Veri film d’azione come antidoto ai Cinecomics
I Cinecomics hanno quasi monopolizzato il genere dei film d’azione, che però sono in realtà molto altro e hanno tanto da dire
Ogni anno Marvel e DC Comics si danno battaglia a suon di cinefumetti, film d’azione in cui i soliti supereroi combattono diversi supercattivi che, però, hanno sempre lo stesso e unico obiettivo: distruggere la Terra. Tendenzialmente questi film vanno ben oltre le due ore infarcite di set in CGI, combattimenti in CGI, a volte anche i corpi (vedi Hulk). Niente sangue, niente sudore, niente vera suspense. Si sa già come andrà a finire, visto che ogni film (e sono quasi dieci all’anno) vive dei soliti tre momenti: scoperta o ri-scoperta dell’eroe, difficoltà dell’eroe, vittoria dell’eroe.
Come antidoto a questo genere di costosissima perdita di tempo che non ha nemmeno il buongusto di essere (troppo) malfatta così da essere maggiormente evitabile, questo articolo proporrà una serie di 10 film d’azione che vi intratterranno ben più di queste costosissime patacche DOP. Questi 10 film sono tutti recenti, perlopiù di arti marziali ma non solo. Le scelte ovvie saranno evitate quanto più possibile.
La città proibita (Zhang Yimou, 2006)
Uno dei film meno conosciuti del celebre regista di Hero (2002) è l’ennesimo wuxia ben confezionato. Come in Hero l’esperto di sinologia potrà notare un senso politico conservatore ben chiaro: lo Stato forse non è buono ma è l’opzione migliore per il bene del Paese.
A ribadire il concetto ci pensa già la trama de La Città Proibita, un lungo e torbido complotto interno alla famiglia regnante tra Chow Yun-Fat (l’imperatore) e Gong Li, sua moglie. Verranno coinvolti anche i figli, e sarà il proverbiale bagno di sangue tra battaglie e assassinii (e molti crisantemi).
Yimou non cambia molto rispetto a Hero: se anche ci sono meno duelli per aria le azioni di combattimento, l’azione e in definitiva il resto del film sono gestiti secondo i canoni del regista. Molti gli extra, quindi scene di battaglia con coreografie complicate e spettacolari, con soprattutto il colore giallo a farla da padrone. Come al solito i colori sono molto forti e di norma a tinta unica, con qualche ghirigoro cucito sui vestiti o sulla scenografia, in perfetto stile Akira Kurosawa, Wong Kar-wai e lo stesso Yimou.
Inoltre, l’azione non è del tutto realistica: poco sangue, niente sudore o suoni tipici del fragore della battaglia. Al solito Yimou mostra una cura formale totale. Difatti il suo talento visivo propone le già sopracitate bellissime coreografie, incluso una scena di agguato ninja da antologia, nel buio della notte. E’ in realtà un Yimou in gran spolvero, nonostante proponga al netto molto poco di nuovo e si compiaccia troppo delle sue frecce migliori. Certo, il budget è molto alto ma lui lo sa sfruttare.
A livello interpretativo è, come già detto, sulla falsariga di Hero, proponendo anche una distinzione non troppo chiara tra bene e male. Tratto da un dramma, il film è infatti anche più intenso nei sentimenti portati sullo schermo e i conflitti interiori dei protagonisti risaltano benissimo, portati poi all’estremo nel catartico finale.
Crows Zero (Takashi Miike, 2007)
Uno dei film più belli del giapponese più folle di sempre (e dire che di concorrenza ce n’è) è in realtà uno dei suoi film più “normali”. Tratto dall’omonimo manga, il film parla delle lotte interne a un collegio giapponese per ragazzi (solo maschi) delle classi popolari emarginati e violenti. Molto violenti. Ogni piano ha la sua gang e ogni giorno i vari membri se le danno di santa ragione per il controllo totale del palazzone. Non è che si insegni o si impari granché, anche per via dell’influenza yakuza.
