Ali Pfefferman — interpretata da Gaby Hoffmann

Transparent: il patriarcato transgender tra Weimar e Weinstein

Passato e presente, realtà e finzione, si incontrano nella serie firmata Amazon. Ma dove sono i confini?

Tommaso Tecchi
La Caduta 2016–18
10 min readJan 22, 2018

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Transparent, la serie televisiva prodotta da Amazon Video, è arrivata alla sua quarta stagione ed è ormai sicuro che questa è la nostra ultima occasione per vedere la famiglia Pfefferman al completo. In mezzo alla produzione del suo quinto capitolo si sono infatti inseriti due fattori strettamente collegati. Il primo è l’effetto domino generato dal caso Weinstein, che nelle ultime settimane — specialmente con le notizie su Aziz Ansari — sta iniziando a mostrare anche l’altra faccia della sua medaglia, più simile ad una caccia alle streghe che ad un’ordinata rivincita sul patriarcato. In ogni caso, come tanti prima di lui, anche il buon Jeffrey Tambor (Maura/Mort Pfefferman), star assoluta della serie, è stato accusato prima dalla sua assistente Van Barnes e poi dall’attrice Trace Lysette di aver avuto un comportamento inappropriato nei loro confronti sul set. Lo avrà fatto? Non lo avrà fatto? Io di certo non lo so.

Il secondo fattore, che ad ogni probabilità è stato fondamentale nella decisione dell’attore di dimettersi dallo show, è che il set di Transparent ha più o meno le stesse dinamiche dell’universo raccontato nella serie e sia la Barnes che la Lysette sono transessuali. Quest’ultimo dettaglio ha fatto sì che tra gli addetti ai lavori fermentasse un senso di indignazione tale da rendere l’allontanamento di Tambor una sorta di rivendicazione ideologica. l’attore l’ha definita “atmosfera politicizzata” e ha capito che avrebbe fatto più bella figura a fare le valigie da solo piuttosto che ad aspettare che gli sceneggiatori lo informassero dell’improvvisa scomparsa di Maura dai nuovi episodi. Va precisato che la showrunner Jill Soloway ha preso largamente spunto dalle sue esperienze personali nella creazione di Transparent e per lo stesso motivo fin dall’esordio della serie ha scelto di privilegiare l’assunzione in produzione di personale transgender. Tra le varie cose che la biografia di Jill Soloway e quelle dei Pfefferman condividono ci sono: un padre che decide in età avanzata di iniziare a vivere la sua vita come una donna, il non riconoscersi nel binarismo di genere uomo/donna (se leggete la bio di Wikipedia dell’autrice noterete che ci si riferisce a lei usando il pronome “they” anziché “she”), un’esperienza omosessuale in seguito al divorzio dal padre del proprio figlio, un’esperienza omosessuale con una poetessa-attivista (scopro solo ora le evidenti somiglianze tra il personaggio di Leslie e la sua versione IRL Eileen Myles), il forte attaccamento alla religione ebraica e il contemporaneo desiderio di rinnovarla (la Soloway è cofondatrice dell’East Side Jews Collective, che cerca di ringiovanire la pratica religiosa per gli ebrei di Los Angeles). Detto ciò è facile immaginare come per lei (o meglio loro) Transparent sia più di una serie, ed è altrettanto facile immaginarsi il set come una sorta di circolo socio-politico. Da qui slogan come “non possiamo lasciare che un prodotto trans venga rimosso da un singolo cis-uomo”, firmato da una delle sceneggiatrici della serie, Our Lady J.

