Copertina originale di Elena Guglielmotti

Ritratto #4 — La compagnia delle anime finte di Wanda Marasco

Il quarto ritratto è quello di Wanda Marasco, in gara al premio Strega con “La compagnia delle anime finite”

Chiara Mammarella
La Caduta 2016–18
4 min readJul 4, 2017

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Wanda Marasco (Napoli, 6 maggio 1953) è l’autrice de La Compagnia delle anime finte, edito da Neri Pozza, incluso all’interno della fortunata cinquina dei finalisti al Premio Strega 2017. La scrittrice — nonché insegnante, regista ed attrice — inizia sin da giovane a farsi conoscere, pubblicando diverse raccolte di poesie grazie alle quali si aggiudica, nel 1978, il premio per la poesia William Blake, al quale segue, nel 1997, il Premio Internazionale Eugenio Montale per la raccolta Voc e Poè (Campanotto, 1997).

Al fianco della poesia, il teatro rappresenta un’altra delle grandi passioni della Marasco la quale, in aggiunta alla laurea in Filosofia, consegue il diploma in Regia presso l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, cimentandosi successivamente nella messa in scena e rivisitazione di opere di Apuleio, Beckett ed Eduardo.

Dopo avere conseguito il premio Bagutta per la sezione Opera Prima grazie al romanzo L’arciere d’infanzia (Manni editore, 2003), la Marasco si dedica all’attività di insegnate presso l’Istituto Tecnico Industriale Galileo Ferraris a Napoli. Ed è proprio da alcuni di questi incontri con ragazzini ed adolescenti provenienti dalle complesse realtà di Scampia, che l’autrice confessa di prendere spunto per la caratterizzazione dei numerosi personaggi presenti all’interno dell’ultimo dei suoi romanzi. Tiene nel 2007 un ciclo di lezioni del Master universitario in Letteratura, Scrittura e Critica Teatrale, presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Fra le sue opere si contano sinora, oltre ai vari progetti teatrali, diverse raccolte poetiche e quattro romanzi dei quali, oltre all’ultimo, concorre per il Premio Strega nel 2015 Il genio dell’abbandono, rientrando nella rosa dei dodici semifinalisti.

Dopo tale successo, la Marasco torna a raccontare Napoli e la sua gente ne La compagnia delle anime finte, del quale l’autrice sottolinea la non autobiograficità, nonostante numerosi luoghi e personaggi della narrazione siano stati effettivamente ispirati da persone e vicende dalla stessa direttamente conosciute e vissute. L’insieme delle storie di cui è intessuta la trama del romanzo lo hanno più volte fatto definire come un romanzo corale in cui gli elementi comuni ad emergere e ad assimilare le une alle altre sono quelli del guasto e della disillusione, dell’amarezza e del rancore provati dinanzi al disperato tentativo del riscatto e dell’evasione da una asfissiante realtà. Questi guasti e queste ferite sembrano tuttavia acquistare nel tempo il potere di trasformarsi in qualcosa d’altro, ad esempio in feritoie, come suggerisce la stessa Marasco; feritoie capaci di fare da spiraglio sull’interiorità umana e su quel complesso diramarsi di intuizioni, speranze, disillusioni che ne disegnano il groviglio.

La presenza delle figure degli umiliati e degli offesi, prese come focus della narrazione, diventa un mezzo per stabilire un rapporto diretto col lettore, soprattutto con un determinato tipo di lettore, capace di ritrovare in quei particolari scenari e in quelle arretrate e rigide dinamiche familiari qualche cosa che lo rimandi alla propria personale esperienza. A facilitare tale presa diretta su chi legge è senz’altro la scelta di una particolare forma linguistica in cui a stagliarsi sull’italiano della narrazione, nei brevi lampi del discorso diretto, è il dialetto napoletano col quale va ad aprirsi una tensione continua fra l’alto e il basso dei due registri; fra poesia e misura da una parte e feroce realismo dall’altra. È proprio di tale circolarità nel rapporto col lettore che, secondo la Marasco, deve nutrirsi, vivificandosi, la letteratura, la quale deve assumere l’imprescindibile ruolo di indagatrice dei recessi dell’interiorità umana, rendendosi di questi fedele testimone.

È sullo sfondo della Napoli tremolante e chiassosa del dopoguerra che si intrecciano le vicende di un uomo e di una donna, tali Rafele e Vincenzina, provenienti da due dimensioni apparentemente lontanissime ma in realtà profondamene vicine: da un lato quella della vecchia aristocrazia oramai decaduta, il cui disfacimento si cela dietro la maschera di una ostentata dignità ormai priva di contenuto; dall’altro quella numerosa quanto indigente delle famiglie contadine, alla disperata ricerca di un qualsiasi mezzo per elevarsi dalla propria misera condizione. È dall’amore fugace fra i due, consumato voracemente nei rapidi incontri fra i vichi della città, che nasce Rosa, vera protagonista nonché voce narrante della storia. È dai piedi del letto ospitante il corpo esanime della madre che Rosa si trova a ripercorrere, o forse meglio a reinterpretare o addirittura a reinventare, l’origine di quell’amore e, con quello dunque, della propria storia e delle proprie radici, mediante una confessione diretta, sincera, finalmente senza filtri: «È così, ma’, che guardo il punto in cui hai iniettato in ogni figlio la fantasia di un mondo povero e l’insistenza della realtà. Non lo so se questa è la tua vera storia, ma sto imparando a costruirne una che ti somiglia».

La morte materna, lungi dal portare con sé uno sterile senso del luttuoso, disvela dinanzi agli occhi di Rosa quello che è suo il doppio; un doppio che non smentisce mai la prima faccia della medaglia ma al contrario, contrastandola, l’avvalora. Come ogni fine da cui scaturisca un inizio, essa segna quasi l’avvento, per la protagonista, di una seconda vita, annunciata quest’ultima dal disvelamento di una nuova verità che può ora essere liberamente interpretata o addirittura inventata dalla stessa, senza necessità di adeguare più il proprio senso e la propria prospettiva a quelle sino a quel momento imposte dall’incontestabile autorità materna. È da questo continuo stato tensionale, in oscillazione costante fra ciò che è stato e ciò che sarà, che sembra sgorgare l’idea di una circolarità silenziosa, che di là dai chiassosi contrasti e dagli assordanti tumulti umani porta avanti se stessa, trascinando corpi ed anime nel suo corso. E da questa fusione non possono certo esimersi Rosa e Vincenzina destinate, come chiunque altro, a cedere al flusso onnicomprensivo della vita che scorre ed incontrastata si ripete.

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