Il protagonista della storia è Genij Takiya (Shun Oguri) che, per far colpo su suo padre capo clan yakuza, vuole appunto conquistare la scuola picchiando chiunque gli capiti a tiro. Sulla qualità dei sopracitati torniamo a breve, ma prima alcune particolarità. La prima è che durante queste lotte non morirà quasi nessuno. I ragazzini si faranno molto male, ma non essendoci quasi armi, né bianche, né da fuoco, non saranno letali. Un’altra è il cast e la quantità di scontri tra band: grandissimo il primo e quasi infinito il secondo. Il film dura due ore e saranno per oltre tre quarti di durata spese a mani in faccia e a calci nei reni. Altra particolarità rispetto agli altri film proposti è il tipico (nel caso di Miike) inserimento dello humor. Non tantissimo in realtà, rispetto ad altri suoi film, ma l’influenza della cultura pop giapponese (es. gruppo di idol meravigliosamente ridicolo nei titoli di testa) e del teatro Nō si fa sentire.
Dunque, le botte. Le coreografie non sono particolarmente elaborate rispetto per esempio a 13 Assassini (2010) dello stesso regista che qui invece bada al sodo, ma sono in qualche punto parecchio violente e, come già accennato, numerosissime, di durata variabile, con tantissimi attori utilizzati. I malcapitati si fanno parecchio male, i pugni, i calci, le sprangate vengono mostrate in tutto il loro splendore e lasciano dei gustosissimi segni sulla pelle.
Per finire, con Takashi Miike non è mai facile capire se vi sia un messaggio socio-politico, un ideale, nei suoi film. Miike è un regista di talento, ma anche molto incline a perdere ogni ritegno. Certo è che il film non ha personaggi veramente positivi, qui sono in fin di conti solo gangster, con la tipica moralità del mafioso: la mia famiglia/banda è buona, quelle degli altri no, e sono miei nemici. I ragazzi del film vogliono imitare i loro padri o i loro miti, ed il quadro socio-culturale che ne esce è da questo punto di vista sconfortante. Miike non dà l’impressione o il modo di pensarci troppo, ma rimane la sensazione di un Paese fortemente diviso con sacche di povertà e delinquenza che il Giappone non pare né in grado né interessato a risolvere.
Merantau (Gareth Evans, 2009)
Gareth Evans è un regista gallese trapiantato in Indonesia che rivedremo altre volte in quest’articolo. Merantau è il suo primo film da emigrato in Indocina e anche il primo della sua fruttuosa collaborazione con Iko Uwais.
Uwais è un campione di arti marziali pencak silat, e i suoi tre film con Evans (Merantau, The Raid 1 & 2) ne sono pieni. A livello di espressività non andiamo per nulla bene, ma poco importa: i film di Evans sono ad alto ritmo, pieni di azione, di botte, di sudore, di sangue. Le trame sono ridotte all’osso, le influenze di generi ridotte al sindacale, però si tratta di lavori girati veramente con buona mano.
La trama è semplicissima: Yuda, interpretato da Uwais, in quanto tradizione del suo villaggio, deve compiere un viaggio spirituale (il merantau del titolo) in città, a rendersi utile per gli altri e a mettere al suo servizio la silat, l’arte marziale di cui è esperto. Non tarderà a farsi degli amici, anzi un’amica (Astri, interpretata da Sisca Jessica) e molti, molti nemici.
Merantau è il film forse più classico e spirituale di Evans. Chi conosce anche solo superficialmente Bruce Lee sa che dietro alle arti marziali c’è una certa vis, un certo “credo”: in sunto, bisogna essere puri e usare la propria forza a fin di bene per aiutare il prossimo. A dispetto dei due The Raid, Merantau è più pregno di questa logica: Yuda deve salvare la classica ragazza in pericolo, vittima dei soliti gangster che l’abusano.
Il film ha anche un interesse meramente neo-realista, se vogliamo. Merantau è girato per le strade di Giacarta, quindi ne vediamo le strade e ne respiriamo un po’ l’atmosfera.
