Sion Sono, nessuno e centomila

Antiporno è molto più di un semplice film a sfondo erotico. Cerchiamo di inquadrarlo in una prospettiva più ampia

Michele Bellantuono
La Caduta 2016–18

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Poeta e regista; stimatore del cinema di Nagisa Oshima, ma anche della letteratura di Moravia e Pasolini; sovversivo e visionario; dissacrante e surrealista. Questi sono alcuni dei volti di Sion Sono, alcuni emersi dalle rare interviste rilasciate dal regista, altri evidenti a partire dalla visione delle sue opere cinematografiche. Quelli diretti e (generalmente) scritti dal poliedrico autore di Toyokawa sono film che confermano la sua natura di auteur fuori dagli schemi e, allo stesso tempo, in maniera perfettamente lucida, la sua volontà di porre sempre in primo piano i diversi vizi della società nipponica contemporanea. Sion Sono intende mostrare i lati più oscuri di chi, in questa contemporaneità, procede arrancando, affrontando complessi problemi sociali oppure combattendo, tra lacrime e sangue, nel tentativo di definire il proprio io (e dunque il proprio percorso di vita) in un mondo che scarica sull’individuo caos e ostilità, già a partire dall’intimità del nucleo familiare. Impegno sociale e necessità di indagare a fondo il tormento contemporaneo in tutte le sue agghiaccianti sfaccettature — nello specifico della società giapponese del terzo millennio — sono dunque elementi ricorrenti nella filmografia di Sono: dai disagi del post-Fukushima, protagonisti di The Land of Hope e presenti sullo sfondo del bellissimo Himizu, al fanatismo dei troppi culti diffusi in Giappone, affrontato nel celebre Suicide Club e in Love Exposure, Sono regala una fotografia del Giappone a suo modo precisa, anche se spesso e volentieri iperbolica ed eccessiva, tendente a quella rappresentazione grottesca che mescola ironia e dramma.

Sion Sono

Una nota, questa, che nel caso di alcuni film può rivelarsi dominante, portando alla creazione di pellicole dalla natura disparata, governate da una spinta creativa del tutto svincolata da quell’impegno sociale di cui si parlava. Non per questo dobbiamo parlare di incoerenza: il talento del regista giapponese è semplicemente fuori controllo e all’occasione può regalare intrattenimento, splatter, pornografia o, appunto, un più sobrio dramma umano. Tutto ciò è infine reso appetibile da una maestria registica davvero eccezionale, che ha reso quasi naturale l’accostamento di Sono ad un regista dall’estro unico come Kubrick. Non si può negare che Sion Sono sappia come mantenere l’attenzione dello spettatore incollata allo schermo e a dimostrarlo ci sono film dinamici come Tokyo Tribe o Why don’t you play in hell. Ma ciò che ora ci interessa è la composizione di quel fil rouge che attraversa un po’ tutta la sua filmografia: una sensibilità del tutto speciale nei confronti dei suoi personaggi, specialmente quelli femminili, connotati spesso da una incapacità di definire la propria identità, inseguita in una sorta di viaggio dantesco percorso “a ritroso”. Dal Purgatorio all’Inferno, la via d’uscita dalla disperazione la trovi solo se ti sporchi le mani, se ti spalmi addosso quell’impasto di vernice colorata — presente nei racconti più drammatici di Sono — metafora materica del “peccato” (il cui significato cristiano è chiamato in causa in uno dei film più importanti del regista, il già citato Love Exposure) nelle sue manifestazioni più varie.

Una di queste manifestazioni, tra le presenze più importanti della variegata filmografia di Sion Sono, è il sesso, parte integrante di un fondamentale filo tematico assieme a quella ricerca/conquista della propria identità alla quale si accennava. Bisogna innanzitutto ricordare che il cinema di Sono è popolato da molte e diverse protagoniste femminili. Queste donne sono spesso rappresentate dal regista come oggetti eroticizzati, burattini dal corpo favoloso e carichi di lussuria; apparentemente la rappresentazione della figura femminile in Sion Sono sembra l’ennesima dimostrazione della presenza di una cinepresa dallo sguardo maschile, che vede e dunque rappresenta la donna come oggetto del proprio desiderio. In realtà, il regista giapponese presenta con i suoi film protagoniste femminili forti, dotate di un potere legato strettamente tanto al proprio corpo quanto alla propria volontà (di utilizzarlo s’intende). Attraverso il potenziale erotico, secondo quanto raccontano le immagini di Sion Sono, la donna può liberarsi da catene invisibili che la società le impone per proprio vizio o, nel caso nipponico, per una visione molto conservatrice della gerarchia tra sessi. Il sesso ed eventualmente le sue derive più perverse diventano dunque un’arma per ottenere la propria libertà. Assieme alla conseguimento di quest’ultima è infine possibile trovare se stessi, approdando dunque alla scoperta della propria identità — una delle conquiste più difficoltose e strazianti dei nostri tempi — attraverso un percorso di sofferenza che, nei film di Sono, viene presentato magistralmente.

