“Silence” di Scorsese e il grido dell’uomo

Il nuovo film del regista italoamericano è un intenso viaggio all’interno dello spirito umano

Chiara Grilli
La Caduta 2016–18

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C’è solo il rumore della natura in sala quando comincia il film, foglie, vento, forse acqua. L’inizio del nuovo racconto cinematografico di Martin Scorsese è un silenzio puro, vergine, che sarà toccato poi, violentato dalle domande buie dei personaggi e del pubblico stesso, protagonista a suo modo. Non è possibile uscire impassibili dalla sala, non è possibile mettersi a sfogliare la bacheca di Facebook, tornare alla macchina chiacchierando del più e del meno. La mente è tanto affollata da dubbi e da domande in cerca di risposta che è difficile persino parlare di ciò che il film affronta. Non c’è bisogno di spoiler, tuttavia, per discutere della brutale delicatezza con cui Scorsese ha raccontato i lati più profondi dell’animo umano. Partiamo dunque da un breve accenno alla trama.

La storia è quella tratta dal romanzo Silenzio del giapponese Shūsaku Endō che il regista lesse nel 1988, ma che solo nel 2006 trovò concretezza nelle prima stesura di una bozza. «Se guardo indietro — dichiara il regista in una recente intervista in La Civiltà Cattolica — , penso che questo lungo processo di gestazione sia diventato un modo di vivere con la storia e di vivere la vita — la mia vita — attorno a essa». Nel film Scorsese parla dell’uomo investigando se stesso, affronta il tema universale della fede confessando la propria.

Andrew Garfield è Padre Rodrigues nel nuovo film di Martin Scorsese

Due giovanissimi padri gesuiti portoghesi, Padre Rodrigues (Andrew Garfield) e Padre Garupe (Adam Driver), partono alla volta del Giappone alla ricerca di Padre Ferreira (Liam Neeson), che si vocifera abbia abiurato, rinnegando il Dio cristiano, sotto il peso delle repressioni e delle torture perpetrate dai funzionari giapponesi.

Non c’è molto altro da dire, se non che la missione dei due giovani religiosi sarà piena di trappole, di violenza, che la paura e il dubbio graffieranno le loro certezze più salde. La vera storia raccontata da Scorsese non è ambientata nelle splendide e umide montagne delle isole orientali, non nelle casupole in legno, sulle spiagge battute dalla tempesta, ma prende forma nei pensieri dei due Padri, in particolare nelle riflessioni silenziose di Rodrigues. Per questo motivo, il film risulta difficile. Alcune parti, nel secondo tempo, pesano sullo spettatore, forse perché Andrew Garfield non è all’altezza dello sforzo colossale che il suo ruolo richiede; forse perché, com’è altrettanto probabile, le questioni affrontate dal film richiedono un sforzo anche da parte di chi di solito va in sala godendo passivamente di ciò che lo scorrere delle immagini offre. Non aspettatevi Quei Bravi Ragazzi, tanto meno il più recente The Wolf of Wall Street. L’azione del film non è motoria, ma introspettiva e, nella sua distruttività, totalmente coinvolgente.

La crocefissione dei fedeli

Il primo tempo del film, perfetto nella fotografia, perfetto nei dialoghi, perfetto nel montaggio, è perfetto nella sua intensità emotiva. Quando le luci della sala si riaccendono per la pausa, gli occhi sono lucidi quanto quelli dei personaggi e, con un po’ di sano masochismo, si vorrebbe persino che il film non fosse stato interrotto, per godere ancora di quella commozione che è così difficile riscoprire oggigiorno, con le pellicole eccessive, assordanti e rumorose che ci siamo abituati a consumare. Il silenzio, come grida il titolo, è infatti il vero protagonista della pellicola: il silenzio di un Giappone primitivo; il silenzio terrorizzato dei fedeli costretti a nascondersi dai persecutori, proprio come i primi cristiani; il silenzio dei viaggi e il silenzio dei simboli religiosi, che rappresentano un Dio muto, che non grida il dolore, che non percepisce, sembra, lo strazio dei suoi figli.

Georges de la Tour. San Giuseppe falegname (dettaglio). Olio su tela. 1640 ca. Parigi, Louvre.

Il film di Scorsese è, dunque, anche un film di simboli, di immagini religiose che a volte riscaldano lo spirito di chi ne condivide il valore, al pari delle fiammelle che intiepidiscono le scene buie e impregnate di nebbia delle ambientazioni, come accade nei dipinti di Georges de la Tour (e non, come sostengono alcuni, richiamando Caravaggio, nei cui quadri, spesso, la luce proviene da fonti esterne alla cornice, invisibili all’occhio di chi osserva). Ma sono anche simboli che perdono il loro valore intrinseco, che diventano freddi, vuoti monili senza contenuto, perché, sembra dirci il regista, siamo noi a riempirli di significato. La fede confessata da Scorsese è personalissima, nasce nel soggetto e in esso brucia. Al contrario, la religione è relativa, perché è culturale:

«Non sono un dottore della Chiesa, non sono un teologo in grado di ragionare sulla Trinità. E certamente non m’interessano le politiche dell’istituzione. Ma l’idea della Resurrezione, l’idea dell’Incarnazione, il potente messaggio di compassione e amore… quella è la chiave»

Silence non è una storia di buoni e cattivi, non di bianco e di nero, ma di sfumature grigie. Scorsese non dà una risposta a quello che fin dall’inizio è presentato non come uno scontro tra vittima cristiana e carnefice giapponese, ma come una lotta che si rivela universale: sia tra culture incomunicabili, chiuse nell’arroganza di una Verità con la v maiuscola che non può e non dovrebbe avere una definizione unica; sia all’interno dello spirito umano, che può trovare la propria personalissima verità solo con la negazione della propria stessa arroganza. Come in Mean Streets, come in Toro Scatenato e come, da un certo punto di vista, in The Wolf of Wall Street, la chiave di volta del film è la lotta dell’individuo contro il suo stesso ego: l’arroganza di sentirsi imbattibile, la presunzione dell’ambizione, la superbia ingenua di porre la propria sofferenza sullo stesso piano di quella di Cristo. Quella che Scorsese presenta è la Passione individuale dell’uomo, sperduto entro la propria vacillante relatività, terrorizzato dalla scoperta di non essere infallibile, ma umano, forse troppo.

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