Al di là del clima teso che si è creato sul set, che potrebbe o non potrebbe influenzare il futuro della serie, c’è però una dramedy unica che si è confermata tale anche nella sua quarta stagione, ora in onda su Sky Atlantic. Per questo vale la pena tornare, per l’ultima volta, alla nostra cara Maura Pfefferman. Transparent è una di quelle opere che contengono fin troppi elementi che meriterebbero un’analisi. Si potrebbe parlare del fatto che è stata la prima serie TV prodotta da un servizio di streaming a vincere un Golden Globe. Si potrebbe dedicare qualche riga alla naturalezza e alla leggerezza dei dialoghi e della sceneggiatura. Della colonna sonora sempre azzeccata — oltre alla bellissima sigla di Dustin O’Halloran, vogliamo parlare dei Broadcast e di Micachu & The Shapes?. Delle interpretazioni magistrali di praticamente ogni singolo membro del cast. Preferisco invece occuparmi di altri due aspetti diversi, uno formale e uno prettamente contenutistico.

I flashback in Transparent

Gittel e Rose (Ali)

Sarà che non mi sono ancora del tutto ripreso dall’overdose estiva di Twin Peaks, che per 18 ore ha prosciugato la mia attività cerebrale; ma ultimamente prediligo le serie con episodi brevi, 30 minuti massimo, e quello di Transparent è senza dubbio il format di cui avevo bisogno in questo momento. Mi piace avere un punto di vista non onniscente sulle vicende, prendo come un fatto legittimo quello di non essere coinvolto nell’interezza di ogni conversazione tra i personaggi, di non essere sempre presente in ogni momento della loro vita, anche nel disorientamento tra un salto temporale e l’altro. Ho sempre visto come una dote a cui ambire quella di racchiudere una storia completa e coerente in poche righe o in pochi minuti di girato, e guardando gli episodi di Transparent non posso che cercare di prendere spunto dalle capacità di Jill Soloway e del suo staff di trans incazzate (si fa per sdrammatizzare, su).

Su tutti gli escamotage narrativi però ce n’è uno in particolare che all’interno della serie viene utilizzato in modo davvero radicale e rivoluzionario: il flashback. I balzi all’indietro in Transparent sono utili quasi più della vicenda principale per comprendere la situazione della famiglia Pfefferman, dai loro legami ai loro problemi, dal loro rapporto complicato con la religione a quello ancora più complicato con il sesso. Nella prima stagione servivano a contestualizzare il rapporto tra Maura — all’epoca ancora Mort — e l’ex moglie Shelly, che prima di ogni altro, ancora prima del divorzio, ha conosciuto la difficoltà del marito a convivere con il suo corpo maschile. Fanno da specchio i flashback della quarta, dedicati alla coppia durante l’adolescenza e durante i loro primi incontri, questa volta incentrati sui traumi dell’altrimenti spesso trascurata Shelly. Solo una piccola parentesi piuttosto drammatica, sempre nella quarta, per il passato di Davina prima della transizione. Il subplot sicuramente più interessante è quello che inizia ad emergere nella seconda stagione, culmina nella terza e torna a galla nel presente della quarta, nel momento in cui la famiglia riscopre le proprie origini in Israele. Partendo dagli spunti di Ali per la sua tesi universitaria che vorrebbe collegare la teoria del gender al percorso del popolo ebraico vittima del nazismo, torniamo ai tempi della Repubblica di Weimar. Conosciamo un fratello e una sorella (interpretata dalla stessa Ali) mentre si divertono a truccarsi e travestirsi in un circolo dedicato alla comunità LGBTQ del tempo. Il ragazzo, nato Gershon, si fa chiamare Gittel e si veste da donna; il proprietario del circolo è un personaggio realmente esistito: Magnus Hirschfeld (o l’”Einstein del sesso”), pioniere degli studi sul gender e figura di riferimento per intellettuali come André Gide e Sergej Ėjzenštejn. Non è cosa nota a tutti, ma la Germania pre-Hitler era una sorta di paradiso libertino, al punto da far passare la Los Angeles di oggi per un ambiente conservatore.

