Illustrazione di Benedetta Notarandrea

Storie Cosmonautiche #1 — DESTINO

La Caduta Enterprise, Capitolo primo. Narrazioni dall’iperspazio, in soccorso di sé stessi

La Caduta
La Caduta 2016–18
9 min readApr 18, 2018

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Prima Settimana — più nessuna risposta. Cosa ne sarà di me, che cosa mi aspetta in questa terra di nessuno? Il segnale è debole, a tratti assente, mi sto aggrappando alla speranza di toccare di nuovo la terra, alla mia prudenza, ai viveri. Forse è stato già tutto scritto, come — mi ricordo — quella volta, quella storia..

DESTINO

Suona il campanello. Dino — ultraottantenne — apre: è Mario — coetaneo.

- Dino, ciao!

- Mario, carissimo. Benvenuto, mi regali un sorriso.

- E tu, amico mio, un giorno in più.

- Come sarebbe? Avanti spiegami, mettiti seduto, vieni.

Si accomodano, il divano di pelle giallo è usurato, ma accoglie le forme dei corpi — usurati anch’essi — come un grembo materno: incavato.

- Semplicemente dovevo vederti. Oltre che spinto dalla voglia, il Destino, mio caro Dino, voleva che — prima di lasciarvi tutti — io ti vedessi, ancora una volta.

- Il Destino, dici? Non saprei, mia moglie crede in Dio (come la tua, tra l’altro). Io guardo la messa in televisione la domenica mattina. Non mi va di pensare. Sono vecchio, per questo.

- Non si è giovani o vecchi, purtroppo. Dipende dalla Lista, c’è chi l’ha corta, chi lunga. Mi segui?

- Una lista, dici…

- No, la Lista. Come della spesa, ma senza ricotta, e con questa “L” bella grande perché è importante!

- Un elenco, insomma, di cose.

- Attento, non di cose. Di Cose, con la “C” maiuscola. Cose da fare Dino, capisci? La Lista di Cose da fare nella vita. Mi segui ora?

- Vecchio Mario, capisco una cosa: che sei vecchio. Cos’altro vorresti fare, chissà in questa vita? Se questa lista…

- Lista!

- Sì, scusami. Ammettendo che questa Lista esista, non pensi che ci sarebbero solo cose già fatte ormai e l’ultima cosa sarebbe morire, e non vivrai abbastanza per spuntarla?

- No, no, no Dino! È proprio il contrario. Tu sei la tua Lista, la Morte è il Destino. È la fine, non c’è bisogno di spuntarla: si compie quando hai fatto tutto ciò che dovevi fare. Non puoi morire, se non hai spuntato tutto!

- È un po’ paradossale, Mariuccio. Da ciò che dici sembra che per vivere più a lungo basti mettere la lis… (Dino! La “L”!) la Lista in un cassetto, dimenticarsene. Anzi, sbagliarla. Se non spunti, non muori. Giusto? È questa l’immortalità, Mario?

- Ma il Destino non si inganna, carissimo Din Don. Se tu dovessi mangiare un animale avariato per incontrarLo (e sì, morire, ahimè), e dovessi essere vegetariano, stai certo che la donna della tua vita sarà una macellaia.

Seguono risate, sguaiate — a mascella assai aperta, nonostante l’età — per Dino, o Din Don, che dir si voglia.

- Mi fai ridere, Mario, ma cosa dici? Cosa dici, via, ora basta! Sono arrivato ad una veneranda età, insieme a te, ed entrambi sappiamo che il nostro stile di vita ci ha mantenuto sani, coglione! Per questo puoi ancora posare il tuo culone flaccido sul mio divano!

- Va bene, Dino! Vecchio brontolone, mi hai stufato. Cominciamo con le parole grosse? Chissà cosa dovrai fare tu, ancora!

- E se fosse quel pugno sul muso? Ricordi? Quello stesso che non ti ho dato ormai troppo tempo fa? Credimi, sarei felice di stringere la mano a questo signor Destino sin d’ora solo per la soddisfazione di spaccarti quel grugno imbestialito!

- Uffa! Ancora Ada mi tiri fuori? Pensa quanto sei vecchio! Pensa tu, Dino vecchio vecchiaccio! E se tua moglie sapesse della tua debolezza per la mia Monica? Gli si spezzerebbe il cuore.

- Come a tua moglie a sapere della tua debolezza per la mia Ada. O l’evidenza del tuo perpetuo innamoramento non necessita di giustificazioni?

La pressione ad ottant’anni si alza velocemente, e le forze che corrono lungo le articolazioni, ormai interrotte in un punto o in altro, si inferociscono lungo le loro vie e spezzano l’equilibrio di una mente — da sempre — incline all’infuocarsi. Ansimano entrambi, chi più dalla bocca per l’aver sputato parole, chi dalla testa per aver arroventato i pensieri. Ah! Quella scatola crudele dei ricordi lasciata ad ammuffire nelle recondite soffitte della mente. Perché aprirla? Perché rivivere una vita già vissuta e già dimenticata?