Il disagio esistenziale espresso dalla protagonista di “Antiporno”

Questa premessa è necessaria per comprendere come l’ultimo lungometraggio di Sion Sono, intitolato significativamente Antiporno, non sia in realtà quello che potrebbe sembrare ad una lettura superficiale, suggerita oltretutto dalle origini produttive del film. Antiporno è infatti parte del progetto di reboot del Roman Porno finanziato dalla Nikkatsu, la storica casa di produzione cinematografica giapponese che, al fine di sopravvivere ad una crisi del mercato, decise negli anni ’70 di investire pesantemente in questo particolare genere (della “pornografia romantica”) e più genericamente nei pinku eiga, o “film rosa”, produzioni d’exploitaion a basso budget. A distanza di 45 anni, la Nikkatsu ha scelto di omaggiare il genere, da essa inventato, proponendone un reboot affidato a cinque registi: tra questi spicca appunto il nome di Sion Sono. Le produzioni odierne seguono naturalmente il rigido schema dei film prodotti in quel particolare frangente della storia del cinema nipponico: una durata intorno ai 60 minuti, un budget basso e prestabilito e, cosa di cruciale importanza, la ricorrenza di scene di sesso ogni tot minuti. I roman porno, ieri come oggi, sono dunque semplici prodotti d’intrattenimento indirizzati ad un pubblico adulto e principalmente maschile: l’erotismo è il punto di partenza e di arrivo, ma la cosa interessante è che ai registi è consentita una certa libertà stilistica e narrativa. Purché ci sia qualcuno che si spogli ogni 5 minuti, s’intende.

In ogni caso, in questo contesto nasce Antiporno, film che già dal titolo sovversivo ci fa comprendere che la strada intrapresa da Sion Sono è, ancora una volta, del tutto alternativa e d’eccezione. Cerchiamo di vederci chiaro. Antiporno è sicuramente un “film rosa”. La sua giovane protagonista Kyōko (interpretata da Ami Tomite) è intrappolata tra le pareti di una location surreale, una sorta di atelier dalle pareti colorate in cui la donna si muove con passi teatrali, recitando versi poetici seminuda in compagnia di una sottomessa segreteria, da lei trattata come una “cagna” da compagnia. Kyōko umilia e maltratta la donna, che accetta il comportamento con espressione rassegnata, chiedendo infine di poter diventare anch’essa “puttana”. Kyōko da parte sua sembra ritenerla troppo pura: l’umiliazione continua, mescolata ad un sempre crescente tensione erotica. All’improvviso qualcuno grida “Ciak!” e viene rivelata la natura della bizzarra location: le due donne, presto raggiunte da un gruppo di grotteschi personaggi femminili incaricati di intervistare la nostra protagonista (che capiamo essere una diva e autrice), si trovano sul set cinematografico di un porno. Con il richiamo del regista la cinepresa si sposta sul dietro le quinte di ciò che finora abbiamo percepito come uno spazio reale, inquadrando per la prima volta figure maschili che, con nostra sorpresa, sembrano considerare Kyōko una totale nullità.

Kyōko

La donna che recitava la parte della sua segreteria si rivela essere l’attrice chiave del film nel film: lei, assieme al regista ed altri membri della troupe, scarica su Kyōko la propria frustrazione, maltrattandola verbalmente e perfino picchiandola. Kyōko perde tutta la carica erotica e carismatica che ha caratterizzato il suo personaggio sin dai minuti di apertura, rivelandosi una creatura debole e indifesa, una giovane attrice che ha da poco accettato di partecipare alla realizzazione di un roman porno. Sion Sono ci presenta dunque una cornice piuttosto convoluta: un’opera di pornografia incentrata sulla realizzazione di un roman porno in perfetto stile Nikkatsu e assieme perfettamente coerente con l’eccentrica estetica di Sono. Eppure il suo Antiporno è molto più di una semplice opera di pornografia retta da dialoghi lirici e arredata come un set di videoarte; il nostro regista coglie l’occasione offerta dal reboot voluto dalla Nikkatsu per tornare ancora una volta su temi a lui cari, strettamente legati alla figura della donna nella problematica società contemporanea: quello del sesso come strumento di liberazione (non a caso chi vede oltre il Sono misogino ne coglie la sensibilità femminista) e quello davvero fondamentale dell’identità come insieme di frammenti da ricomporre.

