The Primavera Diaries

Piccolo diario dal miglior festival d’Europa: una line-up clamorosa in una delle città più affascinanti del Mediterraneo

Enrico Del Bianco
La Caduta 2016–18

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Forse non lo sapete, ma il Primavera Sound Festival di Barcellona si svolge da 17 anni — e nonostante una qualità mantenuta sempre tra l’eccellenza ed il sublime, negli ultimi anni ha fatto di tutto per farsi incoronare come il migliore dei festival possibili. Il puntare tutto sul cartellone ha regalato non poche gioie a chi certi gruppi non li avrebbe mai visti e pure a chi per vederli avrebbe speso almeno il decuplo tra viaggi, biglietti, cene in autogrill e tempo — non dimentichiamo il tempo. Come ogni anno dal 2015 a questa parte quindi, appena svelata la line-up non ho potuto far altro che alzare le mani, ringraziare gli dei della musica e accaparrarmi il biglietto il più velocemente possibile.

Può bastare?

Quel che differenzia il Primavera Sound dagli altri festival mainstream europei, oltre alla scaletta, è che la gente viene soprattutto (se non solo) per la musica. Non viene per campeggiare e vedere Gogol Bordello in trip (Sziget), né per sentire i Biffy Clyro sotto ketamina e rotolarsi nel fango (Glastonbury/Reading) e nemmeno per consumarsi i denti tra MD, coca e David Guetta (Tomorrowland). Fiotti di persone volano da Francia, Inghilterra, Germania, Italia e anche da fuori Europa per godersi cinque giorni di musica selezionata con la cura di un orafo tra i migliori gruppi disponibili in tutto il mondo — una cura rilevabile nella scelta degli headliner, dei nomi di culto, delle nuove promesse e degli emergenti: ditemi un altro festival dove i gruppi emergenti sono davvero internazionali (quest’anno Corea del Sud, Italia, Sudafrica, Cile, Perù, Australia), dove gli act sono valorizzati con lo spazio migliore per esprimersi (disponendo di un teatro e di palchi piccoli, grandi e giganti) e dove si è costretti a decidere se andare a vedere Aphex Twin, i Converge, i King Gizzard & the Lizard Wizard o Fatima Yamaha perché suoneranno tutti nella stessa ora e mezza.

Forse è quest’ultimo l’unico grande problema dell’evento, la collocazione contemporanea di più band del cuore — ma in fondo non è un qualcosa di imputabile agli organizzatori, perché un’offerta così ampia non può che obbligarci a delle scelte — che a volte saranno facili, a volte più difficili. Cosa fare infatti quando gli Slayer e i Death Grips suoneranno esattamente nello stesso istante a 5 minuti di distanza tra loro? Il mio consiglio spassionato rimane uno: guardare un po’ di tutto, dedicandosi completamente solo a quegli show che aspettiamo da mesi, anni o decenni, e che porteremo nel cuore per il resto della vostra vita.

Quest’anno comunque ero indeciso se tornare al Primavera Sound — dopo esserci già stato due anni di fila — ma il cartellone probabilmente avrebbe convinto anche la montagna ad andare da Maometto: Bon Iver, Aphex Twin, Slayer, Flying Lotus, The Magnetic Fields, Death Grips, Japandroids, Sampha, Converge, Saint Etienne, This Heat, The Zombies Sembrava che qualcuno avesse preso la line-up dei miei sogni e l’avesse materializzata davanti ai miei occhi! Preparate le valigie allora, mi sono imbarcato in un viaggio per Barcellona, Catalogna.

Dopo essere arrivato in città, prima di recarmi al Parc del Fòrum, dove si svolge il festival vero e proprio, con un’amica sono andato a pranzare in un ristorante vegano (dove ho scoperto l’esistenza della zuppa di barbabietole) e poi mi sono recato al CCCB (Centre de Cultura Contemporanìa de Barçelona), dove invece di una nuova rivoluzione d’ottobre era stato montato un palco del Primavera Sound, in cui dal 31 maggio al 4 giugno chiunque avrebbe potuto vedere gratuitamente artisti emergenti internazionali che poi non si sarebbero ri-esibiti al festival principale. Qui sono stato subito sbalordito dai sudcoreani Raw By Peppers che con un math-rock stranamente emozionante mi hanno lasciato letteralmente a bocca aperta e mi fanno pensare a chissà quanta musica non-inglese ci perdiamo per ascoltare l’ennesimo disco dei Coldplay e parlarne male. Giunta la sera, mi lascio portare dalla metro a Fòrum: sono venuto sì per prendere il braccialetto d’entrata, ma il mio vero obbiettivo è quello di vedere una di quelle band magiche che assieme ai Primal Scream mi ha fatto invaghire della house music.

