Radio Libera Paranoia: Philip K. Dick, storia del primo apostolo di Valis

Gli ultimi anni di PKD, tra deliri mistici, crisi d’identità ed esegesi.

Giacomo Alessandrini
La Caduta 2016–18

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Una volta svanito l’effetto del Pentothal, in quel mistico pomeriggio del 20 febbraio 1974, Philip incoraggiò Tess, l’allora compagna, a chiamare il dentista per farsi prescrivere e consegnare a domicilio un analgesico orale. Si presentò una strana ragazza, con al collo un ciondolo a forma di pesce. Fu una folgorazione, il segnale che aspettava da tempo. “Cosa rappresenta?” chiese — possiamo immaginarlo con voce tremolante — “È un simbolo utilizzato dai primi cristiani” si sentì rispondere dalla farmacista. Dimenticò tutto, ora e luogo, e si ritrovò per un attimo in un’altra epoca. Un contatto con la Realtà, ultima, indiscreta. Provò la stessa esperienza del signor Tagomi, in quel suo tanto chiacchierato romanzo, La svastica sul sole, dove uno dei protagonisti, alla vista di un gioiello simile, accede per un momento al mondo reale. Un’anamnesi. Forse non siamo nel 1974 ma in lotta contro la persecuzione dei romani, siamo tutti cristiani dormienti al vaglio dell’autorità imperiale. La California, Orange County, la sua vita, forse non sono altro che uno stato mentale imposto dal sorvegliante. La vita, quella vita, è una prova? Come il Ragle Gumm di Tempo fuor di sesto, siamo schiavi recitanti, figli della scena teatrale che sceglie per noi le battute… O siamo morti? Come Joe Chip in Ubik, ed è il Mistero misericordioso quello che tenta di squarciare il velo, nella classica lotta tra bene e male. Le notti successive Dick sperimentò il dubbio, con sogni che, a detta di Emmanuel Carrère nella biografia sull’autore di fantascienza Io sono vivo, voi siete morti, avevano lo scopo di iniziarlo al culto.

“Tre volte al giorno mandava giù manciate di capsule che gli impedivano di dormire e gli facevano balenare davanti agli occhi fasci di fosfeni ininterrotti”.

Sognò centinaia di quadri di Paul Klee, Kandinsky e Picasso, convinto che quelle immagini provenissero, secondo una vorace e paranoide ricerca d’indizi, dal museo di Leningrado. L’Unione Sovietica stava cercando un contatto? Perchè dopo quella visione? Semplice, si disse, come un buon ipocondriaco che sposa la prima ipotesi disastrosa, “la Russia era il nuovo impero romano”. Ma c’era qualcosa, qualcosa non tornava; come erano entrati in contatto con lui? Perché, appunto, lui? Qualche mese prima aveva letto un lunga intervista in tedesco a Stanislaw Lem, lo scrittore di Solaris, il quale aveva espresso parole di profondo apprezzamento per lo scrittore californiano. Tornando sempre alla biografia sopracitata:

Riteneva che l’abisso fra Dick e i suoi colleghi fosse pari soltanto a quello che separa il Dostoevskij di Delitto e Castigo dalla pletora degli autori di romanzi gialli”.

Dimostrò, infine, straordinaria attenzione per un’opera in particolare, Ubik, a suo avviso uno dei romanzi più importanti del secolo. Non finì bene. Dick, stronzo qual era, odiava gli elogi; chiunque avesse avuto il coraggio di avvalorare una sua teoria strampalata o criticare positivamente un lavoro di quel tipo doveva essere un pazzo completo. Seguì una fitta corrispondenza, che Dick interpretò come un “vieni da noi a farti un bel lavaggio del cervello”. Odiava il blocco socialista, per lui era Il Male al pari di Nixon, e non è detto che i “due universi” fossero veramente distanti. Il delirio illuminato lo portò a ripensare la conversione. Da una parte abbiamo quella sulla via di Damasco di San Paolo, che si ripete “non vivo più io, ma Cristo vive in me”, e dall’altra Winston Smith protagonista del 1984 di Orwell, che dopo un’efficace manipolazione non finge più la sottomissione ma “ama il Grande Fratello”. Andando oltre le ovvie differenze, quello che accomuna queste due storie è, da una parte, la violazione di una coscienza umana, dall’altra, la generazione di un nuovo essere alienato: solo ora amando il Cristo o il Grande Fratello sono nel giusto. Per usare ancora una volta le parole di Carrère:

“Prima è lui che ha paura; dopo è un altro che esulta”.

Non esiste più Saulo, l’ebreo persecutore della setta cristiana, non esiste più Winston Smith, la cellula tumorale del SocIng; finalmente c’è pace. Così Dick, cancellando con un colpo di spugna un passato da contestatore, chiamò l’FBI pretendendo di essere ascoltato: la minaccia rossa era concreta.

Si convinse in via definitiva di essere un emissario del Logos dopo aver salvato il figlio da morte certa, un fatto ad oggi curiosamente inspiegabile e affascinante. Nella primavera dello stesso anno l’amato figlioletto Christoper non smetteva di lamentarsi e così, dopo aver ascoltato Strawberry Fields dei Beatles, Philip fu toccato dal divino: “il pediatra aveva sbagliato diagnosi”, gli suggerì la canzone. Il bambino, insistette il padre schizoide, aveva un difetto congenito, un’ernia inguinale destra strozzata; bisognava intervenire con urgenza. Risultò vero, Chris venne operato all’ospedale di Fullerton e stette meglio. Nessuno sapeva spiegarselo, tranne Phil, convinto di essere ormai la reincarnazione di un perseguitato cristiano: Tommaso parlava in lui.

In origine Valisystem A. (1976), è il primo romanzo di Dick a trattare direttamente di Valis.

Avevano ragione Lem e il critico Duvic, Ubik è, al pari della Bibbia e del Libro tibetano dei morti, uno dei libri più importanti del genere umano. Si decise a dare un nome all’entità benevola, stanco di usare “Dio”e altri termini svuotati di significato: lo chiamò V.A.L.I.S. Il Vast Active Living Intelligence System, privo del caro deismo sentimentale, è un nome da software; rappresentava al meglio lo studio che voleva intraprendere. Passò al setaccio in cerca di risposte l’Encyclopaedia Britannica, arrivando a definirsi un cristiano ellenizzato del primo secolo dopo Cristo. Si registrò nelle fasi di dormiveglia, scoprendo di parlare la koinè, una specie di dialetto diffuso nel Medio Oriente in età apostolica. Fu così, in preda ad un terrore senza nome, investito del ruolo di profeta metropolitano, che iniziò a scrivere l’Esegesi.

Il testo rimarrà incompiuto, PKD morirà nel giro di otto anni, solo e stanco, dopo una performance non proprio azzeccata nel 1977 alla convention di Metz, in Francia. Perché? Perché non l’avevano capito, perché era il perfetto anticonformista, quello che se gli davi ragione iniziava a dubitare. Un po’ per scelta, un po’ per un colpo vigliacco della storia, riuscì a farsi apprezzare solo a posteriori. Ma in fondo, Philip Dick non è mai esistito, o per meglio dire, sapeva di essere morto, come sua sorella Jane, quel giorno di tanti anni fa. In uno scambio di identità, in un’altra dimensione, Jane Kindred Dick guardandosi allo specchio avrebbe pensato ad una fossa nel terreno e ad uno scrittore che poteva essere e non è stato. Come in Labirinto di morte, siamo tutti in viaggio, aspettando la fine e giocando al massacro, per vedere cosa c’è oltre la soglia.

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