Selvatica dei Morsura — Come un’ala invischiata in un cumulo di lapilli

Una indagine tra i suoni, le immagini e le parole di Selvatica, il debutto dei Morsura per OFN Records

Edoardo Manuel Salvioni
La Caduta 2016–18
7 min readApr 5, 2018

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La copertina del disco Selvatica dei Morsura (artwork ad opera del batterista della band Jacopo Pannocchia)

Capitolo I

Per quanto obliqua possa risultare come affermazione, ogni musicista cerca continuamente una immagine che ricorre. Non un simbolo, forse nemmeno uno stile, nella “cecità permanente” del proprio suono. L’urgenza visiva si traduce in una urgenza sonora. Può certamente dirsi nel caso di Selvatica dei Morsura.

Un’ala invischiata in un cumulo di lapilli, piaghe o bulbi oculari. Quale materia: pece, sangue, lacrime? L’assoluta opposizione di bianco e nero ci lascia irrisolto il quesito.

Un resto anatomico di un intero, uno stemma che ha la forma di una incrinatura, un cifrario inquietante e vertiginoso. Questo offre il primo contatto con l’oggetto-disco in questione.

Dalle prime note si ha la sensazione di scivolamento, di ingresso immediato in un mondo.

Capitolo II: Punizione e conoscenza

“Noi ci apparteniamo reciprocamente in modo assoluto”. Ciò, è, mia cara, mille volte vero; io per esempio nelle prime ore dell’anno nuovo non avrei desiderio più grande e più strambo di quello di vederci legati indissolubilmente il tuo polso sinistro col mio destro. Non saprei perché mi viene questa idea, forse perché ho davanti a me un libro sulla Rivoluzione francese con racconti di contemporanei e perché è pur sempre possibile (senza che io l’abbia mai letto o sentito dire) che una coppia in questo modo sia stata condotta al patibolo.” Franz Kafka in una lettera a Felice Bauer.

“Ed ora so quanto è bello sentirti piangere/ Intorno a noi/ SOLO vuoti anni di silenzio”. Questa la primaria scansione, un incedere d’impeto, un rullante dal suono di una scarica di colpi d’arma, una chitarra che sta tra il pugno inflitto e il rantolo di chi è subitaneamente ferito.

Fanno il loro ingresso le parole. Oltre ogni vezzo di citazione letteraria, è innegabile la sensazione che dai testi si emana, nella sua nudità essenziale: Un verdetto, una condanna che accoppia, di cui non si sanno confini e ingressi ma se ne conosce l’alitare in ogni dettaglio. Un patibolo certo che è una rivendicazione del proprio essere, pur noi “percependola” e disegnandola come assenza, invischiando le nostre scelte, facendo incedere i nostri battiti, chiedendo una promessa di conclusione definitiva: “E troverò/ il modo in cui risolverti/ come concluderti/ perché abbiamo scelto di farci male/ io non ricordo/ ma troverò il modo in cui risolverti”. Tra i vari crescendo, l’attacco in controtempo del brano si risolve poi in una nube scura tra distorsioni ed un ritmo scandito come un rintocco circolare.

Ad un Passo è la salita verso il teatro mentale dell’impiccagione. Intendendo tale termine come il luogo dove ognuno ha il suo modo di fantasticare con la propria fine, anzi, essa stessa è una delle figure portanti che sembrano scatenare l’immaginazione. Dove la fantasia monologante del suicida si sdoppia nel fantasma di un dialogo. Il brano stesso sembra accompagnarci con una paradossale dolcezza (nella melodia di impatto del ritornello, un tema che rimane nella voce ed in mente). La malinconia riesce indistinta dalla furia, dai passaggi repentini, nella sua andatura ondivaga, nella sua accorta orchestrazione strumentale. Il ritratto della possibilità affidato ad un nodo scorsoio. Nella sua chiusa finale sta l’immagine della fine proprio sul limitare, sulla soglia limite che è come una tana ed una tomba. In essa torna la gioia paradossale di finire insieme: “Stringersi ancora/ tu ed io/ ancora ad un passo/ un passo ancora”.

Una ritmica spiraliforme introduce Selvatica. Le dissonanze sono il regno sonoro di questo brano. Il richiamo alla punizione che attesta una conoscenza acquisita si rende esorbitante (come implicito monito a dire: “colui che è punito è colui che è iniziato” e può mostrarsi nella sua vera forma). “Ora, qui, fallo”, gli imperativi delle parole formano un elenco di ingiunzioni spietate. Si apre una trama di ruvidezza sonora, perfettamente esemplificata dal suo nome. L’acidità delle distorsioni e la rabbia senza confini delle variazioni ritmico-melodiche fanno come implodere il brano su sé stesso. Ci sono molte strade e ingressi che il brano offre, aperture melodiche e apparenti tregue per nuovi colpi. Ma ogni punizione ha i suoi giochi, le sue false attese, le sue spiazzanti requisitorie.