Innamorato pazzo del loro debutto Foxbase Alpha, forse mi aspettavo troppo dai Saint Etienne — d’altra parte la Second summer of love è finita da un bel pezzo, l’ecstacy ha fatto più danni che benefici e tutti noi si è invecchiati — ma almeno era legittimo aspettarsi un set sognante e coloratissimo. Peccato che invece quella beatitudine che mi aspettavo di ricevere non si sia fatta sentire (complici una setlist povera e la mancanza di feeling/MD) e allora decido di tornarmene a casa a riposarmi per il giorno seguente.

Il 1º giugno era infatti ufficialmente il primo giorno di vero festival. Una mandria di persone riempie la metro che ci lascia a El Maresme-Fòrum, terzultima fermata della linea gialla che probabilmente non vede un quantitativo di persone del genere durante tutta l’annata. Le aspettative per la serata sono alte: oltre ad essere il primo giorno, gli headliner della serata saranno infatti Bon Iver, Slayer e Aphex Twin. Arrivato al festival verso le sette, mi dirigo subito al Pitchfork Stage per cominciare con la nuova promessa indie Alexandra Savior, ma se c’è qualcosa che non sopporto è la sensualità filmica dei Last Shadow Puppets, quindi in poco tempo mi ritrovo sotto il Primavera Stage a vedere i mostri sacri This Heat: il concerto è strambo e imprevedibile come solo i gruppi industrial degli anni ’70 sanno farlo, e il mio stupore mi ricorda come certa musica ormai di mezza-età sia invecchiata come il vino in cantina — mentre certi gruppi del 2013 come Tavernello lasciato al sole. Finito il concerto, mi muovo in anticipo per trovare posto in teatro prima dell’esibizione degli Zombies, e mi capita di assistere al finale di Elza Soares: cantante brasiliana dalla vita travagliata, a 79 anni canta in portoghese seduta su un trono vestita come una regina — e tutto il teatro si alza in piedi a ballare allegro per il bis. Appena il sipario cala sui musicanti, vengono montati gli strumenti per la rievocazione integrale del tesoro nascosto del ’68 Odessey and Oracle: ma il tempo è passato inclemente anche per gli Zombies e mai come ora percepisco l’ironia di un nomen omen: il gruppo sembra davvero rescuscitato male e l’esibizione mi annoia tanto da farmi uscire prima che Time of the Season possa farmi passare l’amaro in bocca. L’esibizione di Bon Iver all’enorme Heineken Stage per me è un momento speciale: il pubblico è numerosissimo e passate le svisate elettroniche dell’ultimo disco, durante Perth la commozione nel sentire la più bella canzone del XXI secolo ha il sopravvento, e poi, ciliegine sulla torta, Justin chiude il concerto con la bellissima Creature Fear e la blasonatissima Skinny Loveormai la Creep di Justin Vernon — a far impazzire tutti i ragazzi inglesi nel posto. Finito Bon Iver arriva il momento di sentire una delle maggiori rivelazioni rap del decennio: i Death Grips, che in un concerto abrasivo e gasatissimo spaccano tutto. Spaccano così tanto che un ragazzone nero coi dreadlock e questa maglietta (che vince il premio maglietta del festival) durante No Love sale su un bidone e cade di schiena sui miei piedi rischiando di paralizzarsi e di tarpare la mia carriera da panchinaro pure a calcetto. Soddisfatto del casino torno indietro al Mango Stage giusto in tempo per vedere gli Slayer suonare Angel of Death in maniera imbarazzante, rovinando il miglior assolo del metal e portandomi a insultare tra le lacrime Kerry King. Finito lo scempio, dall’altra parte del campo Aphex Twin comincia il suo set imitando la brostep di Skrillex, per poi virare verso una techno più classica mixando pezzi non suoi — e anche se la gente sembra apprezzare che le tracce alla druqks siano state bandite dal set, sinceramente avrei preferito un live di RDJ, non un dj-set confusionario che nel giro di poco è diventato fastidioso senza essere nemmeno interessante. Me ne vado frettoloso quando mi accorgo che dall’altra parte del festival è arrivata l’ora che i Converge ribaltino il mondo, cosa che puntualmente accade — con Jacob e compagni a fare una performance paurosa — mentre la gente poga e lancia bicchieri di birra in aria atterrandoli puntualmente sul pubblico retrostante (Convenzione di Ginevra dove sei?). Sulla strada per i Converge non manco di venir deluso dalle menate psych-farlocche dei King Gizzard & the Lizard Wizard (come mai da anni in Australia tutti scrivono la stessa canzone?) e poi dalle pagliacciate steam-punk degli Skinny Puppy (questo video proverà a spiegare la situazione). Fortunatamente però la serata si conclude in maniera splendida alle quattro del mattino, con i Pinegrove in stato di grazia ad illuminare la notte in un set emozionante e sentitissimo.

