Illustrazione di Benedetta Notarandrea

Storie Cosmonautiche #0

Prologo di una storia non-storia, molto nautica e poco astro; memorie dall’LCEnterprise.

La Caduta
La Caduta 2016–18
5 min readMar 9, 2018

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È questa la cornice che vuole inquadrare il flusso di un tempo di narrazioni che vogliono salvare un uomo e un’umanità dalla solitudine. Una mille una notte, una mille e una stella, una mille e una vita. Shahrazād è qui anche il re pronto ad un uccidere, perché la nostra solitudine, come la nostra capacità di salvarci, è dentro di noi, ma le storie che riescono a svegliare la vita vengono dal mondo e dall’altro da noi. Il protagonista racconta e ascolta se stesso, e raccontandosi ed ascoltandosi si ritrova e ricostruisce. Come una mille e una notte perenne, una mille e un buio compagno, una mille e un tempo che fluttua, il protagonista — che scopriremo lontano da noi e da se stesso — tirerà le fila della sua solitudine per stringersi a se stesso e riconoscersi, per tramutare fili in funi ed approdare in un porto che è Terra, in un porto che è vita.

In questo grande mondo vivono piccole persone, e le piccole persone convivono con ancor più piccoli pensieri e sogni. La materia di questi, per essere studiata, non ha bisogno di strumenti da tenere tra le mani, ma di occhi per guardare. È un allenamento per quella piccola creatura che vive dentro di noi: la curiosità e la voglia di capire — e ascoltare. La voglia di trovare l’altro. I più grandi scienziati hanno iniziato da questo: dal voler capire l’altro da sé e cosa si nasconde dietro tutto ciò che ci circonda. Sono andati a fondo sempre e sempre più, per scoprire che — sotto, sotto — siamo tutti uguali, della stessa pasta, della stessa materia. Tutti uguali ed incredibilmente diversi, da studiare nella varietà. Questa è la fascinazione, pensava l’astronauta, un tempo.

A differenza, però, degli scienziati da neutrini, l’astronauta sempre aveva pensato di dover guardare non da vicino, ma da lontano: una visione d’insieme. Come inferno e paradiso c’è chi si sarebbe sempre occupato del basso, della profondità, e chi, come lui, dell’alto — dell’altro, del più inaccessibile dei luoghi — che luogo, poi, non è: lo spazio. Eroico, pensava, ma ora non più.

Intrappolato nella straordinarietà dell’ordinario, l’astronauta partì, di nuovo. E nel distacco non sentì più nulla. L’astronauta che doveva raggiungere la base non pensava ad altro: viaggiare per, tornare per. Nulla, si ripeté un’ultima volta. E perso il controllo dell’instabile, questo ingegnere spaziale si perse e, mentre gli scienziati si chiedevano Dove arriveremo?, il povero astronauta si chiedeva Dove siamo?. La linea retta di una corsa verso l’innovazione si trasformò in una spirale di movimenti non chiari né a lui né a chi era già stato avvertito dell’anomalia di quella navicella. Nello spazio, certo, non si cade, non si precipita, e questo è ciò che l’astronauta pensò prima di chiudere gli occhi. Lo spazio mentale e fisico coincisero: nulla, vuoto nulla e pieno niente, buio.

Era possibile che avesse perduto la fascinazione. Lui per primo, l’aveva perduta. Lui, come un impiegato statale che affoga nei documenti e codici che hanno tutti forma e significato uguale e diverso. Come un impiegato statale che pigia ed emette click, lui vedeva le stelle. Lui, l’astronauta, aveva perduto la fascinazione. Aveva perduto il significato del sogno segreto, nell’immersione, nel tempo che non esiste veramente, nel vero infinito. Fluttuare nello spazio ora non aveva più senso. Il rapporto col sogno che era divenuto scelta ed era divenuto vita, ora, lui, non sapeva ritrovare. Aveva perduto, ma cosa in realtà? Aveva perduto le stelle, il nulla, il tutto, l’inizio? E cos’erano queste prima? E chi lo cercava, ora?

Una voce metallica, lontana, gracchiò.

Non — preoccuparti. Stiamo — arrivando. Recuperare — le — coordinate. Recuperare. Stiamo — per — trovarti. Ti — stiamo — cercando.