I personaggi dei flashback spesso escono dalla loro cornice temporale, apparendo sullo sfondo nelle scene ambientate nel presente. Non si capisce inizialmente se facciano parte dell’immaginazione di Ali, se siano personaggi finzionali della sua tesi o se racchiudano in sé dei residui di un passato ancora difficile da metabolizzare. Sta di fatto che l’effetto è assolutamente psichedelico, anche grazie all’utilizzo quasi teatrale degli stessi attori per ruoli diversi. Solo dopo la morte di Gittel per mano delle SS e dopo l’ulteriore salto in avanti nel flashback, all’emigrazione della sua famiglia negli Stati Uniti, si possono unire i tasselli del puzzle: la famiglia tedesca di ebrei scampati all’olocausto non è altro che la famiglia di Maura, e il personaggio interpretato da Ali nei ricordi non è altro che sua nonna Rose Pfefferman. Torna ad avere senso una scena di pochi secondi in cui Ali informa la sua amica Syd di aver scoperto, grazie a dei libri trovati in biblioteca, dell’esistenza di una cosa chiamata “ereditarietà del trauma”. Escludendo a priori dalla competizione l’esempio più audace di narrazione al di fuori del tradizionale piano temporale (Twin Peaks, ovviamente), era dalla prima stagione di True Detective — con l’alternanza tra il Rust eccentrico detective anni ’90 e il Rust barbone alcolizzato degli anni ’10 — che non si vedeva una linea narrativa così ben strutturata. In questo caso, all’interno di solamente trenta minuti alla volta, si pongono le basi per una potenziale saga famigliare in stile romanzo ottocentesco.

Che società ci vuole proporre Transparent?

Maura Pfefferman — interpretata da Jeffrey Tambor

Appurato il fatto che Jill Soloway, scrivendo il pilota della sua serie, abbia seguito alla lettera l’antica filosofia del “parla di ciò che conosci bene”, persiste una domanda fondamentale: che messaggio ci vuole dare Transparent? È un quesito che mi sono posto per tutta la durata della serie andata in onda finora e — questo è l’unico spoiler che vi faccio sulla quarta stagione — arrivati all’episodio 4x10 non c’è ancora traccia di una risposta definitiva. L’universo dei Pfefferman è così riassumibile: un padre di famiglia, dopo una vita intera passata a nascondere il suo sentirsi donna, decide di diventare trans, mentre la sua ex moglie invecchia rendendo sempre più evidenti i segni di una sofferenza soffocata e taciuta; i figli sono messi ancora peggio. Josh non riesce ad avere delle relazioni sane per via del rapporto abusivo vissuto con la sua ex tata e che ha addirittura generato un figlio tenuto nascosto per anni. Sarah, dopo aver mollato marito e figli per esplorare la propria sessualità (dal matrimonio omosessuale al BDSM) cerca di raccogliere i cocci e di far coincidere la sua ritrovata stabilità famigliare con le sue perversioni. Ali è un grande punto di domanda, nonché il personaggio di gran lunga più interessante della serie — e uno dei personaggi meno statici della storia della serialità se vogliamo dirla tutto. Ali sembra vegliare sull’intera famiglia Pfefferman, mentre passa da una banale confusione da trentenne a un deciso attivismo femminista, dalla ricerca della spiritualità nei riti ebraici alla messa in discussione dei suoi gusti sessuali e della sua stessa identità. Se dovessimo tirare ad indovinare su chi prenderà il posto di Maura come protagonista, io mi giocherei tutto su di lei senza troppe preoccupazioni.