Bisogna conoscere e comprendere il cinema del regista per capire l’importanza di un film che riprende concetti già elaborati in opere precedenti, includendoli in un’opera dalla personalità sperimentale, dall’andamento surreale e onirico, dallo sviluppo drammatico e assieme assurdo, dalla conclusione infine cinicamente negativa. Questo perché Sono raramente ritiene coerente un lieto fine. Vediamo dunque di inseguire dalle origini fino a quest’ultimo film il filo tematico che più sembra caro all’eccentrico autore giapponese.

Il disagio esistenziale di Kyōko è in effetti simile a quello di molti altri personaggi creati dal regista ed è ancora una volta legato alla necessità, talvolta urgente perché imposta da una società che non lascia tregua, di identificare se stessi creandosi un proprio spazio nella contemporaneità. Quella dell’identità spezzata è una sorta di ossessione di Sion Sono, tanto costanti sono i rimandi all’Io dei personaggi nei suoi film, accompagnati da una serie di immagini simboliche altamente significative. Ad esempio se prestiamo un po’ di attenzione agli oggetti presenti in scena (l’arte di Sion Sono si nasconde anche in particolari dettagli dell’inquadratura), notiamo la ricorrenza di specchi o, come nel caso di Antiporno, frammenti di vetro nei quali i personaggi si riflettono.

Quella di Kyōko è un’identità spezzata: il regista lo suggerisce già a partire da questa immagine

Ricorrono anche richiami al mondo del teatro e al cinema stesso; frequente nei racconti di Sono è il concetto di costante recita dell’uomo all’interno della società. La letteratura di Pirandello ha definito l’importanza dello scegliere una propria “maschera”, da applicare alla propria vera identità per poter di fatto vivere all’interno di un organismo sociale costruito su ipocrisia e finzione. Nel cinema di Sono si osservano spesso personaggi, prevalentemente femminili, nell’atto di scegliere la maschera più adatta a loro stessi: in questa ricerca si riversa la disperata volontà di costruire o affermare una propria identità. Questo processo, come dicevamo, è un tema che attraversa in diverse declinazioni l’intera filmografia del regista, a partire dai primi lavori fino ad Antiporno. In ciascun film incentrato sul rapporto tra individuo e massa (che in Sono si manifesta come sovrastruttura sociale o culto fanatico) i protagonisti affrontano diverse fasi di riappropriazione della propria identità. Nei casi più estremi i personaggi sono ancorati in uno stato dominato da un tragico dubbio esistenziale, concetto che credo sia ben riassunto dal titolo originale di uno dei lavori più precoci e sperimentali di Sion Sono: Keiko Dessukedo, tradotto in lingua inglese come I am Keiko (“Io sono Keiko”) ma che in realtà, traducendo letteralmente, suonerebbe piuttosto come Sono Keiko, ma, lasciando quindi una significativa avversativa finale che sottrae veridicità al primo elemento, cioè al nome della protagonista. Sembra un concetto banale ma le sceneggiature dell’autore giapponese sono ricche di frasi di questo tipo, e di scene nelle quali i personaggi gridano a gran voce il proprio nome con l’intenzione di reclamarlo e avvicinarlo a se stessi.

