The Affair e la casualità del successo

Una terza stagione inconsistente tra personaggi ridicoli, una trama strappalacrime e tanti, troppi, temi sommariamente trattati. Siamo al capolinea?

Giacomo Alessandrini
La Caduta 2016–18

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The Affair è una bellissima serie drammatica del 2014, trasmessa da Showtime per la penna di Sarah Greem e Hagai Levi. Era, ora non più. Nel 2016 sceglie definitivamente di cambiare pelle e trasformarsi in un aborto da schernire accompagnandosi a una birra ghiacciata; la palese dimostrazione che le imponenti produzioni, se non adeguatamente seguite da professionisti, possono scadere nel banale e creare degli intrecci incomprensibili per deviare dalla soluzione. Una terza stagione, quella conclusasi il 1 febbraio del 2017, incapace di rispondere alle richieste di un pubblico sempre più annoiato da personaggi abbozzati a servizio del melodramma.

La storia, semplice ed efficace, segue una relazione extraconiugale tra uno scrittore sull’orlo di una crisi di nervi e la cameriera di una tavola calda. Il primo è ossessionato dall’idea di un futuro incerto, si chiede se riuscirà mai a scrivere qualcosa di decente, la seconda è vittima di un traumatico passato, in costante lotta contro un destino di disperazione e violenza. Grandissima la scrittura della prima parte della stagione, che vede i due amanti prigionieri di una passione autentica, esaltando e\o contrapponendo momenti di pura tensione sessuale a situazioni estremamente drammatiche. L’egoismo vince sul principio di unità dell’istituzione familiare: i due protagonisti si sottraggono ai doveri per vivere in un universo narrativo anarchico. Mentre analizziamo più da vicino le figure di Noah ed Alison riscopriamo l’uomo della metropoli alle prese con i meccanismi alienanti (il desiderio di una stabilità lavorativa, il condizionante uso dell’appendice tecnologica, il sogno americano in frantumi). La cittadina di Mountauk a Long Island, dove si svolge parte del racconto, è un metaforico portale per altre dimensioni. Noah, come Alison, vede in quella spiaggia, in quel mare calmo, in quell'azzurro idilliaco, l’ambiente ideale per un nuovo inizio. Un atto di fede si compie durante i segretissimi incontri: la rinuncia all’io (chi schiavo di una vita inappagante, chi di un ricordo).

Il 2015, annus horribilis: la produzione, non soddisfatta degli ascolti dell’anno precedente, decide di modificare i meccanismi espositivi della serie, abusando del cliffhanger, accentuando gli aspetti confusionari (fruizione di elementi mistery) e facendo del grottesco un marchio. Obiettivo prioritario: economizzare la presentazione. Dalla scarcerazione di Noah a Parigi abbiamo vissuto in una campana di vetro, coccolati dalla giostra dei personaggi: Alison lotta per l’affidamento di Joanie; Cole rivive la condizione di un fragile matrimonio; Helen rischia il crollo psicologico, innamorata più dell’ex marito che dei figli; Juliette è schiava dell’Alzheimer del marito. Lo scrittore è il centro del nostro mondo, in lui gravitano le disgrazie di un passato irrinunciabile. Le visioni di un Gunther assassino, che accompagnano il protagonista per dieci lunghi episodi, sono frutto di una mancata razionalizzazione della colpa. Solamente dopo aver accettato l’omicidio della madre, come elemento costitutivo della propria identità, potrà tornare a vivere nella consapevolezza della morte e finalmente crescere. Quello di Noah è un percorso di redenzione senza soluzione di continuità. Il titolo del suo primo romanzo, The Descent, rappresenta il miglior strumento interpretativo dell’instabilità emotiva dell’eroe.

Travaglio e parto gemellare per gli sceneggiatori, che allestendo un palcoscenico poco credibile di lacrime e sangue tentano di risollevare in maniera rocambolesca le sorti di uno show ormai privo d’interesse. Li immagino lì, nel loro stanzino, come scimmie ammaestrate, atte a chiedersi il perché di quel lavoro malpagato.

Salviamo il finale di questa stagione furbescamente incomprensibile: Noah in taxi, ignaro della destinazione da percorrere; una conclusione tremenda ed onesta, in linea con le scelte politiche del network. Il mancato sviluppo dei temi è il tallone d’Achille della produzione americana: 1) la malattia; 2) il suicidio assistito; 3) il divorzio; 4) le abominevoli condizioni dei detenuti in carcere; 5) la falsa testimonianza in sede processuale; 6) il rapporto tra realtà e immaginazione; 7) il superamento del fenomeno traumatico. Si pensi agli ottimi risultati ottenuti impiegando l’originale approccio al dramma sentimentale della prima stagione: sto parlando del Golden Globe per la miglior serie drammatica nel 2015, a quello per la miglior attrice in una serie drammatica consegnato a Ruth Wilson nello stesso anno, o ancora quello vinto da Maura Tierney nel 2016. Trasformare la più classica delle storie di tradimento in un thrilling avvincente non è un’operazione ordinaria, soprattutto se progetti di lavorare ad un trattamento che prevede l’uso intensivo delle svolte narrative; gli sceneggiatori, in questo senso, sono riusciti nel 2014 a convincere gli abbonati adottando il doppio punto di vista (double point of view) nella scrittura episodica, incoraggiando l’ovvia immedesimazione. La coppia di adulteri espone una condizione unica e personale, dividendo l’episodio da quaranta minuti in due macro-sezioni: il raffronto tra la visione maschile e femminile della medesima vicenda. La prima stagione conta sull’effetto sorpresa, sulla verità di quei sentimenti espressi da un’incredibile recitazione.

Rimane, sfortunatamente, solo una traccia di quei giorni. Dal 2015 viaggiamo su binari differenti, con l’inserimento della componente procedural a snaturare l’operazione di restyling di un genere noioso per definizione. Così il drama diventa serial, e in un batter di ciglia il delirante finale della seconda stagione mette in cattivo risalto l’opera. Non c’è pace tra gli ulivi: il fandom si scatena nei forum, cercando di dare un senso a quanto visto. The Affair ha scelto di non essere più un prodotto sobrio e funzionale, cadendo nel più prevedibile dei tranelli e perdendo quella necessaria coerenza strutturale, emblematica delle migliori TV series d’oltreoceano. La pretesa di dover raccontare, per contratto, una storia ricca di pathos, ha costretto gli showrunner ad una condizione di “caccia disperata” del climax nella scaletta, un atteggiamento da telenovelas argentina che le produzioni Showtime non possono e non devono permettersi. Il trionfo della banalità viaggia su queste coordinate, infarcendo gli script di frasi colorite e paternali da oscurare il peggior scribacchino.

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