Copertina di Tommaso Casoli

Serie TV: le 10 migliori première del 2017

La lista dei migliori primi episodi di questa ottima annata, tra novità, conferme e attesi ritorni

La Caduta
La Caduta 2016–18
14 min readDec 29, 2017

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Mindhunter

Sin dai primi minuti del suo episodio pilota, Mindhunter ci immerge in una situazione ad alta tensione: la negoziazione tra un agente dell’FBI e un uomo armato di fucile che ha preso in ostaggio alcune persone. Un confronto teso, dalla risoluzione improvvisa; l’uomo crede di essere invisibile e chiede solo di parlare con sua moglie: quindi punta il fucile alla testa e preme il grilletto. Questa sequenza dura pochi minuti, ma rappresenta perfettamente lo stile della serie distribuita da Netflix Mindhunter, una produzione supervisionata dal regista David Fincher, che ha scritto e diretto questo primo episodio (assieme al secondo e i due finali): lo stile “fincheriano” è presto evocato con una fotografia fredda e leggermente desaturata, associata ad una razionale composizione delle inquadrature che è tipica di questo regista. Ma a essere familiare è anche il tema centrale di Mindhunter, questo traumatico ingresso nella mente del serial killer assolutamente non estraneo alla filmografia di Fincher. Nella serie, ambientata negli anni ’70, la missione puramente didattica di una coppia di agenti FBI, esperti di profilazione dei criminali, si trasforma in un intenso on-the-road che offre l’occasione per ripassare la storia dei più importanti studi criminologici. Assistiamo così, tra le tante sperimentazioni sul piano psicologico, alla nascita dell’etichetta stessa di “serial killer”, in un percorso narrativo più fondato sul dialogo e su una solida sceneggiatura, che non sull’azione. Nel primo episodio vengono poste tutte le basi necessarie all’ingranare della serie: due personaggi dalla personalità contrastante (il rookie Holden Ford e il più maturo agente Bill Tench), un contesto che lascia ampio spazio allo sviluppo di conflitti (non tutti nell’FBI vogliono aprire nuove strade allo studio dei profili criminali) e, ultima ma non per importanza, la rappresentazione, raramente così efficace e realistica in produzioni cinematografiche o televisive, di un buon numero di personalità criminali macchiate di un buon numero di bestialità. Fincher e Joe Penhall, ideatore della serie, ci regalano un tuffo nelle perversioni della mente di questi assassini che raramente è stato così nitido dai tempi de Il silenzio degli innocenti di Demme. Siamo sicuramente di fronte ad una delle serie thriller migliori di questo 2017. ()

Il nostro approfondimento su Mindhunter

Twin Peaks: The Return

I’ll see you in 25 years” diceva Laura Palmer proprio venticinque anni fa, nella prima stagione della serie di culto diretta da David Lynch. Le due stagioni “storiche” di Twin Peaks dei primi anni ’90, quelle che hanno sconvolto l’ampio pubblico delle produzioni via cavo rivoluzionando il mondo della televisione, riuscirono a integrare elementi stereotipici delle popolari soap opera americane in una struttura narrativa del tutto anticonvenzionale, ricca di elementi surreali e personaggi grotteschi che ne fanno un prodotto tanto d’intrattenimento quanto artistico, una presenza perfettamente coerente nell’opera fuori dagli schemi del fertile sognatore David Lynch. Questa terza stagione approfondisce il mistero attorno alla morte di Laura Palmer, continuando la storia lasciata in sospeso: l’agente FBI Dale Cooper è intrappolato nella Loggia Nera, mentre già nel primo episodio vediamo un suo sosia diabolico aggirarsi liberamente nel mondo. Se l’ottavo episodio di questa serie-sequel resta la puntata più discussa di questo 2017 (un tripudio di immagini psichedeliche e situazioni al limite del surreale che ricostruisce l’origine di Bob), non si può negare che anche le premesse di Twin Peaks: The Return abbiano compiaciuto i fan del regista, immergendo sin da subito la vicenda in una lunga catena di crimini di sangue e misteri. Innanzitutto tornano volti noti ai quali gli spettatori della originale Twin Peaks si sono più e meno affezionati, quali Benjamin Horne e l’eccentrico dottor Jacoby; ma la cerchia dei personaggi introdotti in questa nuova (e pare davvero ultima) stagione è ampia, già dalla prima puntata. Due di questi, due giovani qualunque, incontrano un destino cruento proprio nelle prime due puntate, trucidati da un’entità misteriosa evocata in una strana scatola di vetro: una tipica situazione lynchiana, regista da sempre affascinato dalla manifestazione del Male in contesti quotidiani. A brillare è comunque un cast eccezionale, vero punto di forza della serie; ogni presenza scenica funziona perfettamente nel quadro di Twin Peaks grazie alla regia di Lynch, che può tornare a rivendicare piena paternità dell’opera. Twin Peaks è l’ennesimo capolavoro di Lynch, una serie che difficilmente entra nelle grazie di tutti, per questo suo essere una sorta di bizzarro incubo ad occhi aperti in un mondo così simile al nostro; ma, proprio come gli straordinari film del regista, è un’opera capace di intrattenere, divertire, stupire, inorridire, lasciare senza fiato o spiazzati. C’è infine chi se ne innamora. ()

