Sul tempo della politica

Rapidità e fretta; attese, ripetizioni e immobilità. Se il tempo non è più un fattore della politica

Simone Muraca
La Caduta 2016–18

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Nelle sue Lezioni Americane Italo Calvino aveva scelto cinque parole per spiegare il millennio che sarebbe venuto. Era il 1985 e quello che cercava di fare era trovare “alcuni valori o qualità o specificità” della letteratura che potessero in qualche modo situarsi negli anni a venire.

Una di quelle cinque parole era rapidità.

In quelle pagine si diceva, tra le altre cose, che ogni narrazione è un’operazione sulla durata; il suo agire — costruzioni e strutture — determina lo scorrere del tempo del racconto. Formule e percezioni di lettura, tecniche. Narrazioni che si dilatano e si contraggono. La stessa storia può essere raccontata in molti modi, perfino facendola diventare un esercizio identico e sempre diverso — lo fece Raymond Queneau nei suoi Exercises.

Anche la narrazione politica non è estranea a queste regole. E quella di questi ultimi mesi è una narrazione lenta, ciclica, ripetitiva. Dalle elezioni di inizio marzo sembra non sia successo nulla. Temi contratti; discussione dilatata all’esasperazione sul poco di novità che di volta in volta si può aggiungere al già-detto. Tutto il contrario della rapidità, la politica di questi mesi è emblema di una narrazione lenta del fallimento. Mandati, discussioni, incontri, esplorazioni. È fallito tutto, tra la sorpresa di pochi e la noia di molti. Quel che viene dopo è solo il disinteresse (vedasi percentuali di astensionismo nel mondo occidentale dal crollo del Muro ad oggi).

Da cittadini aspettiamo il governo, incapaci di comprendere a fondo come veti incrociati e intenzioni poco intelligibili impediscano di ragionare sulle prospettive di questa legislatura. Girovaghiamo distratti tra agenzie che non sono notizie, camminando lentamente verso quello che tutti segretamente aspettiamo: un colpo di scena (improbabile) o la declinazione inevitabile di una legislatura partita zoppa, consecutio temporum delle scelte di un Paese diviso come non mai in cui in “noi” contro il “loro” scardina alla radice l’essenza della politica proporzionale: il compromesso finalizzato all’accordo. Così votare diventa inutile. Non serve la discussione sul valore di verità, serve la percezione pubblica. Ma la categoria dell’inutilità, applicata al voto, è sempre pericolosa. Nella lentezza esasperante dell’attesa immobile l’elettorato si anestetizza, senza racconti latitano le passioni; senza passioni atrofizzano le volontà.

“Se la volontà generale muore”, potrebbe essere un bel titolo di studi rousseauiani di questa transizione. Già, perchè vale la pena riguardare quel capitolo del Contratto Sociale sulla morte del corpo politico. “Il potere legislativo — scriveva Rousseau — è il cuore dello Stato, il potere esecutivo ne è il cervello, che dà il movimento a tutte le parti. Il cervello può essere colpito da paralisi e l’individuo vivere ancora. Un uomo può restare demente e vivere: ma non appena il cuore abbia cessato di funzionare, l’animale è morto.” (Contratto Sociale, l. III; c. XI)

Il parlamento c’è ma non funziona. Siamo uno Stato paralizzato specchio di una collettività paralizzata; con un esecutivo trasparente. Anatomopatologi della politica sarebbero pronti a staccare la spina perchè, si dice, la salute di questo corpo politico è una questione di tempo. Qualcuno se n’è accorto, altri tirano la corda fino a chè possono, altri ancora fanno finta di niente.

Giocare con l’opinione pubblica rischia di essere un campo minato: il voto rischia di essere depauperato di ogni valore; il Parlamento — conseguenza del voto — anche. Così la democrazia rappresentativa e il parlamentarismo. A quel punto sì che il voto diventa inutile. Basta l’acclamazione.

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