La necessità di indossare una “maschera” è cruciale in molte storie di Sion Sono
Binomio finzione/realtà rappresentato in una scena significativa di “Antiporno”

È quello che avviene ad esempio già in Noriko’s Dinner Table, prequel di quel Suicide Club che ha reso noto Sion Sono in occidente. Senza scendere nei dettagli di una delle trame più complesse del regista, è sufficiente qui accennare ad un elemento chiave del plot, ovvero la presenza di una speciale agenzia che offre ai suoi clienti un servizio di “noleggio parenti”: si può dunque passare una serata in compagnia di una figlia o moglie (attori adeguatamente educati) scelti secondo i propri criteri da un vero e proprio menù umano. Due sorelle, Noriko e Yuka, decidono di scappare dalla loro opprimente famiglia e vengono reclutate da Kumiko (nickname Ueno54, uno dei membri del famigerato Club dei suicidi) entrando a lavorare nell’agenzia; saranno infine protagoniste di una scena assurda quando il loro padre riuscirà a trovarle, scegliendo quindi di affidarsi all’agenzia per poter cenare con loro, ignare della natura del loro cliente. Il gioco dell’identità in Noriko’s Dinner Table si rivela contorto e sofferente e Sono ne approfitta per gettare un velo pietoso sulla sacra istituzione della famiglia, nucleo disfunzionale e decomposto, dal quale è naturale fuggire. La famiglia disfunzionale è in effetti uno dei punti fermi della filmografia di Sono: in essa nascono conflitti che minano le possibilità di crescita dell’individuo o ne influenzano negativamente l’esistenza, come una sorta di maledizione.

L‘assunzione di una diversa identità diventa un vero e proprio lavoro su commissione in “Noriko’s Dinner Table”

Nel successivo e batailliano Guilty of Romance ad esempio convergono questi due elementi, quello dell’identità e quello della famiglia come trappola nociva. Il sesso fa da cornice. Da un lato una delle tre donne protagoniste, Izumi, cerca di annegare segretamente in uno stile di vita dissoluto il proprio ennui esistenziale, dovuto ad una relazione di coppia sterile e poco appagante (fatta di sentimenti plastificati e meccanicamente espressi nella routine quotidiana): Izumi rifiuta il ruolo di moglie educata e pudica per intraprendere la carriera della prostituta, aiutata da un’esperta del settore, Mitsuko. Quest’ultima è una colta docente universitaria che di notte si trasforma in una luciferina versione di se stessa, accompagnando Izumi in un inferno fatto di sesso sfrenato a pagamento nei più squallidi quartieri a luci rosse di Tokyo. Izumi trova in questa attività una propria ragione d’essere, quella che le mancava nella precedente vita coniugale: la scelta consapevole di un inferno personale è per Sono un atto comprensibile e dotato di una sua dignità, per quanto sofferente e infine moralmente deviato. La dark lady Mitsuko, d’altra parte, nasce significativamente all’interno di un contesto familiare complicato: il padre, dal quale lei ha ereditato il carattere oltre che la sensibilità culturale, le nega ogni attenzione ma al tempo stesso sembra in segreto provare per lei una forte attrazione erotica. Il rapporto padre/figlia rivela dunque dinamiche freudiane, che di fatto sconvolgono la vita della Mitsuko nella quale la donna sceglie di svendere se stessa a uomini qualunque in cambio di pochi soldi. L’importante, insegna a Izumi, è che paghino, non importa quanto: importante è non regalare nulla, affermando dunque la propria identità, diciamo, a suon di scopate.

Mitsuko e Izumi in “Guilty of Romance”

Prima di Antiporno è infine nel 2005 l’originalissimo film horror Tag a riprendere in mano questi temi, illustrando la crisi dell’identità (ancora una volta riguardante il mondo femminile) in una chiave splatter che si addice all’eccentricità stilistica di Sion Sono. Il film, dopo pochi minuti, ci presenta una scena misteriosa e sanguinaria: un autobus pieno di studentesse viene tagliato in due da una forza invisibile che appare come vento. La sola a salvarsi il collo è Mitsuko (l’attrice e modella austro-giapponese Reina Triendl). Nel corso del film, uno dei più dinamici e surreali della filmografia di Sono, il nome di Mitsuko viene associato a tre diverse identità attraverso un misterioso processo di scambio di corpi: inizialmente nel corpo di una studentessa liceale, Mitsuko si ritrova ad indossare i panni di una sposa e infine di una maratoneta. È stato osservato come queste tre figure identifichino in realtà tre protagoniste dell’immaginario feticistico maschile giapponese, elemento effettivamente confermato dalle sequenze finali di Tag, nelle quali Mitsuko, recuperato il controllo dopo sofferenti scambi di identità, si trova ad affrontare un futuro distopico in cui lei è protagonista di un videogioco indirizzato evidentemente ad un pubblico maschile.