A livello registico, il nocciolo del film si trova nei numerosi e lunghi combattimenti tra Uwais e un nugolo infinito di stuntmen. La regia di Evans a livello di scelte stilistiche è semplice ma efficace: mancano quei virtuosismi che vedremo più tardi, ma violenza, ritmo sostenuto e sapienti stacchi di montaggio abbondano. Le botte raramente sono “interrotte” dal taglio al montaggio: quando il pugno parte, arriva senza grossi tagli, senza confusione e con la consapevolezza da parte dello spettatore di capire la scena, invece di essere costretto a intuirla, per colpa di un montaggio sbadato.
Il film ha un innegabile valore sociale nel far risaltare le condizioni più svantaggiate di un Paese come l’Indonesia alla periferia del mondo, vessato dal crimine e da una povertà che è anche morale. Evans fa il suo film più spirituale in cui pare predicare un ritorno alle radici (il merantau, il villaggio) rispetto alla modernità della metropoli (crimine, prostituzione, povertà), ma il suo prossimo film sarà un film di sudore e muscoli al 100%.
Knockout — Resa dei conti (Steven Soderbergh, 2011)
Da una piccola chicca passiamo ad un’altra, che però è firmata da un regista famoso, Steven Soderbergh, ed è anche passata nei cinema italiani. Protagonista della pellicola è Gina Carano, ex campionessa di arti marzali MMA. La Carano interpreta Mallory Kane, un’agente segreto cui un numero impressionante di maschietti vuole fare le scarpe. Ma sarà un osso molto duro da battere. Anzi…
Come Merantau anche Knockout ha una trama semplice. Lo sceneggiatore vorrebbe tessere una trama sul mondo delle agenzie segrete, paramilitari e spionistiche, ma non essendo scritto da La Carré, difetta in qualità da questo punto di vista. Nondimeno, è diretto da Steven Soderbergh.
Al netto della storietta, Soderbergh innanzitutto garantisce un livello di recitazione accettabile. Gina Carano non è propriamente espressiva, ma visto che il suo compito consiste nel picchiare, la cosa non è grave. A completare il cast abbiamo Michael Fassbender, Channing Tatum, Michael Douglas, Antonio Banderas e Mathieu Kassovitz. Tutti ottimi attori e infatti il cast fila. Soderbergh non forza i tempi e cerca anzi da mascherare il thriller d’azione con il noir e con atmosfere tipiche dei film di James Bond, per esempio, vedi i momenti con Michael Fassbender.
Naturalmente, però, il succo del discorso risiede ne Carano vs tutti. La Carano, come dicevamo, è un ex campionessa MMA e il corpo a corpo è il suo mestiere. Soderbergh, come Evans, ci permette di vedere l’azione quando inizia e finisce, così i pugni e i calci della Carano si possono ammirare in tutta la loro forza, tant’è che lei ha veramente fatto male a qualcuno durante le riprese.
Per il resto, l’ambientazione del film è tipicamente nord-americana, girata anche in boschi innevati. Soderbergh e il suo direttore della fotografia Peter Andrews garantiscono un immagine pulita e un indubbio fascino visivo. Rispetto comunque ad altri film del regista americano, questo è considerabile come un film minore.
The Raid — Redenzione (Gareth Evans, 2011)
Ritorniamo a Gareth Evans. Il regista gallese surge a fama internazionale con questo film d’azione semplice semplice. Il raid del titolo si riferisce all’operazione tentata dagli agenti di polizia (tra cui ritroviamo Iko Uwais) in un grattacielo governato da pericolosi gangster. Il loro capo vive all’ultimo piano, mentre i suoi sgherri sotto: i peggiori al pianoterra, i più forti nei piani superiori, man mano che si sale.
Il film è in sostanza tutto qui: i poliziotti si faranno strada a suon di botte e calci in faccia, lasciando una lunga trama di cadaveri dietro di loro — dei loro nemici e dei loro compagni.
