Sulle parole della politica: incompetenza e esattezza

Se la crisi politica è parte di una crisi di sistema che ha perso il rapporto tra parole e verità

Simone Muraca
La Caduta 2016–18

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Siamo nel mezzo della peggiore crisi politica degli ultimi decenni. Giuseppe Conte si è ascritto alla categoria degli infelici traghettatori mai salpati dalla banchina. A breve diventerà l’ennesima comparsa della commedia dei dimenticati: (“ma te lo ricordi Giuseppe Conte?”). Era un presidente svuotato di autonomia e di potere che ha fatto naufragio in porto, senza nemmeno il sorriso capitanesco di assistere al proprio varo.

Si è abbattuta quella tempesta i cui segnali erano tutt’altro che esoterici. Eravamo qui ad aspettarla, guardando il cielo farsi scuro. Il buio non è arrivato di colpo. Per mesi abbiamo letto di come la paralisi fosse ad un livello ben più profondo di una «poltrona» o una impasse di nomina. La crisi politica ha termine nel Parlamento, nei fatti di questi giorni e nei mesi di nulla che li hanno preceduti, ma comincia da più lontano. Nelle città, nelle strade, nelle scuole, tra le persone. Una crepa di sistema, di culture della politica, di elettorato, di informazione, di ragioni per difendere la bella politica, di narrazioni che sostengano questi scudi. Guardare il fenomeno più prossimo e vicino nel tempo — un governo saltato, una nomina — è un errore se possibile più colpevole di tutti gli altri.

Il culto dell’incompenza
Chissà quanto pagherebbe Emìle Faguet per tornare un solo giorno ad apprezzare la sua lungimiranza. Andrebbe infatti recuperato (anche dall’oblio del fuori catalogo) quel mirabile e vecchio libretto che scrisse un secolo fa e che si conserva nella memoria di pochi adetti ai lavori: Le culte de l’incompétence.

Faguet, repubblicano liberale e conservatore, a inizio Novecento polemizza contro una certa tendenza che riconosce nella democrazia. Il popolo vede con ostilità le disuguaglianze create dalla società, ma ancor più insopportabili gli sono la disparità di talenti e competenze figlie di quei talenti. Così l’anzianità è di per sé un peccato e la gioventù un pregio. Finiscono bistrattate, dice Faguet, anche cerimonie e buone maniere istituzionali e tutto ciò che implica un riconoscimento di superiorità, per quanto anche simbolico. Non serve nessuna competenza tecnica, perchè non c’è nulla che il popolo non possa imparare. Non servono mediazioni, perchè il popolo «soprattutto vorrebbe governare da sé, senza delegati, senza intermediari: il suo ideale è il governo diretto come esisteva ad Atene; il suo ideale è la ‘democrazia’, nel senso in cui la intendeva Rousseau» .

Sempre più — scrive Faguet — il popolo finisce per nominare come suoi delegati personaggi privi di qualunque talento e competenza. Uomini così intimamente simili all’ “uomo della strada” «da fare sicuramente, istintivamente, quasi meccanicamente, ciò che esso stesso farebbe se formasse da solo un immenso corpo legislativo». Un delegato privo di idee personali, senza particolari eccellenze personali né scolastiche, «che condivida i sentimenti generali e le passioni generali della folla, che non abbia altro mestiere che occuparsi di politica e che, se venisse meno la carriera politica, morirebbe di fame» (Cap. I: I principi delle forme di governo).

Attenzione a non scivolare sul ghiaccio delle differenze linguistiche. Per la pragmatica, la competenza è nel senso comune un “essere capace”, “essere preparati”. Ma l’etimo della semantica porta su altri significati, ed era a questo senso intimo della parola che faceva riferimento Faguet.

Il termine “competenza” deriva dal verbo latino cum-petere: “chiedere, dirigersi a” che significa andare insieme, far convergere in un medesimo punto, ossia mirare ad un obiettivo comune, nonché finire insieme, incontrarsi, corrispondere.