Svolte della serata: Pinegrove, Elza Soares, Converge, Bon Iver, Death Grips.

Delusioni della serata: Slayer, Aphex Twin, Zombies, King Gizzard.

Il giorno dopo, finita l’esibizione al Day Pro dei sudafricani Radio123 che gasano tutti in maniera molto Outkast, mi fermo con un paio di amici a vedere gli skater provare i loro trick davanti al MACBA, e poi mi dirigo al Fòrum — curiosissimo di farmi rapire dal canto di gola tibetano dei Phurpa. Entrato nell’auditorium buio, diventato caverna per l’occasione, tre figure incappucciate fanno vibrare le ossa dell’edificio e del pubblico in un momento di pura magia ancestrale — tutto solo con le loro voci, dei corni ed un tamburo in pelle — e uscito dal teatro la mia mente è vuota e libera. Dopo aver ondeggiato un po’ sotto i ritmi colorati dei Sinkane, vado a prendermi un biglietto speciale per vedermi in teatro i Magnetic Fields, innamorato come sono del loro inarrivabile 69 Love Songs e curioso di scoprire se questo altrettanto mastodontico 50 Song Memoir ci potesse arrivare almeno vicino.

La morale è: assolutamente no, e mi sono pure perso Sampha per questo show sfigatissimo. Stephen Merritt canta da seduto ricordando paurosamente un gatto castrato — e prima di ogni canzone, una per ognuno dei suoi 50 anni, fa qualche battutina su sua madre e sulla sua stramba vita. Anche io però ho dei limiti — e mi vedo costretto a fuggire for dear life dopo essermi addormentato sulla poltrona due volte di fila. Il cervello mi conduce al Mango Stage dove Mac de Marco sta facendo innamorare tutte le ragazzine con il suo sorriso a 32 buchi e la sua muzak da Urban Outfitters: a fine concerto si spoglia, si accende una sigaretta in mutande e si brucia i peli delle ascelle con l’accendino, mentre il suo batterista suona completamente nudo — e si può solo portare rispetto per uno showman del genere, considerazioni sulla sua musica a parte. Poco prima della fine me ne vado a prendere una birra e a rilassarmi dall’alto di una scalinata, aspettando il set degli xx che che verso le 11 puntualmente arriva portando Say Something Loving, Crystalized e Islands davanti ad una folla oceanica. Peccato che, in tutta onestà, più che un momento magico questo concerto si stia rivelando un rituale pop mainstream senza gli effetti speciali del caso. Appena parte I Dare You, infatti, me ne sono già andato al Pitchfork Stage a vedermi gli Swans, gruppo che ho già visto due volte ma che esercita sempre una profonda attrazione su di me. Sarà che Children of God è uno dei miei dischi preferiti e che sentire Sex, God, Sex dal vivo è sempre un’esperienza magica, ma l’aggressione mistica degli ultimi Swans è stranamente terapeutica per me ed è bello perdersi nel muro di suono, conscio poi che questo sarà il loro ultimo tour sotto questa veste. La serata però si sta rivelando deboluccia e mi sta sinceramente stancando — oltretutto Frank Ocean ha bidonato il festival ed è stato sostituito da Jamie xx, in una scelta di management francamente imbarazzante, prima di andarmene attraverso un lungo ponte per arrivare al lato club del festival. Al Desperados Club Stage infatti sta suonando quel santo della musica elettronica che è Michael Mayer — fondatore assieme a Wolfgang Voigt (GAS) della Kompakt Records (❤) e autore di Immer, uno di quei mix che hanno fatto la storia della techno degli anni zero — e vado a godermelo per un attimo prima di imbarcarmi sulla metro verso casa. Se c’è un rimpianto che mi rimarrà del festival sarà l’essermene andato prima che la metro chiudesse, perdendomi di conseguenza quel mito di Flying Lotus ma sta di fatto che in quel momento Dio solo sa cosa avrebbe potuto trattenermi lì fino alle 5 del mattino ad aspettare che il festival chiudesse e le metro riaprissero…

