Copertina originale di Elena Guglielmotti

Ritratto #2 — L’ansia di semplificazione di Teresa Ciabatti

Il secondo dei cinque ritratti dei finalisti del premio Strega 2017

Lucia Cattani
La Caduta 2016–18
5 min readJun 27, 2017

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Per comprendere il successo de La più amata di Teresa Ciabatti è necessario distaccarsi inizialmente dalle pagine di questa autofiction che ha conquistato critica e pubblico e considerare l’immagine della scrittrice prima di quest’ultima pubblicazione e il ruolo che ha rivestito nel panorama letterario-editoriale italiano. La Ciabatti vanta un romanzo d’esordio, Adelmo, torna da me, scritto, per propria ammissione, “in totale incoscienza” e stroncato senza pietà dalla critica, nonché una serie di sceneggiature dall’autrice stessa definite “orrende”, una produzione complessiva che può essere ricondotta agli standard definiti dalla Scuola Holden, di cui la Ciabatti è stata allieva. Quello che si evince dai precedenti elaborati dell’autrice è senza dubbio un forte legame con la letteratura e il cinema popolari, è esplicita la volontà di creare un prodotto editoriale con i giusti ingredienti per ottenere l’apprezzamento del pubblico, del lettore annoiato medio: lo scenario non cambia sostanzialmente con La più amata, infatti possiamo trovare nella produzione dell’autrice altri romanzi mediocri non dissimili da Adelmo, torna da me, e sceneggiature di film tra cui spiccano Tre metri sopra il cielo (Luca Lucini, 2004) e Ho voglia di te (Louis Prieto, 2007). Si tratta di intrecci creati a regola d’arte, con tutto il necessario per avere successo editoriale, alla stregua della più scarna narrativa di genere, chiaramente rivolti ad un pubblico di poche pretese e superficiale.

Non è facile mantenere uno sguardo oggettivo quando ci si cimenta in una critica letteraria, soprattutto se si parla di contemporaneità, eppure sono innegabili alcuni aspetti che fanno di La più amata di Teresa Ciabatti, finalista del premio Strega 2017, un romanzo mediocre: è fortemente sentito quel fenomeno di “ansia di semplificazione” che Gabriele Frasca, già un decennio fa, aveva individuato nella narrativa letteraria contemporanea (al contrario dei meccanismi opposti che regolano nuovi videogiochi e serie tv) e descritto efficacemente nel saggio La lettera che muore. Dall’opera profetica di Frasca sono passati dieci anni e l’ansia di semplificazione non ha cessato di crescere smisuratamente e fagocitare gran parte del panorama editoriale italiano tanto da provocare l’impressione di investire non solo i fruitori ma gli stessi produttori della cultura. Considerando il Premio Strega e i vincitori dei primi decenni vediamo spiccare autori come Pavese, Bontempelli, Moravia, Ginzburg, Ortese, Vassalli: tali voci imponenti e maestre di stile narrativo sembrano ormai lontane e dissolte nello scenario che vede la presenza dell’autofiction della Ciabatti in finale per il premio Strega. Sembra che ci si stia accontentando di una narrativa priva di stile in cui l’importante non è come un libro sia scritto ma semplicemente cosa racconti. Come efficacemente nota Gilda Policastro:

“Il libro, anzi, i libri di Teresa Ciabatti hanno un grosso problema, un problema insormontabile di cui nessuno pare accorgersi, magari perché la massiccia promozione li sottrae in partenza a un discorso realmente letterario: sono libri-chiacchiera, birignao, lallazione, e non hanno una scrittura degna della forma romanzo, che viene invece evocata dai follower dell’autrice-personaggio social come un a priori incontestabile.

(…)Si procede così, in un continuo di lei tace, lui annuisce, lei replica, lui si limita a (sorridere, protestare etc.), lei ammonisce, lui controbatte: sintassi elementare e lessico vieto (i sintagmi obbligati dalla serena notte estiva al frinire assordante delle cicale ci sono proprio tutti) non per scelta formale, ma per mancanza di alternative. Sissignore, chiunque può scrivere così, cioè chiunque non sappia scrivere, e per sapere scrivere qui non intendiamo, alla maniera neoavanguardista, sapere bene come scrivere male, ma proprio conoscere le regole della lingua, più che tentarne un sabotaggio o una violazione (mimetica o antimimetica che si voglia), familiarizzare col Garzanti prima che col genere: l’autofiction alla Walter Siti, senza lo stile di Siti, non fa romanzo e Troppi paradisi lo è in quanto scritto da Siti, non perché ci sono i fatti suoi spiattellati. Ove il poderoso battage quasi senza precedenti per una non-scrittrice riuscisse nell’intento e La più amata vincesse davvero lo Strega, sarebbe il primo caso di libro-non scritto a ottenere un risultato simile.

L’ansia di semplificazione, che aveva avvertito Frasca, nel romanzo della Ciabatti esplode e domina la scena. Non basta una trama farcita di personaggi misteriosi, rapporti familiari morbosi, segreti taciuti e a volte solo accennati per suscitare interesse nel lettore. (Per la trama de La più amata si rimanda ad un precedente articolo). Non basta l’immagine problematica dell’infante privilegiata Teresa che si trasforma in adolescente dai comportamenti psicotici. Non basta accennare alla presa di coscienza che il mondo dorato in cui è cresciuta può crollare e lasciarla a confrontarsi con la grama realtà dei non ricchi. L’autrice tenta di stabilire, fallendo, una complicità con chi legge: dietro l’autocritica tuttavia è onnipresente una sorta di bisogno di giustificarsi, di uscire vittima dalla vicenda del fallimento della sua vita familiare addossando ogni colpa ad un padre sfuggente, legato alla massoneria, o alla madre succube, o al fratello freddo e rancoroso che non riesce a perdonare i suoi capricci. Non sono sufficienti né il racconto intimo, né alcune immagini ricorrenti che forse volevano assumere uno strano valore di metafora senza riuscirci. Non c’è una vera e propria analisi psicologica, tutto resta troppo in superficie e sembra oscillare tra il goffo racconto di vita e un inefficace artificio che permea tutto il romanzo, a partire dal taglio più cinematografico che letterario, dall’impostazione della narrazione e dei flashback molto spesso squilibrata. L’ossessione narcisistica della protagonista non è affrontata in termini di autoindagine, resta sospesa come una conseguenza della scarsa capacità genitoriale: sono i fatti, come in un’aula di tribunale, che si susseguono svelando le mancanze vere e presunte del padre. Tutto ciò culmina con la figura della protagonista-autrice ormai adulta e descritta con toni falsamente autocritici, che nascondono una sorta di sotteso compiacimento.

Pur tirando in ballo massoneria, rapimenti, Licio Gelli, la P2, la storia sembra priva di mordente, la scrittura assume a volte tratti così ingenui ed infantili da risultare fastidiosa, scarna, insufficiente a creare quell’affabulazione propria dei grandi romanzi. Gilda Policastro ha senza dubbio individuato il cuore del problema: la mancanza dello stile di scrittura, una lallazione che ha poco a che fare con una vera e propria forma di romanzo, la povertà della scrittura che, certo, rende possibile una fruizione su più larga scala rispetto a capolavori come Rinascimento privato della Bellonci.

La più amata è un libro da leggere velocemente, da terminare nel giro di poche ore, da riporre immediatamente sullo scaffale ed è proprio quello che il lettore dei nostri giorni, ossessionato dalla velocità e incurante del vuoto di significato, inconsapevolmente cerca.

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