Sulla classe della classe disagiata

Da antiquari, abbiamo scoperto a quale classe appartiene questo libro. E se la classe non fosse acqua? Noi qui vediamo una bottiglia.

Pier Francesco Corvino
La Caduta 2016–18

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Questo articolo vuole essere una retrospettiva sulla Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura; ma perché proprio una retrospettiva? Potrebbe domandarsi il lettore. E allora, procedendo con ordine:

  1. Il lettore è inutile che si domandi cose, che tanto il lettore medio di questo articolo non esiste.
  2. La retrospettiva, poi, è strumento necessario quando di un libro si è detto già tanto, forse troppo. Quando un libro, cioè, è oramai subissato dalle recensioni, dai pareri, dalle opinioni e, periodicamente, dallo sdegno, tanto che del suo contenuto non resta che un coacervo di reazioni.

Tanto basta, comunque, per farne un libro di successo. Figurarsi, al giorno d’oggi è talmente malsano scrivere qualcosa con l’ambizione della durata, che il reiterarsi di un dibattito diventa, senz’altro, motivazione sufficiente a giustificare una ristampa.

Ora, delle tante voci che si sono alzate pro o contro il nostro, la critica più tagliente è stata forse quella di Valerio Mattioli, una stroncatura in grande stile, capace di blandire mentre ti passa allo scudiscio. Tanto tagliente, appunto, da farci riflettere sulla necessità di aggiungere altro. Forse è già stato detto tutto? O piuttosto, è già tutto finito? Dico l’affanno del momento, l’affanno e la necessità di dimostrare, di provare il giusto e lo sbagliato di un libro; ma dico anche la fine di un vero e proprio state-of-mind, di qualcosa, cioè, che in fin dei conti deve pur essere esistito, dal momento che qualcuno o qualcosa questo libro deve averlo generato, deve averlo provocato. Qualcuno ne è stato tagliato fuori, qualcuno se ne è avidamente appropriato.

Bene o male, basta che se ne parli, dunque. Il minimo che potevamo fare, in questo senso, era di trattare questo volumetto-prodigio come materia storica, come trapassato, non scontentando nessuno, e forse facendo felici tutti: facendo felici noi, che, col piglio disinibito dell’antiquario, possiamo trattare col bisturi il dato; facendo felice, potenzialmente (per chi meglio di lui questo termine) l’autore, che, come già detto, si trasforma in un laconico paragrafo di un’eventuale storia della letteratura. Uno di quei paragrafi appena abbozzati, che servono a catturare un presente non ancora compiuto; o forse un trafiletto critico, di quelli bellamente saltati a scuola, di quelli scritti di malavoglia dal critico purista, che sospira sulla tomba di Carlo Emilio Gadda.

[Poi che la critica (giusta) di Mattioli ci sembri un po’ pedante, giacché sfida pretestuosamente nel merito un testo che, parlando a nome d’altri, non pensava di doversi giustificare; di sicuro non lo scriveremo qui, perché questa è, e rimane, una retrospettiva. E, figuratevi, se troverete qui mai scritto che Teoria della classe disagiata non è un testo di filosofia, come invece è stato millantato (senza nulla togliere all’autore), perché non si può rifiutare una donna e poi amarla in actu signato. Giammai.]

Va da sé che in questa specie di résumé non è concesso dire tutto, giacché si presuppone che già qualcosa si sappia, a grandi linee.

Creator and creatures, Vilhelm Hammershøi

Eppure, ancora, da qualche parte bisognerà pur cominciare; per esempio da questo assunto: che questo libro sia ciò che si dice una risultanza. Questa classe disagiata di raffinati pacconi astinenti, infatti, è senz’altro l’oggetto ed il soggetto di questo volume, lo scritto e lo scrittore. Proprio per questo, oramai, non è più interessante sapere se una tale classe sia un luogo, un sentimento o una persona; tanto basta che sia esistita e che parli per qualcuno o per qualcosa. Tanto più, è stato detto, se si intende questo libro come una vera e propria bozza programmatica, una sorta di manifesto, che non risolve, certo, i nodi problematici, ma li evidenzia, li focalizza. E allora, di queste risultanze in merito alla vita di una classe disagiata sarà giusto fare un utilizzo oculato:

per un lavoro che disprezza i linguaggi settoriali, ad esempio, non dobbiamo pretendere un glossario, una lista ragionata dei termini, con i pedissequi rimandi; i capitoli hanno, per forza di cose(?), un andamento narrativo, che sfida la sociologia con la letteratura, con l’esibizione smaliziata di una verve civile, sebbene depoliticizzata. Ventura si sforza di parlare senza filtri e, soprattutto, senza retorica, contagiando

chiunque sia in possesso di un discreto livello di istruzione (e magari di relativo titolo di studio), contempli o abbia contemplato non meglio precisate velleità “intellettuali” (si tratti del romanzo tenuto nel cassetto quanto di un lavoro come programmatore informatico) e si ritrovi adesso a navigare a vista in un mondo fatto di disoccupazione, bassi redditi, precariato perenne e aspettative deluse. (Mattioli, 2017)