Svolte della serata: Phurpa, Mac de Marco, Swans, Michael Mayer.

Delusioni della serata: Magnetic Fields, Arab Strap, Sleaford Mods, Frank Ocean.

Il terzo giorno, perso nelle magie della città, mi perdo l’esibizione di Weyes Blood — conscio però che la recupererò al Beaches Brew in pochi giorni — e arrivo giusto in tempo per vedere i Royal Trux, autori di quel Twin Infinitives che tanto appassiona la critica specializzata in tesori nascosti. Dopo un paio di canzoni sgangherate, ma in realtà non quanto mi sarei aspettato, Jennifer, frangetta bionda, occhi semichiusi e borsa in pelliccia bianca — in un look passato dall’heroin-chic all’heroin-punto — comincia a biascicare qualcosa di senza senso nel microfono e il suo ex-marito Neil prova a farla stare zitta guardandola male e parlandole sopra: non sono venuto al Primavera per vedere dei tossici provare ad intrattenermi (SPOILER: affermazione probabilmente non del tutto vera), quindi mi dirigo verso il concerto di quel brontosauro di Van Morrison a cui non potevo né volevo mancare. Fresca la delusione degli Zombies, in fondo sapevo di non potermi aspettare il lampo di genio di Astral Weeks, trovandomi però ad assistere ad una performace molto peggiore: nessuna traccia del suo capolavoro anno domini ’68, solo vecchissimo e noiosissimo rhythm & blues bianco — che, come il country, se scomparisse completamente dalla faccia della terra ce ne faremmo volentieri una ragione. Grace Jones, vista com’era andata a finire con gli Zombies e Van Morrison, ho voluto evitare di andarla a vedere (SPOILER: questo invece probabilmente è stato un errore). Al contempo mi sono “perso” anche il concerto di Seu Jorge, imitatore di professione di David Bowie: perché a me David Jones piaceva anche prima che morisse, e scusate se ho intenzione di ricordarlo come il cocainomane bisessuale filo-nazista che è passato da Hunky Dory a Ziggy Stardust, Low, Let’s Dance, Earthling e Blackstar — e non come “quello che ha fatto Space Oddity”. Prima di unirmi al mastodontico corteo diretto alla corte degli Arcade Fire, mi fermo ad osservare Angel Olsen stregare una calca di giovanotti attratti dalla beatificazione di Pitchfork (ormai rivista autorevole che può fare e disfare intere carriere musicali), ma più che per reale interesse mi fermo per riposare i piedi, bere una birra e instagrammare i concerti nelle storie della rivista. Angel è brava, niente da dire, ma non è esattamente la mia cup of tea, quindi mi sposto vedere i Metronomy svelare al pubblico un nuovo standard di musica senz’anima e Joey Purp provare a gasare tutti senza convincere nessuno — complice il dj più sfigato del mondo Knox Fortune, che forse avrete sentito nel ritornello di questa canzone). Quando arrivo davanti ad un palco gremitissimo, alla comparsa di Win Butler, Regine Chassagne e compagnia il pubblico va in visibilio. Ora… io sono una di quelle poche persone al mondo a cui Funeral non ha cambiato l’esistenza e che Rebellion (Lies) al massimo la vuol sentire nella sigla di Lilli Gruber, ma devo ammettere che ero più che curioso di sentire cosa la band canadese potesse offrire dal vivo, visti i live coloratissimi del tour di Reflektor. E devo ammettere che Wake Up, Here Comes the Nighttime e la mia preferita No Cars Go si sono fatte valere — ma non sono abbastanza indiepresso per apprezzare fino in fondo gli Arcade Fire, ed preferisco andarmene da un concerto a cui non sento di poter né voler appartenere. Dall’altra parte del festival poi, in contemporanea c’era King Krule e la mia curiosità aleggiava attorno a lui da quando Easy Easy aveva stra-preso tutti i miei amici: sfortuna è che il concerto si sia rivelato ancora più frignone della band di Montreal, e che mi sia dovuto spostare nel palco affianco a vedere cosa avessero di meglio da dire gli Against Me!, il cui cantante Thomas Gabel — dopo vent’anni di carriera e dopo aver sofferto di gender dysphoria da sempre — nel 2012 è diventato effettivamente una donna transgender ed ha cambiato nome in Laura Jane Grace. Il concerto è partito da subito in quarta con I was a teenage anarchist e altre canzoni tiratissime, peccato che prima di potermi fare un’opinione completa la sveglia mi abbia annunciato che era il momento di muovermi verso il concerto che più aspettavo in questi giorni e la folla davanti al palco mi ha confermato che non ero l’unico.