Il nostro approfondimento su Twin Peaks: The Return

The Americans (stagione 5)

La serie targata FX non è di certo una novità, è in onda dal 2013 e si appresta a concludersi nel 2018 con la sua sesta e ultima stagione; ma anche quest’anno si è confermata come una delle fiction più interessanti della televisione. I Jennings arrivano all’inizio della quinta stagione di The Americans stremati, con una figlia che ancora mal digerisce il fatto che i suoi genitori siano spie sovietiche e col perenne dubbio se restare a Washington o fare ritorno nella madrepatria. Nei primi minuti siamo subito immersi in una nuova missione: a Elizabeth e Philip viene assegnato un finto figlio adottivo di nome Tuan, un giovane agente segreto vietnamita, come copertura per indagare su una famiglia russa arrivata nella capitale statunitense. Come accade spesso in The Americans ci vorrà un’attesa lenta e logorante che durerà fino al finale di stagione per assistere ai risvolti più brutali dell’indagine, ma i tratti sinistri sono già presenti come un’ombra sin dall’inizio. Le tensioni domestiche, invece, sono ancora legate alla relazione fra Paige e Matthew, figlio dell’agente FBI Stan Beeman; ma la maggiore urgenza di Elizabeth è subito chiara: addestrare la figlia con le tecniche del KGB per renderla una donna forte e capace di difendersi. Nella seconda missione presente nell’episodio diventa infine palese lo squilibrio fra la motivazione di Philip, sempre più debole e emotivo, e quella di Elizabeth, ancora fredda e spietata sul lavoro. L’universo anni ’80 di The Americans a livello di sceneggiatura, regia, scenografia, costumi, musica, recitazione e psicologia dei personaggi è una perla rara nei palinsesti televisivi, cruda e decadente almeno quanto Breaking Bad. Ma a differenza di quest’ultima, la serie ha preferito raccontare in modo quasi documentaristico i problemi interiori della famiglia Jennings piuttosto che sconvolgere il pubblico, e ciò ha purtroppo ostacolato il suo ingresso a pieno titolo nella cultura pop collettiva. Forse, alla fine dei conti, è meglio così. ()

Fargo (stagione 3)

Anche qui siamo di fronte ad una serie FX in onda già da qualche anno. Alla sua terza stagione i creatori di Fargo hanno nuovamente rivoluzionato trama e ambientazione della loro serie antologica, ma questa volta in modo ancora più drastico. Si torna ai giorni nostri e alle rivalità famigliari, si parla di potere economico e si flirta con i concetto metafisici di male e bene. Il primo episodio — La legge dei posti liberisi apre con una premessa storica: nel 1988, in piena guerra fredda, a Berlino Est un uomo viene arrestato per omicidio, apparentemente per un equivoco burocratico. Lo stesso errore mette in moto le vicende dei gemelli Stussy, interpretati da un irriconoscibile Ewan McGregor. Tutto ruota intorno a piccoli particolari, il francobollo ereditato e conteso dai due fratelli, le differenze di abbigliamento e capigliatura che li rendono due personaggi diametralmente opposti, sviste potenzialmente innocue che sfociano in tragedie. In mezzo alle solite situazioni assurde à la Coen, alla banalizzazione massima delle simple minds che abitano il Minnesota e all’effetto domino che ha ogni evento insignificante, emerge la personificazione del male: V.M. Varga. Un antagonista che, rispetto agli spietati killer delle precedenti stagioni, viene presentato da una parte come un individuo ripugnante e dall’altro come un brillante imprenditore che difficilmente si sporca le mani in prima persona. È sempre difficile fare una classifica delle stagioni di Fargo, la prima era molto legata al film, la seconda era un tuffo negli anni ’80 di Reagan con una forte affermazione di stile e linguaggio tecnico. Fargo 3 è probabilmente quella che ha osato di più, sia a livello di personaggi che di temi trattati, e questo è sicuramente apprezzabile. Resta ancora poco chiara la risposta del pubblico ad una serie interamente basata su uno storytelling così limitato ed è lecito chiedersi se il successo di Fargo sarebbe lo stesso senza la pesante eredità portata dal suo titolo. Se spegniamo il cervello e ci mettiamo a guardare il primo episodio di questa stagione ci troviamo però davanti ad un’opera più che godibile ed è questo che conta davvero. ()