Entrambi i leader arrivati fino qua da vincitori — Salvini e Di Maio — rispecchiano fedelmente il ritratto dell’incompetenza faguetiana. Entrambi hanno sempre e solo fatto politica, uno da molto tempo (Salvini, dal 1992), uno da meno (Di Maio, dal 2013). Non hanno mai lavorato al di fuori della politica e tuttavia sono lontani dall’esserne professionisti (cfr. M. Weber. La politica come professione). Sono entrambi diplomati: un livello d’istruzione medio, né basso né altro, esattamente come la maggior parte degli italiani. Soprattutto parlano lo stesso linguaggio.

Le parole e l’esattezza
Il culto dell’incompetenza del popolo, dice Faguet, ha una condizione fondamentale: il popolo e i suoi delegati devono parlare la stessa lingua. Cioè lo spazio di comunicazione ha bisogno di essere il medesimo, solo il delegato politico deve essere «appena meglio» — cioè deve saper parlare in pubblico etc.

L’alleanza di governo ha messo insieme coloro che parlavano lo stesso linguaggio, non coloro che avevano la stessa visione politica. Per questo abitiamo un crinale di incompetenza politica, perchè le convergenze non sono politiche ma linguistiche: prima o dopo finiscono per mettersi insieme coloro che non hanno le stesse politiche ma gli stessi modi d’interpretare il mondo. Va tutto oltre il cum-petere (il dirigersi a) nella sua negazione anti-progettuale di navigare a vista tra idee diverse ma nello stesso verso (il “cambiamento”). Le idee sono secondarie, a dispetto di quel che vien detto. Una meta-politica che si autodetermina come post-ideologica: “nè di destra nè di sinistra”, dice Di Maio; Salvini ha firmato un programma con progetti impensabili per una destra tradizionale, per esempio il reddito di cittadinanza o in generale tutta la filosofia antiliberista. Ma è più facile che sia solo un ribaltamento di soggetto e oggetto: gli ideologi s’inventano la politica dopo-le-idee perché loro di idee non ne hanno una che stia con l’altra e con se stessa più di un mese di fila.

Oltre il fact-checking, il linguaggio politico è tutto spostato dentro le categorie del falso tollerabile di una perenne campagna elettorale in cui non contano discrasie, contraddizioni e antitesi. Non a caso l’Oxford Dictionnary scelse come parola del 2016 (anno dell’elezione di Trump) post-verità, ovvero:

un aggettivo che denota circostanze in cui fatti obiettivi sono meno influenti nella formazione [di un’idea] dell’opinione pubblica rispetto ad appelli a emozioni e convinzioni personali.

Non conta la verità di quello che mi viene detto, conta se chi me lo dice mi ispira fiducia e fino a che grado ciò che dice corrisponde con ciò che io già credo.

La post-verità cancella l’esattezza delle parole, il loro rapporto con la realtà, con la fiducia delle storie di cui si fanno carico. Aveva ben intuito tutto questo Calvino, come spesso gli accadeva.

Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Non m’interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quello che mi interessa sono le possibilità di salute.
(Lezioni americane: Esattezza)

Senza parole, senza capire il senso dello strumento di difesa più importante che abbiamo, è inevitabile fare affidamento su strumenti pre-razionali di affiliazione emotiva. E noi siamo un paese che non conosce le parole e non se le va a cercare. Il rapporto Istat sulla conoscenza disegna inequivocabilmente lo stato di un paese ampiamente in-informato, senza velleità culturali (dati di lettura di libri, riviste e quotidiani, cinema, teatri ecc.sono molto lontani dagli altri paesi avanzati) e analfabeta (funzionale e di ritorno). Eppure, come notato da Annamaria Testa, fortemente engagée.

Portato al futuro, rimane a profezia quel verso di Eliot nel secondo dei Quattro Quartetti: si apprenderà a usare meglio le parole per quello che non si avrà più da dire.

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