ma qui si parlava di letture da ombrellone.

Giustamente sì. Guardi, lei che legge le riviste on-line, evidentemente di ferie, magari pagate, ne avrà. Allora le consiglio un’altra lettura, con cui capirà meglio tutto. Prenda un libro, a caso, anche consunto, della Rocco Carabba Editore, di quelli che recitano ancora in copertina “Cultura dell’Anima”. Perché vede, caro lei, che questa cultura non dev’essere intesa soltanto in senso stupido, blando, vago e ambiguo; che significa cultura? Tutto e niente, l’insieme dei mores senza discuterne in profondità, oppure montagna di nozioni, gran cultura sì, ma tutto vago. No, cultura qui sta ad indicare il còlere, la coltura dell’animo, il fatto che esso vada coltivato. Ed è qui che casca l’asino, caro lei. Perché, in tempi di anti-vax e omeopatia, è giusto che si torni a dire che la storia della scienza è tanto lunga e variegata.

- Lei vaneggia.

No, non ancora perlomeno, mi segua. Diciamo, per il momento, che di medicine, in epoca di rinascimento, ce n’erano due. Una molto giovane, l’altra molto antica. La prima era il feto ancora prematuro della rivoluzione scientifica, che si avviava sulla scorta del naturalismo di un Francis Bacon al metodo scientifico. L’altro era l’anziano metodo alchemico, e di questo dovremo parlare.

- Andiamo bene.

Capirà, vedrà; anche perché ora, le propino l’ultimo nozionistico boccone amaro. L’alchimia oggi è poco più dell’eco di una superstizione, eppure essa è stata qualcosa di molto serio, che ha svolto un ruolo cruciale nella storia non solo della medicina, ma dell’Occidente. L’alchimia si basava su un concetto filosofico, aristotelico-neoplatonico: l’intelligentia. Diciamo, che se il mondo è tutto qui, davanti a noi, dev’essere diviso per ordini. L’ordine più alto, ha il controllo su quello più basso ed il resto va da sé, come un gioco: l’intelligentia era la capacità di comprendere come funzionassero queste cause prime, di mettersi in contatto con esse, assumendo il loro “punto di vista”. Ecco, allora, l’alchimista è colui che segue questa regola, che cerca di inserirsi nell’ordine naturale attraverso la trasmutazione dei metalli, conscio che Dio ha reso l’essere umano, il suo animale prediletto, capace di iscriversi nell’ordine delle cause.

A differenza di quello che sembra, una simile ambizione poteva essere a norma; faceva parte cioè del corredo intellettuale (del cursus) di certi studiosi, o per meglio dire, di certi umanisti, i quali cercavano di indagare tutto lo scibile umano. L’ermetismo era per loro una sorta di passpartout; esso offriva una vasta gamma di dottrine e di riti che lo inscrivevano direttamente in questo ordine cosmico, in cui lui stesso poteva partecipare: si trattava "soltanto" di coltivare l’anima, di renderla capace di accogliere l’intelligentia.

- Io credevo che lei stesse recensendo un libro.

Ci arriviamo, proprio ora. Che cosa riscopre il Viaggio nell’ermetismo del Rinascimento? Riscopre questa dimensione di Cultura dell’Anima, una pratica, uno state-of-mind, che poteva essere proprio di tutti. Certo gli artisti non erano mai, come spesso non lo sono neanche oggi, soltanto artisti, nel senso di “tecnici”. Più spesso, essi erano intellettuali a tutto tondo, che nelle loro opere esibivano una conoscenza profonda di tutto lo scibile. Eppure, essi erano anche qualcos’altro: essi erano la testimonianza, ed il veicolo, che la cultura dell’anima era una dimensione di tutta la società rinascimentale. La Cultura dell’Anima era, in questo senso, un atteggiamento virtuoso proprio degli alchimisti e di una stretta cerchia di intellettuali, ma esso poteva diventare, allo stesso modo, edificante. Esso poteva essere trasmesso nel luogo dell’arte, dell’immagine.

Ogni uomo è dotato di anima e, se pur guardando un’opera non tutti possono carpirne le stesse informazioni, tutti possono sperimentare il contatto dell’anima con quella stessa raffigurazione. La raffigurazione di poliedri ideali, della pietra filosofale, dei corpi celesti o di allegorie in generale, la progettazione architettonica o quella affrescale; questo era l’insieme delle pratiche per la Cultura dell’Anima, per tutti. Ed in questo senso se l’alchimia ha oramai dato, traghettando e custodendo la possibilità di una scienza, è pur vero che nel passaggio si è perso questo versante di comunione col cosmos, cioè col tutto ordinato, in funzione di un chirurgico individualismo metodologico, di cui dovremmo però farci carico.

- Guardi, sarà pure come dice lei… e io questo libro lo comprerei pure, però, a parte che del libro mi sembra di non sapere praticamente nulla, in fin dei conti, ma soprattutto, la storia del libro da ombrellone?

Certo, certo. Veda, caro lei, che del libro non si sappia, è cosa sacrosanta, buona e giusta. L’arte, si figuri, si è sempre preoccupata di mostrare prima ancora che di dire; e questo libro, soprattutto, mostra e solo mostrando dice. Dice cose antiche e nuove, tracciando grandi linee, grandi forme, di cui poi dà ragione. Pensi, pensi che privilegio che le viene concesso; invece che perdere ore e ore su grossi tomi polverosi, lei può godere della sapienza di svariate epoche attraverso la partecipazione meravigliata a questo libro, che la accompagna magistralmente in un viaggio fra capolavori. Capolavori con un significato profondo che, come le dicevo, non tutti possono certo arrivare a cogliere fino in fondo. Ma anche lei ancora oggi può meravigliarsene, può goderne: le basta soltanto entrare in comunione con il senso di questo libro; che certo il libro non dice, giacchè è libro di storia dell’arte, ma che mostra! E allora, senza impegno, lei viene accolto e condotto alla conoscenza, fluttuando sulle tele! Che cos’è questa, se non l’apoteosi, del libro da ombrellone?!

- Lei dice eh?

Dico dico.

- Sarà, eppure a me sembra un libro proprio di storia dell’arte, sa, di quelli che ispirano un po’ diffidenza… da addetti ai lavori, ecco.

Certo certo, ma il discorso è semplice: questo è un libro da ombrellone sì e no, dicevamo, no e sì. Ma alla fine di questa piacevole conversazione, lei sa, lei comprende, oramai, che è più sì che no, meno no che sì. No?

- Sì. Più sì, che no. Meno no, che sì.

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