Tutto regolare, o meglio, in linea col personaggio. Eppure, il problema dell’oratore sta nel piedistallo. Per dire, mi è capitato una volta, a Jesi, di sentire un comizio di un piccolo gruppo di anarchici, in cui un anziano oratore si vedeva moralmente obbligato a dirsi fortunato, perché percepiva una pensione da fame, da ex-operaio; e non credo lo facesse soltanto per guadagnare retoricamente consenso, o almeno non intenzionalmente per questo, quanto piuttosto per recuperare, con la remissione dei peccati, la libertà maledetta degli astanti, e tornare a parlare da loro pari. Ecco, una cosa simile accade, io credo, all’autore Ventura; mosso dalla sana(?) preoccupazione di parlare a molti, se non a tutti, il nostro sembra latitare fra uno sfoggio controllato di erudizione socio-economico-letteraria, ed una ripresa sempre ironica, caustica e, soprattutto, nullificante, che ambisce al recupero di una saggezza beata, quella del senso comune.

Potremmo dire che Teoria della classe disagiata è il sentore agrodolce che dovette esplodere in bocca al vecchio assistente di cattedra, non quando la sua figura giuridica venne cassata, ed il suo contratto di ricerca non rinnovato, bensì quando, tornando al paese natio, al bar venne accolto dagli amici di un tempo come “il professore”.

Così, a dispetto di tutto, professore senza abilitazione, per giunta senza cattedra, e oramai senza stipendio; eppure, di ritorno dai languori del mondo accademico, l’assistente è circondata da un’aura che vedono tutti quelli che sono rimasti a casa. E quindi Ventura ironizza sul poverello, volatilizza le sue sottigliezza, le sue giustificazioni; Ventura spacca le idee con i fatti, ci fa vedere lo zimbello del liberalismo classico e la grottesca profeticità del marxismo, ma anche le prodezze del neoliberalismo, ma anche la pochezza del sogno keynesiano. Ventura intaglia una procace poetica della nostalgia, cercando di tracciare un filo d’Arianna fra la rivolta estetica del passato e l’estetizzazione commerciale della rivolta contemporanea.

E come dare torto al nostro?

E non si può, certo, per i motivi di cui sopra, ma, poi, chi ne ha più voglia? Tanta gente direte voi, certo, ma tanti, tutti nessuno. Tanti che si sono sentiti violati, quando Ventura ci ha detto che lui le risposte nei libri di sociologia, di economia, di filosofia, non le ha trovate, e quindi ha dovuto cambiare le domande sua sponte. Tanti nessuno, dicevamo, inconsapevoli membri della classe disagiata (magari perché a dispetto del disagiato autentico, loro lavorano pure) che hanno letto, che hanno affrontato e contestato Ventura, chiedendogli di uscire dal guscio di un sentimento nazional-popolare, e di venire a confrontarsi nel merito (cfr. supra). Ma non c’è niente da fare, poco da dire, perché tutti questi disagiati cronici, instancabili e indemoniatamente inconsapevoli, nonostante le qualifiche e le prodezze speculative, al bar sono tutti professori.

Ed è poco più di questo che ha scoperto Ventura: che non era vero che l’intellettuale era uscito dalla turris eburnea, perché era eburnea tutta la loro vita. E contro questa verità oramai analitica (perché ricordiamolo che questa è solo una retrospettiva) c’è poco da dire, c’è poco da fare; a meno che non troviate il coraggio di parlare anche con quello zio che ogni anno, a Natale, vi dice cosa ci fate con quello che fate, e poi perché lo fate, e dove ci andrete; e va bene. Ma più di questo, c’è soltanto la riproposizione pleonastica, badate finemente letteraria, di un topos marxopositivista, che purtroppo per il nostro, ha una tradizione così italiana, accademica e novecentesca, che ci vorrà più di un Ave Maria per ritornare a parlare nazional-popolare. Ed il topos è così strutturato:

  1. il capitale si appropria della cultura (intensa come istruzione, educazione, produzione di “plusvalore letterario” ecc.) e la riduce a panem e circensem;
  2. il capitale strumentalizza la cultura e la ri-riduce ad un meccanismo depotenziato di sterile precarizzazione, di mobbing, di regressum ad infinitum;
  3. il soggetto individuato dal dispositivo capitalistico è preso in un vortice… e poi niente, basta; primariamente perché questa botta di capitalismo spietato, quale neanche Luporini avrebbe ammesso, non è incline ai rastrellamenti, e colpisce nei vicoli, uno per uno, gli assistenti da soli. È quindi esso stesso a contraddire una classe di uomini soli; non si dà classe senza condivisione di valori, senza un values-sharing vero e proprio. Si dà soltanto la storia di due amici al bar disoccupati, irripetibile, ma sempre la stessa.
Interior in Strandgade, Sunlight on the Floor, Vilhem Hammershøi

Ma anche qui, il classismo disagiato ha la risposta, la contradditorietà dell’argomento di cui sopra è l’ennesima prova che le teorie della crisi hanno fallito. Ma la crisi c’è! Eccome se c’è! E allora dobbiamo darne una spiegazione, fosse anche costruendo un immaginario viziato, ma comunque buono allo scopo.

Ma insomma, in questa retrospettiva antiquaria, vogliamo dirlo cos’è questa Teoria? Non a che genere appartenga, (perché non c’è da dire se questo libro sia un saggio o un pamphlet sulla crisi, ma se sia la crisi del saggio o del pamphlet) ma che cosa sia materialmente, a cosa serve, per parlare da disagiati woke. Questo lavoro è l’opera di un vincente, è un lavoro che ha vinto e che gode dell’analiticità di giudizio che hanno quei discorsi che sono sulla bocca di tutti, “è scontato che sia così”, per capirci. Scontato, ma non stupido, c’è da precisare.

Cui prodest? Dicevamo. Delle due una;

  1. Se questa Teoria sarà anche testamento, dovremo tornare a parlare del metodo e delle prerogative della cultura, e va bene; ma con chi? Se la cultura che vegeta non è più spendibile, se è solo emottisi, la vecchia cultura è tagliata fuori; e lasciamo stare “il bar” che è terra impervia e con l’esclusione dell’Italia dai Mondiali, bisogna stare molto attenti. Ma c’è una medietas, e che cavolo, c’è questa fascia preziosa di lettori tipo, che ci indicava il rapace Mattioli! Gente che assiste ed ha assistito ben volentieri ai seminari di Ventura, anche con un certo sentimento di rivalsa. Questi potrebbero essere l’humus del dialogo, il permafrost del nuovo? O non rischiamo, forse, l’infinita ripetizione di tanti piccoli io empirici? Un manifesto che promuove molto silenzio e molta attesa, dunque; col rischio di un urlo solitario che Milo Manara definirebbe (e disegnerebbe) diversamente.
  2. Se questa Teoria, invece, è una narrazione antropologica (e antropomorfa) della malinconia, come quella bile nera che attorcigliava le budella degli studiosi moderni e oggi dei disagiati, essa può rappresentare il lato acido, nero, pessimistico, della popsofia d’ultima moda; e cioè di questa voglia debolista di criticare a buon mercato anche ciò che non se lo merita, con lo strapotere del giudizio. La sua esposizione può essere talmente includente, talmente allargata, tirata, talmente divaricata, da diventare una fissione preannunciata. Un’esposizione che promuove molto silenzio e molto attesa, dunque; più probabilmente, però, questo silenzio sarebbe quello che preannuncia la tempesta. La tempesta di una critica a questo modo di fare critica, dirompete, senza ritegno, e, forse congenitamente, autodistruttivo, che sfocia in un emblematico, tradizionalissimo, barocchissimo canto, sulle virtù del silenzio.
Open Doors, Vilehelm Hammershøi

Ventura è un po’ come uno di quegli agenti dell’FBI che ebbero la sfortuna di morire in missione segreta, durante la guerra fredda. Vinsero la battaglia, ma non ebbero gli onori delle armi.

La classe disagiate dovrà pur riflettere, o quantomeno vedersi riflessa, in questo libro, ma non sta né a noi, che viviamo nel passato, né a Ventura, che è caput mortuum del discorso, decidere come.

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