Come un coccio ridotto in mille pezzi l’astronauta cercava la maniera di risentirsi unito, di risentirsi parte relazionabile. Ad occhi chiusi cercò la fascinazione. Stiamo arrivando, continuava a ripetersi, ad occhi sempre più serrati, l’astronauta. Chi può ritrovare chi desidera perdersi? Chi può rapportarsi con chi è disperso, ormai?

L’astronauta non era — più — un eroe. L’astronauta, comunque, non si era mai sentito veramente tale, ma agli occhi degli altri lui qualcosa era, qualcosa di più. Avventura, coraggio, intelligenza, fascinazione. Questo ora era niente. L’eroe muore, l’astronauta, ad oggi, torna. L’eroe scopre, l’astronauta, ad oggi, monitora ed elabora scoperte compiute per lui da macchinari frutto dell’ingegno umano, ma non umani. L’eroe non conosce la paura, l’astronauta, ad oggi, sa di sopravvivere al viaggio. Più marziano sulla Terra che non nello spazio e sottoposto a tutti i test per vedere quali effetti sull’uomo ha la straordinarietà che non è più eroica: è sperimentale, è fredda, è meccanica.

Lajka, mia eroina, pensava l’astronauta nel buio infinito dello spazio esterno ed in quello limitato della sua mente. Ci si perde in un pensiero — inaccessibile — come in un incontro: la relazione è nulla senza motivazione. Immensità e limitatezza. A reggere le fila riaffiorano soltanto le stelle di legno appese al soffitto nella cameretta di un neonato. Al bambino le stelle impareranno a sognare, ma scoprirà presto che l’inganno si nasconde in un filo invisibile che gli ha lasciato troppa libertà di credere. Come l’amore.

Come l’amore, sussurrò l’astronauta facendo eco al pensiero. E si sorprese un po’ nel pronunciare quella parola lì, da solo, nello spazio. Lo ridisse, allora, e scandì amore. Sorrise, e non aprì gli occhi. Era perso e ritrovato, e per un attimo fu tentato di ricontattare la base, ma ad occhi chiusi era come se niente avesse davvero importanza, ora, tranne quella parola che ancora gli stuzzicava le labbra.

Il filo invisibile che lasciava cadere le stelle dal soffitto, lo stesso che lasciava il bambino sorprendersi e domandarsi e crescere, non può deludere. Quel filo è ciò che mai si deve perdere: quando si perde il filo si rischia, si è vulnerabili come una foglia d’autunno. Si sbaglia, non si coglie più il senso del discorso, della storia, della vita.

Risuonarono le note di un violino pizzicate con violenza in una mente scordata che voleva recuperare il suono di una vita perduto in uno spazio pieno di nero nulla, di nero vuoto e di nero silenzio. Mente e corpo lontani, volontariamente ed eroicamente, perduti per squarciare pentagrammi invisibili e schemi prestabiliti che inquadrano un pianeta sferico e una mente atavica. Stelle, spazio e silenzio.

Relazioni come stelle, appese a quel filo che tiene tutto: può essere vita, può essere morte, può essere fragile, può essere forte; le Parche, il mito, filare, amare, ragnatele come vita per il ragno e come morte per l’insetto.

Aracne, pensò l’astronauta, e fu di nuovo mito. Fu di nuovo vita.

Tessere, rammendare, rimediare, ritrovare, riprendere, correggere, recuperare, raccontare.

Tutto, pensò l’astronauta, tutto è mito, recupero. Tutto è narrazione, tutto si tramanda raccontando. Posò le mani sugli occhi e cercò la fascinazione per la prima volta davvero, ed immaginò. E volle ritrovare storie e racconti dentro di sé. Storie e racconti capaci di riportarlo al passato e al futuro e a se stesso e agli altri.

Sospesi come stelle i racconti iniziarono a fluire dalla mente dell’astronauta che aggrappandosi ai fili invisibili che solo le parole sanno intrecciare cominciò ad arrampicarsi ed assicurarsi — per partire, per tornare, per essere.

Testo di Michela Gentili
Illustrazione di Benedetta Notarandrea

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