Radiohead, sudore e code infinite

In quel di Monza, sono andato agli I-DAYS a sentirmi i Radiohead che, nonostante tutto ciò che mi ha circondato, si sono dimostrati i più grandi.

Edoardo Piron
La Caduta 2016–18

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«Ooooooooh, ho trovato due biglietti per i Radiohead!»

«Ooooooooh, come hai fatto??»

«Eeeeeeeeh, i contatti, due messaggini giusti, due telefonatine e taac, eccoli»

Questo siparietto accade venerdì 16 giugno, il giorno stesso del concerto e sono eccitatissimo, perché io 70 euro per andare a vedere i Radiohead non ce li avrei mai avuti (so che è un discorso del cazzo, ma quando i soldi non ci sono, non ci sono).

Andiamo oltre. Penso tra me e me «che bella Milano, la città dei contatti e delle telefonatine, un luogo in cui tutto è possibile e tutto è a portata di telefono». Ho un combattimento interiore legato alla mia moralità e al fatto che mi fanno incazzare tutte le storie di favorini e favoretti, ma ci metto davvero 15 secondi netti a cambiare idea perché realizzo che posso andare a vedere i Radiohead gratis, a Monza, agli I-DAYS (sul gratis cambierò idea dopo poco, ma c’è un girone dell’inferno per tutti e tra poco ci arriviamo).

Gli I-DAYS sono una sorta di festival di quattro serate, in quel di Monza, nello spazio dell’autodromo, con una line-up da far inorridire pure un democristiano per quanto varia e adatta a tutti (vedansi Justin Bieber, Rancid, Blink 182, Martin Garrix e molti altri). Venerdì è una giornata obiettivamente fighissima, James Blake che apre ai Radiohead: quando mi ricapita effettivamente.

Quando mi ricapita? Proprio per questo fuori dall’ufficio alle 18.30, un po’ prima della fine, e ci si muove verso Monza con l’idea in testa di metterci un’ora e trenta minuti al massimo «anche perché James Blake lo voglio assolutamente vedere». Con la grande fiducia che ripongo nei mezzi di trasporto milanesi, nonostante scioperi vari e fasce di orari in cui la circolazione viene assicurata, per le 19.20 si arriva a Monza con la speranza di essere al massimo in 40 minuti al posto e poter godere un po’ insieme a James e a una bella birra. Tutto questo sognare positivo si trasforma in un incubo: la location è lontana dalla stazione del treno, ma nessuna paura (!), hanno messo a disposizione una miriade di navette/carri-bestiame per portarci tutti (e siamo tanti) nella zona del concerto! Si tirano fuori 5 euro, si prende il biglietto e si sale come maiali verso il macello, tutti appiccicati e sudati, tutti un po’ infastiditi ma gasati. Che poi penso subito ai 5 euro, una persona che ha pagato 70 euro per un biglietto meriterebbe una navetta inclusa nel prezzo, ma no, perché il denaro profuma e piace, oh se piace. Purtroppo alle 19.30 la gente, giustamente, torna da lavoro e la strada è parecchio trafficata e lo splendido viaggio diventa un’odissea, in cui le persone grondano acqua dai pori, non profumano (me compreso) e inizia quella bellissima sensazione nota come “palpebra calante”. Forse conveniva venire in macchina allora! Sì, con il traffico che c’è sulla tratta Milano-Brianza c’avrei messo meno ad andare in Salento a farmi un weekend di mare; senza contare che i parcheggi costano tra i 25 e i 40 euro, senza contare che si trovano in una distanza temporale dall’autodromo compresa tra i 30 e i 50 minuti (però, per soli 5 euro, dopo aver parcheggiato c’è comunque la navetta! Grazie!).