I Japandroids sanno di essere amati dal loro pubblico e che il loro pubblico li ama a sua volta: su undici canzoni infatti, hanno voluto donarci sette classici, Fire’s Highway, Heart Sweats, Younger Us, Wet Hair, The Night of Wine and Roses, Young Hearts Spark Fire e The House That Heaven Builtche abbiamo tutti urlato a memoria, saltando ed emozionandoci un sacco. Anche perché sapevamo — forse anche loro — che nonostante dopo ci sarebbero stati altri concerti, solo con l’energia e la speranza delle canzoni dei Japandroids il Primavera Sound si sarebbe potuto idealmente chiudere. E infatti così è stato — o almeno per me, che me ne sono andato con il sorriso.

Svolte della serata: Japandroids, Arcade Fire.

Delusioni della serata: Van Morrison, Metronomy, Joey Purp, Royal Trux.

Conclusosi il festival avevo ancora un giorno a disposizione e l’ho speso per andare al CCCB a vedere il World Press Photo 2017, mostra sui migliori scatti foto-giornalistici dell’anno. Le sezioni erano tante e tutte interessantissime: report di guerra, sport, natura, cultura, videogiornalismo — e, non so in realtà il perché, sono entrato senza pagare. Sfortunatamente però in compenso il MACBA era chiuso essendo domenica, e mi sono dovuto accontentare di girare il resto della città per capirla un po’ meglio. La notte infine sono partito per l’Italia, con la testa piena di ricordi, lo stomaco pieno del cibo-spazzatura dei baracchini al festival ed i piedi stanchissimi.

Il Primavera Sound Festival pure, oltre ad essere un’occasione unica per godersi la musica migliore al mondo, è anche un’occasione per godersi una delle più belle città d’Europa con un’offerta socio-culturale e turistica incredibile: il MACBA pieno di skater, la Fundaciò Mirò, il CCCB, il Museu Picasso, Casa Battlò, il Parc Güell, la spiaggia, le Ramblas, il Barri Gotic, i club (Razzmatazz, Sala Apolo, Macarena, ecc.), i cannabis club, tantissimi negozi variegati e soprattutto una delle meraviglie del mondo moderno, la Sagrada Familia di Antoni Gaudì — in cui una volta entrati non uscirete più gli stessi. I prossimi giorni poi (15–16–17 giugno), sempre a Barcellona, ci sarà il Sonàr Festival, degno rivale elettronico del Primavera Sound a cui non sarebbe affatto male andare: Anderson Paak, Arca, Carl Craig, Cerrone, Clams Casino, Clark, D△WN, De La Soul, DJ Shadow, Jlin, Justice, Moderat, Nicolas Jaar, Princess Nokia, Soulwax, Suicideyear, Thundercat e Vitalic — questi sono solo alcuni dei principali nomi di quest’anno. Quindi, se la prossima estate non sapete che fare, dove andare e cosa organizzare — beh, ora forse avrete un’idea in più. Thank me later!✌🏻

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