Il nostro approfondimento su Fargo 3

Halt and Catch Fire (stagione 4)

Halt and Catch Fire, la serie più sottovalutata e tra le migliori degli ultimi anni — non a caso, per noi il massimo dello scorso anno — arriva, in questo 2017, alla conclusione. E lo fa, ovviamente, con quello stile narrativo sublime e impeccabile che ha caratterizzato le precedenti stagioni. Questa volta però, gli showrunner Cantwell-Rogers decidono di cambiare passo, di rivoluzionare ruoli, di aumentare ritmi e intensità, come mai fatto prima. E gli effetti di queste numerose novità non sono, a dispetto di altre serie, alienanti; anzi, scorrono via con naturalezza sin dal primo episodio, come se il nostro tempo combaciasse da sempre con quello della Los Angeles degli eighties/nineties. È grazie al perfetto realismo creato dagli autori che non ci ritroviamo mai spiazzati da qualche elemento fuori posto o da qualche evento incastrato a forza. Semplicemente, perché non ce ne sono. Tutto sembra seguire una linea naturale, come la vita. Ciò che stupisce è proprio questo mantenimento di coerenza anche nel continuo cambiamento; per usare un eufemismo, vi è sempre un ordine nel caos. Come non eravamo disorientati dal forte salto temporale operato alla fine della scorsa stagione, non lo siamo nell’episodio di apertura della quarta, dove di novità, per l’appunto, ce ne sono molte. A distanza di 3 anni infatti, i nostri si ritrovano tutti in posizioni abbastanza differenti: Joe e Gordon hanno creato un nuovo internet provider chiamato CalNect; Cameron continua il suo sogno di creare videogiochi e nel mentre collabora con i due sul web browser Loadstar; Donna è arrivata nei piani alti della AGGE della collega Diane. La bellezza di questi mutamenti risiede nei collegamenti che creano all’interno della storia di HACF. Perché nella crescita di alcuni personaggi principali, si instaura un gioco di saliscéndi di alta qualità: è il caso di Donna che passa da moglie/madre/collega premurosa e dolce a femme fatale e squalo dell’industria informatica, scambiandosi con il Joe delle prime due stagioni, ora invece sensibile, paziente, liberale. Gordon vince completamente le sue paure, le sue insicurezze e diviene un saggio e disinibito entrepreneur. Cameron invece, anche se più matura, rimane sempre intrappolata nella sua affascinante complessità. La première di HACF ricomincia così, in un mondo diverso ma familiare, dai tempi serrati ma composti. Difficile fare di meglio. ()

Happy!

Spietato, cinico, adrenalinico: un hard-boiled anarchico. Nick Sax è l’ex sbirro alcolizzato con una bimba da salvare, è l’antieroe richiamato al dovere nella città sporca. Dopo aver quasi rischiato la morte in uno scontro a fuoco, Nick si ritrova a vaneggiare convinto di avere delle allucinazioni. Un strano essere, un incantevole cavallino azzurro volante (l’Happy del titolo), si presenta con una richiesta: salvare Hailey, la sua padroncina, rapita da un Babbo Natale “pericoloso e puzzolente”. Parte così un viaggio di redenzione per Nick, che dopo un iniziale e scontato rifiuto decide di dedicarsi al caso, ormai arreso ad un inspiegabile e surreale destino. Gli ostacoli? Ovviamente Nick è ricercato dalla mafia, convinta che solo lui conosca una misteriosa password per l’accesso ai conti bancari di un boss. Cosa è reale e cosa non lo è? Nick sembra prendere la vita, la propria, poco sul serio: è lui il personaggio che più di tutti, nell’annientamento, cerca una via di fuga dal reale. Per Sax accettare l’esistenza di un amico immaginario di una ragazzina scomparsa non è poi così difficile. Il personaggio vive in un limbo di emozioni, costantemente votato al massacro, suo e degli altri. Rinnega il passato e si affida al mistero di un’apparizione, è un uomo con niente da perdere, che accetta la scommessa un po’ per gioco un po’ per sentirsi vivo. Quel proiettile è ancora lì, da qualche parte, a spingere per arrivare al cuore. Qualcuno o qualcosa lo ha salvato per uno scopo, e lui lo sente. Spavaldo, rozzo e sporco, il Nick Sax di Christopher Meloni è il successore ideale dell’Ash Williams di Raimi (l’utilizzo della shaky camera su Happy è un palese richiamo a Evil Dead, mentre l’accompagnamento musicale strizza l’occhio a Birdman di Iñárritu) trapiantato nella metropoli, il prescelto delle fiabe, chiamato a compiere un ultimo decisivo sacrifico riparatore. Brian Taylor, uno dei registi di Crank, è produttore esecutivo e showrunner della serie, con l’immancabile Grant Morrison a salvaguardia del progetto. Interessante, per ritmo e caratterizzazione dei personaggi, l’accoppiata eroe-imbroglione/Nick-Happy, protagonista e spalla, non funzionava così bene da tempo. Preparatevi al trionfo dello humor nero, ma soprattutto, pregate per un rinnovo! ()