Mario respira, e guarda fuori. Un’ape sta corteggiando i fiori che Ada lascia vivere nei vasetti in terrazzo. Li corteggia tutti: è innamorata.

- Parliamo di francobolli, Dino, che è meglio.

- Mi fai ridere, Marietto. Sì, vediamo questi pezzetti di carta. Sono qui, dimenticati, da troppo tempo.

Un grosso raccoglitore regala immagini di storia in miniatura, fotografie di altre vite incorniciate da una carta bianca dentellata. Alcuni francobolli portano il segno dei viaggi: il timbro postale — troppo impresso da poter mandar via, come il ricordo di chi incide il destino di una persona.

- Sono una meraviglia, Dino. Come sempre.

- Una condanna, mi dirai! Ada vorrebbe vederli ardere, lentamente, nel caminetto.

- E Monica accenderebbe il fuoco, ed entrambe ci si scalderebbero le mani, quelle cialtrone.

- Quante chiacchiere, per carità. Le donne sanno far solo quello.

- Ore ed ore, infinite.

- Tutte cazzate poi! Non mi sforzavo neanche di seguirle. Quanti straordinari mi ha toccato fare per uscire da quel chiacchiericcio infernale? Sempre e solo chiacchiere!

- A parlar bene, però.

- Ma che dici, Mariè. Tutte lingue cattive, se stavano insieme. Le donne sanno parlare male, e basta, tra di loro. Sono malate, non c’è da dir altro.

- Inutili cattiverie.

- Non per me, se Ada parlava con Monica, io me ne potevo gironzolare libero e giocondo. Nessun peso sulla coscienza. “Bada alle figlie, Dino”, mi faceva Ada. Sì, due volte!

- Le avresti lasciate con le mutande sulla testa quelle povere figliole, a correre in giardino, fosse stato per te. Che incosciente…

- Intanto sono cresciute belle, sane, ma purtroppo cieche.

- Perché cieche? Ma che racconti?

- Mi pare abbiano sposato ognuna uno dei tuoi figli, magari sbaglio? Se non è giustificabile con la cecità questo, non so cos’altro.

- Vecchio vecchiaccio burlone! Son cresciuti insieme, cosa ti aspettavi? È un amore genuino, e ci ha imparentato. Anche se… il piccolo me lo avete lasciato a bocca asciutta! Ne hai fatta una di meno! Cosa ti costava farne un’altra? Un dispetto, Dino, come sempre. E poi il piccolo Andrea si mangiava le mani per la piccola Giada, e lei si è innamorata di Stefano, alla fine.

- Anche se fosse stato Andrea a prendersi Giadina te ne sarebbe rimasto lo stesso uno fuori, coglione! E non venirmi a dire cosa potevo o non potevo fare: è storia vecchia. Tu le mie te le sei prese tutte, almeno tu c’hai un poveraccio ancora da consolare.

- Stai buono con le parole, per favore.

- E tu non sbrodolarti addosso, te ne prego, sei vecchio che fai schifo.

- Prendo esempio dal migliore, Dinino.

- Mi sa che non t’ho menato abbastanza quando potevo!

- Stai zitto ora! Questo. Cos’è. Avanti! Rispondi.

- Un francobollo, imbecille.

- T’ho detto le parole!

- Le mani, io.

- Dino! Ma è quel francobollo? Mi avevi detto di averlo venduto, anni fa. Mi sarei giocato la casa, il lavoro, i figli, per questo! Non ti ho parlato per un anno, perché mi avevi detto che lo avresti venduto a quel deficiente di Ruggiero! Ma come hai potuto? Schifoso… bastardo!

- Le parole, Mariè! Sì, è lui comunque. Eri impazzito, non volevo ti giocassi la testa. Per questo non te l’ho voluto dare. E poi, ti dirò, un anno è volato (e in silenzio, per fortuna).

- Sei un idiota, ci tenevo così tanto…

- Ci credo, valeva due o tre milioni di vecchie lire. Oggi con questo ti ci compri casa, ed è solo un pezzetto di carta.

- Dino…

- Prendilo.

- Cosa? No, che dici? Non… posso. Non posso accettare, Dino.

- Sì, che puoi. Te lo regalo.

- Sei pazzo: è una fortuna! Lauretta potrebbe viverci un anno, senza lavoro com’è.

- Laura è una cogliona, ha fatto gli studi da cogliona. Prendilo, che cazzo…

- Sei pazzo!

- Mario, te lo ficco nel…

- Lo prendo! Ho capito! Oh, Dino! Grazie!

- M’hai fatto sudare, coglione. C’ho duemila anni.

- Ti voglio bene.

- Ma che cazzo dici? Sei impazzito? Ecco perché non volevo dartelo!

- E dai! Vecchio decrepito, mi fai ridere quando cominci a dire parolacce.

- Sarà, ma tu sei pazzo Marietto. Ti va una tazza di tè? Non t’ho offerto niente, mi dispiace. Chiedo ad Ada se ci mette su l’acqua, apparecchia e tutto.

