Copertina originale di Elena Guglielmotti

Ritratto #3 — Il linguaggio della montagna di Paolo Cognetti

Il terzo dei cinque ritratti dei finalisti del premio Strega 2017

AB
La Caduta 2016–18
5 min readJul 3, 2017

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Seguendo le diverse interviste e dichiarazioni rilasciate (1)(2), nonché le evidenze emergenti in ogni sua riga inchiostrata, è lapalissiano che per Paolo Cognetti la montagna (quella del Monte Rosa e quelle del resto del mondo) sia un luogo fondativo, originario, vestito da altrove esistenziale. Lo stesso Cognetti, dopo una decade di infatuazione esclusiva e totalizzante per la città, ricca di storie e di persone da scoprire, compiuti i 30 anni ha deciso di scappare e di ripararsi in montagna. Salire di quota fino ad arrivare a quei boschi, quei fiumi, quei laghi impronunciabili, in quei territori difficili e primitivi, ma capaci di disseppellire e far ritrovare quella felicità e quel rapporto di semplicità con le cose che si credevano persi, scomparsi come fossero sopiti.

«La mia esperienza in montagna coincide con qualcosa di epocale: l’idea che la vita sia costruirsi una famiglia, una casa, una carriera è entrata in crisi con la mia generazione. La città è lo specchio di quel sogno diventato fallimento. E allora per tanti sta diventando un’urgenza: che ci stiamo a fare in città? Il paesaggio non è forma, è sostanza: entra nelle relazioni. C’è bisogno di semplificare per essere felici, di vivere con poco per essere liberi. C’è anche un lato economico: in città stai sempre con il portafoglio in mano. Anche in montagna i soldi servono, ma non sono lo strumento delle tue giornate»

E calandoci nella narrazione, la montagna protagonista (insieme al rapporto paterno e all’amicizia con l’amico Bruno) di “Le otto montagne” si costituisce proprio come un paesaggio-aperto che attua un processo comunicativo che educa (come una sorta di padre-zero) chiunque decida di visitarlo; conseguenza di tutto ciò è una vera e propria mutazione individuale che, attraverso un enzima trasformativo, predispone l’acquisizione di un sistema valoriale dalle radici profonde: un rispetto antico, solenne, fatto di silenzi, di abitudine alla solitudine contemplativa, al lavoro, alla fatica e al rispetto della natura (forte, infatti, è la critica a un sistema economico che fa del turismo di massa un’attenzione forse eccessivamente negativa, superficiale e discreta nei confronti di quei territori).
Senza contare che la montagna si realizza anche come prezioso deposito memoriale (quindi nuovamente comunicativo) capace di rompere la catena temporale e permettere al passato di tornare, di passare nuovamente e divenire perciò luogo di significazione perenne e al contempo dinamico. Basta imparare ad ascoltarsi (o vedersi) per cogliere ciò che ha da dire.

«Io sto molto da solo in montagna: non ho problemi a confessar[e] che spesso soffro di solitudine. Però ho scoperto anche che dalla solitudine nasce un rapporto intimo tra te e il paesaggio che non sarebbe possibile se stai lì con qualcun altro, neanche con un amico o una donna. Ci siete solo tu e la montagna, per giorni e giorni, e in qualche modo parlate tra di voi.

Uno scambio vicendevole, generativo-trasformazionale, che paradossalmente è anche esteriore: l’interiorità dei personaggi è espressa non attraverso una forma verbale fatta di vuote parole elencate in forma dialogica, ma attraverso una puntuale e precisa, lirica, rappresentazione del paesaggio esteriore. Si tratta di una perfetta metamorfosi a specchio all’interno della quale ci si scorge riflessi. Per questo motivo il non detto trova risposta non assoluta ma almeno reale (per loro e per chi legge) nella fattualità materica della montagna che ci parla semplicemente attraverso ciò che è restituendo indietro la nostra immagine e i nostri pensieri.

«L’idea era dunque che la montagna raccontasse qualcosa di loro e siccome loro sono così silenziosi, trovano in lei uno specchio e una spiegazione ai loro sentimenti. E allora descrivere il freddo di una mattina di metà primavera come quella in cui Pietro e Bruno si avviano per iniziare a lavorare alla casa, l’aria cupa di quel giorno, era un modo per raccontare come stava Pietro in realtà. E in tutto il romanzo funziona così. Ho trovato che questo fosse il modo giusto per andare a fondo di questi personaggi non spiegati.

Ed è per questo che Pietro prima ritrova il rapporto con il padre defunto grazie alle tracce che la montagna custodisce (Cognetti ci tiene però a precisare che essa non è solo spazio-riparo, ma anche selvaggia e cieca, pura espressione di potenza) e poi riallaccia i rapporti con il suo amico Bruno riparando un piccolo rifugio nel cuore del bosco: le azioni e i gesti risanano ciò che con il tempo credevano si fosse disfatto. Quel micro-cosmo abitato con tanta sacralità e lasciato ogni volta con estrema sofferenza, sembra essere per Cognetti una delle poche (se non l’unica per la sua personale ontologia) fonte di salvezza dal disordine cittadino/contemporaneo e dal distacco mortificante con cui percepiamo il nostro relazionarci con la vita in sé.

Ma, infine, appurate le forme di linguaggio che la montagna utilizza per comunicare (o meglio, che noi possiamo interpretare come tali), quale lingua parla la (M)ontagna di Paolo Cognetti? Probabilmente nessuna, o meglio, probabilmente tutte quante le lingue del mondo; ma è anche vero che ogni luogo necessita di una sua lingua specifica per meglio significare ed essere significato. L’agente che funge da traduttore fra i due universi linguistici è Bruno (e nella realtà gli amici montanari o gli scrittori italiani cari a Cognetti): colui che è nato in quei luoghi e colui che conosce il nome delle cose — e con quella conoscenza aggiuntiva poter finalmente avviare l’atto di scrittura.

Non ho una lingua che è la mia lingua dell’infanzia. Sono stato un gran lettore di letteratura americana, perciò l’italiano della mia scrittura è stato per molto tempo un italiano neutro, senza radici. In montagna, cercando di raccontare la montagna, questa lingua diventava inadatta, insufficiente.

A me serviva qualcosa di più concreto, mi occorrevano le parole per nominare le cose. Mi ricordo che la prima estate in montagna avevo con me I racconti di montagna di Rigoni Stern e lo usavo come un’enciclopedia: non conoscevo i nomi degli alberi e li imparavo attraverso le sue pagine. E anche stare con gli amici di lì significava imparare parole nuove, i nomi dei luoghi, la loro origine, capire quanto è bello che le parole siano tanto legate alle cose. Questa era una verità che essendo nato e cresciuto in città non avevo mai colto. E l’idea era di usare questa lingua, che ho piano piano conquistato, per scrivere il romanzo.

  1. http://www.illibraio.it/paolo-cognetti-intervista-410519/
  2. http://www.finzionimagazine.it/f/paolocognetti/

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