Remastered: santi o demoni?

Pensieri sparsi intorno al fenomeno remastered e sui perché non siano per forza un male da estirpare alla radice

AB
La Caduta 2016–18

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Premesse necessarie:

  1. Il concetto di remastered non nasce con e su Playstation 4/Xbox One (o Nintendo Switch). Certo è che il passaggio, avvenuto all’epoca di PS3 e Xbox 360, dalla standard all’alta definizione ha contribuito notevolmente a una sua diffusione e affermazione sul mercato (specialmente quello console). Da eccezione, rarità, a prassi consolidata sostanzialmente.
  2. Glossando il termine (per evitare incomprensioni o altro), definiamo una remastered una nuova versione graficamente migliorata di un titolo appartenente (almeno) alla precedente generazione. Quindi non parliamo né di remake, né di reboot: esemplificativi sono la Metal Gear Solid: HD Collection, la God of War Collection o la Ico e Shadow of the Colossus Collection — la lista non finisce di certo qui
  3. Mi riferirò soprattutto al mercato console, lasciando il PC (data la sua differente natura) in disparte.
Dark Souls Remastered

La memoria storica ci permette di ricordare senza sforzo alcuno i fasti non proprio eccezionali che hanno caratterizzato i primi mesi di Playstation 4 (Xbox One se la cavò decisamente meglio). Sony, consapevole della carenza di della propria line-up di lancio, decise di proporre ai suoi clienti (molti dei quali provenienti da Xbox 360) una serie di titoli (come le remastered di The Last Of Us, quella di God of War 3 o quelle di Heavy Rain e Beyond: Due Anime, etc…) provenienti direttamente da PS3. Visto il successo dell’operazione Microsoft e molte altre compagnie hanno colto la palla al balzo e hanno deciso di attingere a piene mani dal proprio archivio videoludico iniziando a sfornare remastered come se non ci fosse un domani. Fra una Halo: Master Chief Collection, edizioni remastered di DmC: Devil May Cry e di Devil May Cry 4, la definitive edition del reboot di Tomb Raider, la Scholar of the first Sin di Dark Souls II, quasi tutta la saga di Resident Evil, i Final Fantasy X/X-2/XII, i Kingdom Hearts (nella folle numerazione in 1.5/2.5/2.8), le remastered di The Wind Waker e Twilight Princess e molti altri ancora, il mercato sembrava ormai saturo e proiettato verso un destino a senso unico: pochi nuovi titoli e un riciclo autoaccartocciante infinito del già visto e del già detto. Un futuro terribile per qualsiasi appassionato. Almeno a prima vista.

Perché sì, dopo un inizio stentato i bei giochi sono arrivati e nuove IP hanno iniziato a invadere il mercato. Il rischio di un tracollo qualitativo e quantitativo dell’offerta, di un livellamento verso il basso, è andato scongiurandosi da solo. Anzi, con l’uscita di Nintendo Switch (naturalmente non estranea all’arrivo di versioni rimasterizzate) probabilmente viviamo in uno dei migliori periodi videoludici di sempre.

Cionondimeno reazioni contraddittorie intorno alle rimasterizzazioni non si sono esaurite; anzi molte persone continuano a sostenerne l’aspetto nocivo (come l’inutilità e il togliere risorse e tempo a progetti più importanti) e altri, addirittura, legano la loro esistenza a un qualche tipo di virus esistenziale-nostalgico che, radicato nella nostra società, ci avrebbe lentamente mutati arrivando a “fotterci il futuro”. Potrebbe anche essere vero, il problema è che alcuni dei parametri/paralleli utilizzati per attaccare la loro esistenza si basano su presupposti alquanto limitanti e in parte sbagliati. Per questo motivo, proviamo ad allargare un po’ il campo visivo e a cambiare prospettiva.

Perché se è vero che l’intento commerciale (massima resa con poca spesa e rischio quasi azzerato) è, se non il primo, uno dei principali obiettivi che ogni azienda, quindi ogni publisher, si prefissa, è anche vero che la natura stessa del videogiocare su console, la sua essenza a base di silicio incastonato su circuiti e inscatolato dentro bare di plastica e metallo, presenta delle caratteristiche uniche e impossibili da non considerare — soprattutto se associate a politiche imprenditoriali ben precise. Prendiamo il confronto fra videogame e cinema: due mondi in piena simbiosi transmediale che condividono parte del linguaggio espressivo. Messi uno di fronte all’altro potremmo essere tentati di effettuare dei paralleli semplicistici e applicare i medesimi intenti a determinate pratiche comuni, come i restauri in 4K che stanno subendo molte pellicole e le suddette remastered. Operazioni assimilabili da un certo punto di vista, ma distanti se viene preso in considerazione un precipuo elemento di fondalmentale distinzione: il rapporto, il vincolo, con il progresso tecnologico. La tecnologia dietro al cinema si è evoluta nel tempo, è ovvio, ma grossomodo i supporti di lettura e di riproduzione di pellicole sono mutati gradualmente o necessitano di piccoli interventi per essere nuovamente compatibili. Lo stesso modo di fare cinema è più o meno lo stesso, esso non è legato indissolubilmente alla tecnologia del suo tempo (e infatti i film che hanno maggiori “problemi”, di resa, non di riproduzione, sono quelli che usano massivamente la Computer Grafica). L’hardware e il software usato da una console, invece, no. I cambiamenti, oltre a essere più frequenti (di solito ogni 5/6 anni), impattano così tanto nella modalità di fruizione (tanto per le console quanto per i dispositivi di visualizzazione) e di realizzazione che il tempo si rivela essere un nemico molto più crudele e spietato. Senza una ricompilazione ad hoc, o una piena compatibilità hardware, un videogame X non potrà mai girare su un supporto XX. Il ricatto tecnologico, in aggiunta, grava molto di più sulla resa estetica limitandone l’appeal e intaccandone, a volte, la stessa giocabilità (pensiamo al frame-rate zoppicante di un Dark Souls 1, spesso sotto una soglia apocalittica, e al beneficio che la futura remastered avrà sotto questo punto di vista).

È chiaro, la situazione non è sempre rosea e limpida come ci si dovrebbe augurare (molte remastered sono delle vere e proprie truffe, fatte con il minimo sforzo e senza un reale upgrade); ma, in attesa di alternative migliori, e fintanto che l’attuale modello di business non subirà uno stravolgimento (le uniche opzioni finora esplorate sono pratiche alternative quantomai fumose o viziate se applicate malamente, come loot-box o microtransazioni tossiche), il fenomeno delle remastered incrementato esponenzialmente con questa generazione ha senz’altro delle meritevoli frecce al proprio arco — come, per citarne qualcuna, aumentare il parco titoli di una nuova console affiancando le nuove IP; conservare i capolavori del passato sotto una veste tecnico/grafica rinnovata e al passo con i tempi; riproporre piccole perle meritevoli di un seguito e/o di essere riscoperte (come Okami ad esempio); etc. Non male per delle cose inutili.

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