- Ti sei bevuto la testa: le sette sono. Il tè, sì. Per domattina, se va bene. Già non dormo per conto mio. E poi chissà, come sarebbe che non mi hai offerto niente? Guarda con cosa torno a casa, Dino! Tu oggi mi hai aperto il cuore. Non ti rendi conto, mi hai…

- Sì, fatto un bocchino, tra poco! E non dirlo in giro, Mà, ci perdo la reputazione!

- D’accordo Din Don, ti saluto, allora. Mio figlio passava a prendermi a quest’ora. Prima che arrivo di sotto, con tutte queste scale si sono fatte le otto.

- Sì, bravo, levati dalle palle.

- Appena arrivati sei sempre tanto educato. Dopo poco, un mostro.

- Devo cagare, Mario. C’ho novant’anni tra poco.

- Sempre tu, ciao Dino. Grazie. Fatti abbracciare.

- Sì, va bene. (E comunque ti voglio bene anche io).

- È importante.

- Che non t’ammazzi per le scale, è importante. Ciao Mimmo.

- Ciao Diddo.

Dino seguiva dal terrazzo la macchina sparire dietro l’alta siepe che costeggiava il vialetto. Non si ricordava di quale dei figli di Mario fosse quel modello d’auto, e si chiese se a prenderlo fosse venuto Gabriele o Andrea — gli altri, dopotutto, erano fuori città, e con loro anche le sue bambine.

Pensò, senza un perché, ai pranzi di Natale, di Pasqua, a tutti compleanni, i matrimoni, i battesimi vissuti insieme. Sì, insieme, sempre. Lui, e il suo Marietto.
Sorrise: una vita intera passata ad intrecciare le proprie vite, permettendo ai propri figli di intrecciare a loro volta le proprie dita, di nascondersi e ritrovarsi, di innamorarsi, di rafforzare i legami.

Tutto quell’amore. Tutto quel cercarsi fin da piccoli, quando il vivere e il giocare sembrano ancora la stessa cosa. Guardò i fiori di Ada, e si ritrovò a pensare a Monica, per la seconda volta in una giornata. Pensava alla treccia nera, a quella sua posa elegante, aggraziata, al gusto che provava nello sfilarle le scarpette e poi i calzini, a scioglierle i capelli, e ad amarla pensando che nessun’altra avrebbe scaldato il suo letto.

Corrucciò la fronte, e pensò a quel primo bambino di lei. Di Mario? O suo? Non sapeva con certezza, ma non gli diede mai troppa importanza. Dopotutto Monica fin da adolescente aveva consolato i cuori di entrambi, e nessuno dei due voleva realmente sapere chi amasse di più.

Allora pensò ad Ada, sua moglie, dello sbocciare veloce dell’infatuazione, dell’averla veduta ballare e sudare fino a notte. Di quel corpo focoso, ansimante e imprevedibile. E il ventre che si gonfiava spesso, pieno di una passione che non poteva non mettere al mondo che femmine. Non aveva mai dubitato di lei, della sua devozione. Eppure c’era quella figlia così diversa, quei colori così spenti, e la mano di Mario che carezzava le cosce di Ada quel giorno al lago. Ma non importava. È così facile arrabbiarsi e spezzare un legame, e così difficile essere felici pur intrecciandosi e creando nodi, sfruttandoli per rafforzarsi anziché perdersi.

Da sempre quelle donne avevano confuso e tormentato i sentimenti di entrambi. Tanto che, probabilmente, si sarebbero potute amare tutte e due contemporaneamente. E forse così era. E non importava. Non importava mai nulla perché prima di ogni altra cosa, c’erano loro due: Dino e Mario, fratelli d’amicizia, di vita — e di morte. Fin da sempre insieme. Le avventure nei mondi fantastici della fantasia infantile, quelle pericolose da adolescenti quando non si conosce ancora il limite e si vuol toccare il rischio, quelle da adulti, da padri di famiglia, e quelle da anziani ormai imbevuti di emozioni ed esperienza.

Una rondine uscì dal nido lasciando cinguettare i propri piccoli, e Dino arrivò alla conclusione che la macchina che era venuta a prendere Mario fosse di Gabriele, e che, quindi, sua figlia Giulia si trovasse a casa ad aspettare che tornasse il marito per cenare. Pensò di chiamarla, e di tenerle compagnia finché fosse rimasta sola. Si diresse verso il telefono, alzò la cornetta. E rimase fisso, impalato, immobile.

Un numero, come gli altri, conosciuto da sempre. Quella serie di segni tanto familiari ora era come dispersa nella mente. E la mente era il vuoto. E il vuoto era bianco, e la vista era il nulla.

D’un tratto, un abisso.

Una lacrima, e un sussurro prima di cadere a terra.

- Ada…

Due vite, una sola treccia.
E se anche i giochi possono esser tanti, tra sfumature e intrecci, in fondo un elastico unisce le due ciocche, che terminano — insieme.

Due ciocche, un solo Destino. Quello di Dino e Mario, che tra il ricevere e il donare, hanno spillato l’ultimo punto della Lista, come sempre, insieme. E insieme, cadendo, si rialzano in quel groviglio luminoso che è fine e inizio.

Testo di Michela Gentili
Illustrazione di Benedetta Notarandrea

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