The Leftovers (stagione 3)

È un atto di fede, il compimento di Lost, è il Mistero che si rivela nelle sagge mani di Tom Perrotta e Damon Lindelof. Un martirio sul punto di compiersi, alla fine di un percorso che ha portato solo macerie, morte e domande. Eppure chi guarda The Leftovers, chi si appassiona a questo piccolo capolavoro di narrativa contemporanea (eletta da Alan Sepinwall come una delle migliori serie in circolazione), non lo fa per cercare risposte. The Leftovers è la storia della civiltà, tra credenze e religioni, fatta di sacrifici, pentimenti, sangue e sofferenza: una salvezza che non arriva. The Leftovers è sentimento vivo, la certezza di uno sguardo altrove, di un destino che vada oltre la carne e l’umano. Kevin è capo della polizia a Jarden, Tommy un agente, Jill studia al campus e Nora in balia dei suoi demoni: la famiglia ha ritrovato il suo equilibrio. Un presentimento, un messaggio quasi di natura divina, mette in allerta Matt, qualcosa di terribile potrebbe accadere nel giorno del settimo anniversario della dipartita. Solo una nuova reincarnazione del Cristo potrebbe salvarci, un uomo che ha fatto della Passione il leitmotiv della sua esistenza. “I’m not fucking Jesus” tuona un imperioso Kevin nella chiesa del pastore; ma la tempesta alle porte e non c’è più tempo per le domande: urge sacrificare “l’agnello”. Così parte questa magnifica terza stagione, con un mondo ordinario sconvolto dall’incertezza, un’incertezza che come un marchio spinge alla pazzia e avvicina al sacro. È una scommessa vinta, dove i personaggi si affrontano per scacciare il senso di morte e ripartire dal dato astratto. Anche qui, come per Happy! e in maniera più adulta e drammatica, ci si interroga sul concetto di realtà. E come la vita smetti di chiedertelo, perché le uniche cose che contano sono gli affetti, e sopravvivere. Affrontare un tema come “l’eternità” con una delicatezza che appartiene solo ai classici, di questo è capace il recente e, sfortunatamente, trascurato prodotto HBO. Spero e mi auguro un recupero da parte dello spettatore più attento: The Leftovers, al pari di Six Feet Under, è una delle serie più emozionanti sul mercato. ()

The Deuce

È incredibile come le sceneggiature di David Simon siano ormai garanzia di qualità, da The Wire a Treme, da Generation Kill a Show me a Hero; infine The Deuce. La serie in questione ha un solo grande tema: il sogno capitalistico americano. Ogni personaggio un solo obiettivo: fare soldi. Le decadenti prostitute negli anni ’70 e gli inquinati isolati di New York, i papponi che si aggirano per
proteggere la merce e riscuotere, due fratelli gemelli indebitati con la malavita, una studentessa troppo furba per l’università statale, un matrimonio a pezzi, la necessità di arrivare al giorno dopo, per poi ricominciare con la giostra di fumo, pompini e minigonne. Un uso del linguaggio televisivo che avvicina ogni opera di Simon al neorealismo, tra uso dello slang e movimenti di macchina necessari. Due grandi guerre: quella del Vietnam e dei prezzi sulle donne di strada. Ognuno pretende qualcosa: Vincent, interpretato da un eccellente James Franco, che non vuole tornare a casa da moglie e figli per rifarsi una vita a Manhattan; Abby stanca di uno studio che non porta risultati; Candy, la bellissima Maggie Gylenhaal, che batte i marciapiedi per mantenere il figlio. E’ un viaggio nell’America che mastica anfetamina per passare esami, per non crollare dietro i banconi del bar, per alleggerire lavori poco stimolanti. Una vita al massimo, al limite della sopportazione, che spinge a trovare nuove forme di guadagno. Non ti puoi fidare di nessuno in The Deuce, devi capitalizzare la tua storia e saperla vendere. Lo dice Candy al ragazzino dopo il suo primo rapporto “non importa se duri o vieni subito, one ticket one ride. Come tuo padre che vende automobili, può incontrare il tizio che sa già quello che vuole come quello che ci mette una giornata: il costo rimane invariato. Questo è il mio lavoro, come qualsiasi altro”. Vincent che sbatte la porta della stanza del motel -senza intervenire-, dopo aver assistito ad un violento litigio tra una puttana e il suo protettore, rappresenta la chiusura perfetta all’episodio: gli eroi minacciano gli affari. ()