Le praterie per arrivare al palco

Alle 20.45 eccomi sul posto. Saluto James Blake da 5 chilometri perché il parco è gigantesco e non riuscirò mai a vederlo. Infatti, dopo aver recuperato i biglietti e i bracialetti molto cool e aver camminato ininterrottamente per mezz’ora, alle 21.10 varco i cancelli e sono dentro, non mi pare vero: due ore e trenta minuti, non male. Ma le attese sono appena iniziate perché per potersi bere una birra e mangiare un panino ci sono code infinite. Non basta: all’interno dell’area adibita al concerto i soldi non hanno valore, bisogna usare i maledetti “token”, cioè dei gettoni che sono tipo i soldi del monopoli e che valgono come merce di baratto per riempirsi lo stomaco e dissetarsi. Mezzo token un’acqua, due token una birra “media”, un token e mezzo una bibita analcolica. Se avessi voglia solo di una bottiglietta d’acqua, nel caso? No, devi comprare minimo cinque token al modico prezzo di 15 euro! Figata, posso berne dieci di bottiglie d’acqua! Ah, però sono senza tappo, ah però io ne volevo una, ah però.. Con l’animo alleggerito dall’ingresso gratuito spendo ‘sti soldi e mi prendo ‘sti cinque token. Dai, ho circa 20 minuti per una birra, così vado poi nell’area sotto il palco a godermi il concerto almeno dei Radiohead. Ce ne metto 40 e mi perdo le prime tre canzoni tra cui Airbag e inizio a mordermi le labbra abbastanza nervoso.

La fila, il concerto che inizia, le coppie che si abbracciano

Corro come il vento, entro nell’area VIPS perché mi sono guadagnato la nomea di VIP senza avere assolutamente idea del perché e i Radiohead si dimostrano semplicemente una delle più grandi band di sempre. Thom Yorke è dannatamente in forma, canta con una voce stellare, universale. Il gruppo non è da meno, soprattutto Jhonny Greenwood che l’ho idealizzato come una figura mitologica perché nessuno di noi è riuscito a vederne gli occhi. Ci sono tipo 50000/60000 persone credo, tutti che cantano e tutti estasiati dai pezzi presi dall’intera discografia. Tra Kid-A, Amnesiac, In Rainbows, Ok Computer, Pablo Honey, The King of Limbs e A Moon Shaped Pool passano due ore di concerto pazzesche, che aiutano a ricordare che esistono ancora le band gigantesche e che, ancora, sono in grado di strapparti l’anima a metà. Con Fake Plastic Tree piango, con Exit (Music for a Film) canto, con Idioteque e The National Anthem ballo e per tutto il concerto godo.

Concedono il doppio bis, fanno pure Creep, chiudono con Karma Police (con tanto di reprise del pubblico che canta tutta la strofa con Thom «For a minute there i lost my self» facendo da stimolatore per pelle d’oca). Tutto pazzesco, tutto bellissimo, perché i Radiohead hanno vinto sull’organizzazione, sulla discutibile cordialità degli addetti ai lavori, sull’animale sacro idolatrato da Indipendente Concerti, cioè la sanguisuga. A fine concerto realizzo che, per noi VIPS, c’era un bar con una coda brevissima, me misero me tapino, e con il mio ultimo token chiedo un’acqua frizzante fresca e, giustamente, ricevo una bottiglietta d’acqua naturale calda. Lascio al gentilissimo venditore di acqua calda un mezzo token di mancia e una carezza sul volto, perché io sono VIP stasera e loro non sono ladri. Solo a quel punto raggiungo i miei amici PLEBEI che hanno visto il concerto da lontano e, dopo un breve confronto sulla grandezza dei Radiohead, sulla piccolezza di tutto ciò che ci circonda (scopro anche che in mezzo al pubblico passavano venditori ambulanti che non accettavano token ma solo cash, per vendere bibite di cui riporto i prezzi del listino: 3 euro un’acqua e 8 EURO una birra da 33) ci avviamo verso il loro camioncino per berci una Moretti in quel di Monza e rientrare a Milano dopo una serata che dir faticosa è poco. Faticosa sicuramente non a causa dei Radiohead.

Uhh la pista

Tornare tra la PLEBE mi fa sentire meglio e mi aiuta a scaricare il nervosismo accumulato da una giornata passata ad attendere, perché io lo so, sono uno di loro, sono un PLEBEO, non ci posso fare niente. Da venerdì 16 giugno ho deciso di boicottare tutto questo vile desiderio di fare denaro e non cultura, ma mi rendo conto che sarò il solo o forse qualche altro stronzo come me, convinto che il mondo si possa cambiare, si unirà. Nello schifo più totale dell’avidità, nella bellezza più totale della musica, passando sulla pista di Formula 1, mi chiedo: «ma se Thom Yorke sapesse come funzionano questo genere di concerti (che fortunatamente sono pochi), suonerebbe ugualmente?». Non lo conosco di persona eh, ma una qualche idea su che tipo di uomo sia me la sono fatta eccome e, sono più che convinto, che avrebbe mandato a cagare tutti quanti.

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