Copertina di Inventare il Futuro, Collana Not, Nero Edizioni ©

Riappropriarsi del futuro secondo Srnicek e Williams

Inventare il Futuro, terzo libro per i tipi di Not, è un libro sulle possibilità di un mondo senza lavoro

La Caduta
La Caduta 2016–18
6 min readApr 11, 2018

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Partire con l’eliminazione del lavoro per ricostruire un ordine post-capitalista, cominciare dalla liberazione dall’impiego per ribaltare il paradigma neoliberale. È questo, essenzialmente, il progetto proposto da Nick Srnicek e Alex Williams in Inventare il futuro, un libro che è anche un invito: Pretendi la piena automazione/Pretendi il reddito universale/Pretendi il futuro recita la copertina sapientemente scelta (come tutte quelle della sua collana Not) dall’editore Nero. Si comincia con degli slogan dal sapore utopico, perché proprio di utopie si vuole parlare: per gli autori del Manifesto per una politica accelerazionista, è tempo per la sinistra di riprendersi il terreno abbandonato del futuro, di ricostruire grandi visioni e progetti globali a lungo termine.

Eliminare il lavoro fa parte di questi progetti. A differenza di altri, forse più ottimisti, che hanno sposato l’idea di inevitabilità dell’automazione, dell’informatizzazione e della caduta del capitalismo (mi viene in mente Paul Mason, che, fatalità, ha pubblicato il suo Postcapitalism proprio nel 2015 — stessa annata di Inventare il futuro), Snricek e Williams teorizzano la necessità di lavorare attivamente per la riuscita del loro disegno post-neoliberista. Ma se, come ci spiegano gli autori, gli strumenti pratici per attuarlo, in primis il progresso tecnologico, mai come oggi sono stati alla nostra portata, sono gli strumenti ideologici quelli che dobbiamo riesumare e affilare.

L’ostacolo reale si configura come ideologico in quanto la percezione stessa di un mondo liberato dal lavoro non viene accolta come ottimale e plausibile, la vita umana è prevalentemente concepita in relazione al tempo di lavoro, ma soprattutto una forte etica del lavoro e della fatica si impone come modello culturale dominante, in linea con l’imperativo competitivo e individualista tanto caro al neoliberismo che ci pone uno contro l’altro, in una gara tra gli ultimi fine a se stessa. Ci viene promesso che chi fatica di più verrà ricompensato, eppure in questa contesa per lo stipendio non esistono vincitori, perché loro ce l’hanno già il reddito, da capitale però — direbbe Marta Fana. In questi anni di neoliberismo imperante, lo abbiamo notato tutti, avere un impiego non è più sinonimo di stabilità, il reddito da lavoro risulta pericolosamente insufficiente al suo scopo — ovvero mantenerci — se non addirittura inesistente, il contratto a tempo indeterminato diventa un miraggio, come le coperture legate al welfare quali ferie e malattia.

La precarizzazione del lavoro rende, se possibile, ancora più legittima la sua messa in discussione e la richiesta di liberazione da questo, in quanto il contratto non garantisce più alcuna sicurezza e alcun benessere come poteva fare in passato. Dobbiamo quindi approfittare di questo periodo storico in cui disponiamo delle potenzialità tecnologiche e informatiche per attuare questo passaggio, ma per farlo, sottolineano Snricek e Williams, occorre innanzitutto cambiare il “senso comune” che attribuisce al lavoro una serie di valori che si rivelano sempre più ingiustificati. Nello sviluppo di quello che Franco Bifo Berardi ha denominato semiocapitalismo, tempo di lavoro e tempo di vita si confondono, l’impiego si fa intellettuale e mentale e quindi il prodotto viene percepito come qualcosa di personale, i dispositivi digitali portano l’attività lavorativa dentro la sfera del tempo libero e privato, il lavoro modella l’identità: siamo il nostro lavoro, e dunque l’eliminazione dell’impiego salariato richiede una rielaborazione della rappresentazione propria e degli altri. Altri concetti, come la ricchezza, dovranno essere ribaltati, riformulati, reinventati, in modo da spostare il baricentro dal denaro al tempo.

Scomodiamo qui Gramsci e diciamo pure che c’è un intero ordine egemonico da scardinare: di conseguenza, è necessario rispondere con l’artiglieria pesante, con una contro-egemonia. È per questo che gli autori di Inventare il futuro prendono le distanze dalle proposte di folk politics, focalizzate su soluzioni locali e a breve termine, per sostenere un approccio su larga scala che riprende, se vi va, il buon vecchio internazionalismo marxista e operaista. Combattere il neoliberismo con i suoi stessi strumenti è ciò che propone questo saggio: richiedere pluralità nei dipartimenti di economia, inserirsi nei canali mainstream, pubblicare libri accessibili a chiunque, mobilitare sia la politica formale che i movimenti sociali — sono queste alcune delle vie attraverso le quali si costruisce un’alternativa globale che abbia le carte in regola per venire supportata attivamente e che sia effettivamente utile a cancellare quel “senso comune” che ci tiene legati a un lavoro che non ci rende felici. “Non è il lunedì che detesti, è il tuo lavoro”, è il contemporaneo sistema capitalista che ci impone questa attività attraverso il ricatto lavorativo — devi lavorare per vivere — ma non risponde alle implicazioni di questo scambio — se lavori, non hai tempo per vivere. La depressione è compagna del neoliberismo, ce lo ha spiegato bene Mark Fisher (ma anche molti altri prima di lui, esiste infatti un’ampia bibliografia sull’argomento), e fino a quando non rifiuteremo in massa questo ordine e non cominceremo a reclamare delle alternative, la nostra rimarrà una società depressiva, malata, schizofrenica.

Ma se riusciamo a smascherare il nuovo spirito del capitalismo, il suo apparato auto-giustificativo, allora la strada comincia a spianarsi: una volta rifiutata l’etica del lavoro, gli altri tre punti centrali del progetto di Snricek e Williams — piena automazione, riduzione della settimana lavorativa, reddito di base universale — si configurano quasi come meri adattamenti tecnici da modellare secondo i nuovi valori fondativi della società post-neoliberista, che nel frattempo ha spostato il suo obiettivo dalla “piena occupazione” della sinistra tradizionale alla “piena disoccupazione” della nuova sinistra orientata al futuro. Questi quattro cardini, però — ricordano gli autori — non sono da identificare come un punto di arrivo, come un fine, ma come una piccola parte, un punto di partenza, di un progetto più ampio; non garantirebbero la fine del capitalismo — che di per sé è un sistema altamente flessibile e adattabile -, ma sicuramente rappresenterebbero una fase fondamentale per arrivarci. Rappresenterebbero, soprattutto, un passaggio a un contesto più felice (un termine che sembra banale, ma non è), perché le costrizioni e le preoccupazioni legate al lavoro riguardano chiunque — come ci rammenta il poliziotto di quel film su Radio Alice, Lavorare con lentezza — e dunque la battaglia per cancellarle si fa comune e globale: il nuovo soggetto post-capitalista non è una classe o un gruppo sociale, ma un “noi” di ampio respiro.

Il tempo deve venire liberato — scisso dal reddito, non più succube delle logiche salariali — perché anche lavorare diventi un gesto di libertà, in quanto non più obbligatorio. Il soggetto redento si riprenderebbe il suo tempo, in un atto realmente rivoluzionario: usarlo come gli pare.

A cura di Margherita Moro

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