Riverdale

Inizia tutto in una tranquilla cittadina americana che sembra ferma agli anni ’50, con i suoi drive-in, i suoi piccoli negozi, il tutto circondato dai grandi boschi tipici del Nord America. Una voce racconta di come questa città, che da lontano somiglia a tante altre, nasconda delle ombre. 4 Luglio: i due fratelli Cheril e Jason Blossom prendono una barca per una gita mattutina sul fiume. Poco tempo dopo degli scout avvistano la sola Cheryl sulla spiaggia, la ragazza è bagnata e piangente, il fratello scomparso. Le ricerche iniziano, ma dopo una settimana il fiume ancora tace, e tutto viene archiviato come incidente. Dopo questo freddo inizio, il pilot di Riverdale ci regala un prosieguo a base di feste, cheerleading, rivalità, amicizie ed amore. Giungiamo ai protagonisti: Archie lo sportivo, giocatore di football con la passione per la musica; la sua migliore amica Betty, giovane ragazza della porta accanto; Veronica, l’intraprendente ereditiera, appena arrivata in città e Jughead il nostro narratore un po’ freak e disfunzionale. Quello che sembrerebbe il solito noioso cocktail da teen drama a cui la CW è tanto cara (Gossip Girl) si rileva qualcosa di diverso e a tratti inedito. I personaggi sono il contrario di ciò che sembrano, l’ ereditiera non è una spocchiosa viziata e la ragazza della porta accanto non è una Mary Sue tutta bontà e candore. Fin da subito lo showrunner non sembra battere un percorso prestabilito, usando i “pattern” classici del genere per ingannare e sorprendere lo spettatore già in questa prima puntata. Un uso sapiente di regia, montaggio e fotografia, appaga la vista, lontano dalla sciattezza stilistica di altri classici del genere come Pretty Little Liars e dalla povertà visiva di Tredici. ()

The Handmaid’s Tale

Offred è un’ancella, simbolo di fertilità in un mondo in cui la natalità è crollata vertiginosamente. L’ancella deve servire presso un uomo di potere, come genitrice in sostituzione della moglie infertile, come Rachele moglie di Giacobbe che diede a sua sorella il compito di dare un figlio al proprio marito (passo della bibbia recitato prima della Cerimonia, in cui l’ ancella accompagnata dalla moglie assiste impotente al suo stupro). Assistiamo impotenti a tutto quello che la circonda, dalla morte di persone a lei care, al rapimento della figlia, alla rabbia che monta in lei fino ad una simbolica catarsi finale, in cui le ancelle partecipano all’ esecuzione di massa di un uomo accusato di stupro, nella quale la rabbia accumulata viene sfogata al suono del fischietto. Non esiste solidarietà nemmeno tra le stesse ancelle, le donne sono messe l’ une contro le altre, chiunque può essere una spia ed essere scoperte vuol dire sofferenza o morte. Tutto ci viene raccontato da Offred stessa, dalla voce dei suoi pensieri, prigioniera, costretta a recitare anche con la ragazza che l’accompagna nelle commissioni quotidiane. Lo spettatore, allo stesso modo, non può entrare in confidenza con nessuno che non sia già entrato in confidenza con lei. Il mondo in cui si svolge la storia è quindi un “micromondo”, la storia di una madre che deve riprendersi la figlia rimanendo se stessa, contro una società che tenta di depersonalizzarla. La distopia viene usata per parlare della realtà, della donna come genitrice e intercambiabile strumento, colpevolizzate per gli stupri subiti, punite e discriminate da altre donne, che come delle kapò sono forse le vere antagoniste della storia rispetto alla controparte maschile, che nel corso dell’episodio è rilegata ai margini; lontano dall’orrore quotidiano della protagonista. ()

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