Anche in “Tag” come in “Noriko’s Dinner Table” la sceneggiatura vede in più punti il reclamo (qui esasperato) della propria identità

Mitsuko arriva infine a conoscere il programmatore del gioco che svela i misteri iniziali: le disavventure di Mitsuko a partire dalla fatidica gita in autobus si rivelano essere una simulazione virtuale, ciclicamente ripetuta per scopi ludici. L’anziano programmatore la invita quindi a “soddisfare il suo destino”, indicandole un uomo svestito e steso su un letto in attesa di accoglierla. Lei si ribellerà decidendo di uccidersi con un pugnale e riaffrontando lo stesso destino in ciascuna fase del gioco (come studentessa, come sposa al matrimonio e infine come atleta). Sion Sono chiude Tag con un’immagine delicata: Mitsuko corre in una distesa innevata fino a perdersi fuori dall’inquadratura. In Tag in sostanza è la società (maschile) a imporre ruoli alla donna, incatenandola di fatto in categorie identitarie “preconfezionate”. Sion Sono punta il dito contro la società nipponica in particolare, tradizionalmente basata sull’autorità patriarcale.

I tre feticci di “Tag”: l’atleta, la studentessa e la sposa, protagoniste dell’immaginario erotico dell’uomo medio giapponese

È solo alla luce di questi precedenti passaggi che si può quindi correttamente leggere un film a prima vista criptico come Antiporno. In quest’ultimo lungometraggio, che esteticamente è il lavoro più vicino alla video-arte e tra i meno accessibili di Sion Sono, il tema dell’identità femminile da edificare su sacrifici anche corporali è assolutamente centrale. Anche Kyōko attraversa un inferno personale rappresentato dalla vendita consapevole del proprio corpo come merce per prodotti audiovisivi pornografici, un po’ come l’Izumi di Guilty of Romance. Oltretutto la sua è una classica famiglia disfunzionale alla Sion Sono, in cui il padre dimostra perfetta incoerenza nell’affrontare l’argomento del sesso con la figlia: da un lato definisce osceno l’interesse di Kyōko, mentre scambia a tavola frasi sconce con la sua nuova compagna, che da parte sua ricambia senza troppi freni. Ancora una volta Sono evidenzia dunque l’inadeguatezza della famiglia conservatrice nel processo educativo. Quello di Kyōko si rivela comunque un incubo senza vera via d’uscita: il sesso non la rende davvero libera, ma al contrario la costringe in un meccanismo industriale cinico e opprimente, nel quale la dignità della persona passa completamente in secondo piano. Dicevamo che per Sion Sono le esplosioni di pittura sui corpi degli attori simboleggiano l’ungersi con un peccato nuovo e definitivo, che difficilmente si riesce a eliminare dalla propria pelle. Ci riesce forse il giovane protagonista di Himizu, uno dei film più ricchi di pathos e disperazione di Sono; e a suo modo sopravvive anche la prostituta neofita Izumi, accettando di vivere in una realtà fatta di violenza e disprezzo piuttosto che affrontare un finto rapporto di coppia.

La vernice è una presenza ricorrente nel cinema di Sono (qui da sinistra a destra in “Antiporno”, “Himizu” e “Guilty of Romance”)

Kyōko invece resta intrappolata nella sua realtà, tentando disperatamente di darsi una definizione. Sion Sono ci offre una perfetta immagine della sua condizione inquadrando di tanto in tanto una lucertola incastrata in una bottiglia dal collo troppo stretto, troppo cresciuta per poterne uscire (questa è anche l’immagine che chiude il film). Come lei, Kyōko non riesce ad uscire dalle sue quattro mura colorate che la definiscono senza lasciarle tregua o possibilità di reclamare una propria libertà. La vernice multicolore torna a piovere dal fuori campo, formando una pozza grigia nella quale Kyōko non può che vincolarsi senza speranza: la sporcizia questa volta sembra aver avuto il sopravvento sulla sua vittima. Antiporno è ben altro che un’opera pornografica commissionata da un produttore storicamente noto per aver portato alla gloria il genere pinku eiga. Antiporno è soprattutto il cinico punto di arrivo di un percorso tematico profondamente coerente con la poetica e sensibilità del suo autore, un vero genio del cinema che ha saputo con intelligenza ed estro creativo affrontare temi delicati mostrandoli attraverso l’eccentrico filtro del suo folle cinema.

Kyōko e il suo “alter ego” intrappolato nel vetro

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