La Los Angeles che ci racconta Transparent è quella dei ricchi bianchi privilegiati, non tanto distante dall’Orange County di The OC o da quella che fa da sfondo a Modern Family. E proprio quest’ultima serie è un ottimo punto di partenza per un’interpretazione della produzione Amazon. Se la pluripremiata comedy in onda su Fox è un collage leggero e senza impegno (anche se comunque divertente) di alcuni stereotipi sulle famiglie allargate e aperte alla sfera LGBTQ della nostra epoca, Transparent è la sua versione engagé, estrema e più drammatica (anche se comunque divertente — la dramedy è il miglior genere di sempre). I ricchi bianchi non vengono mostrati mentre spendono i loro soldi o sfoggiano la loro posizione sociale, bensì mentre soffrono per il peso di traumi irrisolti, di una società che non corrisponde ai loro ideali, in tutta la loro debolezza. Allo stesso modo vediamo la tipica famiglia ebraica che prima rinnega la propria religione rifiutandosi di praticarla e poi la sfrutta come collante e come luogo per una spiritualità molto personale e discutibile. Omosessuali, drag queen e transessuali, infine, sono gli antieroi: macchiati dagli errori del passato, un po’ per colpe effettive un po’ per una mancanza di libertà, si ritrovano in un’epoca (quella che stiamo vivendo) che li accetta e li dà ormai per scontato. Questa categorizzazione dei tipi umani presenti nella serie è però molto limitante e non tiene conto dell’autoironia con cui ogni personaggio ci presenta i propri capricci, il proprio egoismo. “La mia maestra aveva detto a mia madre di ritagliare le lettere e di darmele mentre facevo il bagnetto perché io apprendo con il tatto. Tu apprendi con la vagina, hai bisogno di ficcarci dentro qualcosa per imparare” dice ad un certo punto Syd rivolgendosi ad Ali; questo è il livello delle discussioni dei protagonisti sulla loro apparentemente incurabile crisi di identità. L’emancipazione dal proprio gender ci viene mostrata anche nelle sue sfumature più assurde e critiche, la religione ebraica è vista sia come contrapposizione positiva alla mancanza di valori dei Pfefferman che come fonte di ipocrisie, il femminsmo più intransigente è rappresentato come una corrente conservatrice nei confronti dei trans, la diaspora ebraica ci viene mostrata sia nella tragicità dell’olocausto che nell’ingiustizia dell’occupazione del suolo palestinese (il modo con cui la città di Ramallah è rappresentata nella stagione 4 è a tutti gli effetti un ottimo spot per la Palestina). Ogni cosa ha in sé la propria contraddizione, così come nel mondo reale.

Va inoltre tenuto in considerazione che il mondo reale attuale, specialmente negli Stati Uniti, è quello di Donald Trump e dei populismi, del ritorno dei neonazisti, di chi nega il riscaldamento globale e di chi pensa che vaccinarsi porti all’autismo. Come si contrappone, allora, un’opera apertamente progressista e radicale come Transparent ad un realtà che sembra muoversi a ritroso? Senza filtri, mi verrebbe da rispondere. Prima ancora di preoccuparsi di dare coerenza al proprio messaggio, la Solloway preferisce travolgerci con una realtà senza confini facilmente tracciabili, senza inutili paletti. Al “popolo reale” che vota Trump, viene contrapposto un popolo libero, immorale, caotico, graziosamente fallibile e — perché no — anche contraddittorio. Il punto non deve essere convincerci che gay è bello e che il patriarcato ha fallito, ma che chiunque sia libero di pensarlo e di vivere la propria vita — anche quella pubblica — di conseguenza. Perché forse il punto è proprio che nessuno ha il diritto di dire all’altro quale sia il modo corretto di comportarsi e che in un’epoca come la nostra ogni tipo di restrizione e di conservatorismo sono destinati a combattere contro una Storia che li contraddice. Non ci sono delle linee guida chiare su come costruire una società più aperta, ma probabilmente è proprio la libertà che scaturisce da questa mancanza il vero punto di partenza. Ciò che è certo — come ci insegnava Maura litigando con il club delle anziane femministe — è che chi si spaccia per pensatore illuminato e progressista non può permettersi di commettere gli stessi errori di chi ha sempre combattuto. E questo discorso resta attuale anche per la maniera problematica con cui la Hollywood benpensante sta preparando il suo futuro post-Weinstein, che purtroppo o per fortuna ha colpito anche questa bellissima serie.

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