Giunge La Resa. L’axis mundi, il punto di non ritorno, cristallo di ferocia. Punto e zona dove la salita sacrificale e la condanna dei precedenti brani diventa una totalità, assume la sua massima intensità, sotto l’egida del fuoco inquistorio. La spirale è la forma madre del brano, un vorticare di volumi, un turbinare in cui la sensazione ritmica costruita su una serie di accenti molto ben congegnati si innesta su un unico accordo. Si crea una polarità in cui il punto immobile della chitarra gira sulla tensione estrema del ritmo della batteria. Se una spirale potesse suonare melodicamente ritmicamente, avrebbe questo suono. Ci si prenda la responsabilità di affermare, scommettere senza timore di esagerazione o ipotesi di piaggeria: non è una bizzarria sensazionalistica se si afferma che è possibile unire la violenza dei Black Flag col ritratto della fine terrificante di due individui senza nome, come all’ombra di Giordano Bruno, fine paradigmatica che viene indubbiamente al pensiero quando si parla di rogo e bestemmia, di inflizione indebita.

Cosa sarà di noi
ora che
dilaga questo incendio
brucia il mio
rogo di bestemmia
tu ed io insieme
e Dio contro
tu ed io
e niente più

Un brano che ha un peso sulla nostra musica recente come possono averlo avuto Kerosene dei Big Black o Waiting Room dei Fugazi al loro nascere. Ascoltare per crederlo.

La band: Jacopo Pannocchia (Batteria, Artwork), Federico Aggio (Voce, Basso, Liriche), Mattia Antonelli (Chitarra). Fotografia di Valentina Bracchetti

Capitolo III: Discesa verso un grembo di spighe

Il dittico Fredda Luce del Mattino / Nessun Eroe, sembra, quasi come un impromptu, rovesciare la rotta che il disco offre, pur mantenendo la sua urgenza. Nell’arco da Assenza a La Resa l’architettura di suono è una salita, un itinerario verso la disintegrazione capitale, un “salire, un culminare per morire o mostrare il proprio intimo essere”.

Questa seconda ala del disco è sulla stessa spinta impositiva, ma declinata verso il versante della discesa, delle zone oscure, degli anfratti del suono, degli echi, dello smarrirsi nel residuo. In questi due brani la variazione armonica sa creare un intrico in cui emerge il senso del suo darsi, il suo essere estremamente dedita ad una forma che potrebbe definirsi come la forza eversiva di una “massa critica della disperazione”. La focalizzazione è data e guidata dalle melodie estremamente cupe, dalla tenuta ritmica decisa, oltre che da vari passaggi di assalto rumoristico.

Convergenza ritorna fraterna ai brani di assalto come La Resa e Selvatica, con una foga martellante. La calibratura ritmica gioca su improvvise deflagrazioni e interruzioni delle strutture. La sapienza delle pause, delle zone di scheletro minimo del brano in cui i battiti sono esposti offre punti di intensità e spiazzamento, con mid-tempo che sanno essere una autentica maestria dinamica, con un magistrale lavoro di bassi ritmici, tra la grancassa e la linea a basso continuo.

“Naufragio”, nel complesso generale del disco, che si attesta su una omogeneità di ottimi brani, costituisce un secondo caso di brano memorabile. Pensandone una forma si penserebbe ad una ragnatela, che aduna serie di raggi di monocordi e virate tensive dei propri filamenti. Su di essi passano delle rifrazioni di luce, si aprono come delle epifanie sulla ruvidezza intermittente del brano, come nella coda del brano: una delle chiuse più emozionanti, che dimostra come altri episodi la varietà di intuizioni nella compattezza dello stile del disco. “Il giorno affonda/ e tu con lui”, il flutto del brano sospinge verso l’epilogo di questa che non esiterebbe a chiamare una balistica dell’abisso.

Artwork interno del disco

Capitolo IV: Un freddo deserto in cui fuggire

Supplica sembra attestarsi come l’eccentricità che conferma, ossimoro che si apre facendo il ruolo da punto di sutura. Ma esso è anche preludio, uscita dal “mondo” di cui il disco è documento. Costruito su una trama di silenzi e strutture concentriche, arpeggi da stiva (una propria The Weeping Song decisamente meno scherzosa e più nichilistica), da tenue bruma. Un tratteggiare sul fare di una alba che ha visto alle sua spalle la massima notte dell’umano, per poi virare verso un’ulteriore ombra.

Una via parallela, una linea di fuga che lascia immaginare il presagio di uscire dalla città dolorosa in cui degli uomini ridotti a spighe plastiche, figurine giacomettiane, attendono la venuta della redenzione. L’unica soluzione sembra la scelta del deserto, del lento digradare della marcia, verso una nota primaria, solitario battito da cui tutto termina, tutto riparte.

Incisione di Jacopo Pannocchia

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