Rispetto al precedente Merantau cambiano alcune cose. In primis, essendo girato tutto in interni, soprattutto corridoi e anche nell’ascensore, gli spazi sono molto stretti, e l’azione più ritmata e frenetica. Aggiungerei anche un pizzico di claustrofobia e oppressione. Insomma, Evans gestisce e usa gli spazi magnificamente e l’azione ne giova in efficacia e intrattenimento. In secundis, il film è molto più violento, le botte se possibile aumentano ancor di più, come il sangue, il body count — insomma, ci si diverte parecchio. Infine, la perizia tecnica e le coreografia dei combattimenti nel film di Evans aumentano esponenzialmente. E’ difficile spiegare bene a parole, ma il combattimento dei due fratelli (Uwais il buono e il redento, ex gangster, ritrovato dal primo) contro il secondo del malavitoso è da antologia, per trovate stilistiche, pathos, violenza, minutaggio (dura poco sotto i 10 minuti). Un’altro momento epico vede un malcapitato scaraventato da un sol uomo poco più in alto su un muro, abbattendolo, il tutto in un paio di tagli di montaggio. L’azione risulta comprensibile, a tratti veramente epica, e in generale divertente come poche.
John Wick (David Leitch & Chad Stahelski, 2014)
John Wick (Keanu Reeves) è un ex killer a pagamento della mafia russa negli USA. Un giorno, il figlio (Alfie Allen) del suo ex capo (Michael Nyqvist) gli ammazza il cane e gli ruba la macchina, le sole due cose che ha dopo la morte della moglie, che lo portò al ritiro. La sua vendetta sarà tremenda.
Rispetto alla maggior parte dei film presenti in lista, John Wick è film d’azione, sì, ma non di arti marziali. John Wick per mietere a destra e a manca (il body count è altissimo) usa soprattutto armi, specie la pistola con la quale fare headshot dopo l’altro, con lo spruzzo di sangue dolcemente puntuale. Il punto forte del film sono tuttavia le coreografie delle scene di combattimento: affatto realistiche ma deliziose. I registi Leitch e Stahelski sono ex stuntmen e si nota da come l’azione sia progettata, alla stregua di una danza.
A dare un’ulteriore mano alla bellezza delle coreografie ci sono la fotografia e il montaggio: la prima è, seppur niente di particolarmente immaginifico, pulita e in tono con il film; il secondo è preciso, chiaro, senza sbavature. Con queste carte, e altre qui ignorate, legate alla trama, John Wick è diventato un film di culto in tempi record e ha fatto record di incassi in tutto il mondo. Il suo sequel del 2017 è altrettanto degna di nota.
John Wick 2 (2017) di Chad Stahelski
Nel capitolo due della saga di John Wick (il terzo arriverà l’anno prossimo), la struttura dell’azione rimane pressoché identica, ma la trama diventa più elaborata e il film assume il contorno di un noir urbano, con una notevole fotografia prima notturna a Roma, all’aperto vicino al Colosseo, e poi al neon e abbagliante a New York, in una galleria d’arte.
Il mafioso di Riccardo Scamarcio costringe “Keanu Wick” a fargli un lavoretto, ma è tutta una trappola per diventare il capo di Cosa Nostra. Ma il buon Scamarcio ha, prevedibilmente, fatto il conte senza l’oste. Qualche massacro più tardi se ne renderà conto.
Il capitolo due rispetto al precedente complica un pochino la trama offrendo due nemici, invece di uno, al buon John Wick. Ritorna la società segreta, ora anche in versione estera, ritorna l’eterno amore tutto americano per Roma e per l’Italia, suggellati con una bellissima sparatoia nelle catacombe. L’azione è sempre perlopiù costituita da un certo ragguardevole numero di pallottole che visitano i relativi crani di una genia di poveri malcapitati.
Cambiano le ambientazioni, urbana ed estera, cambia parzialmente il cast con gli innesti italiani di Riccardo Scamarcio, Claudia Gerini e Giancarlo Giannini, e cambia in un certo senso il valore del film; se il primo era un B movie di gran successo e buona fattura, questo 2 mischiato al noir diventa un bel film a tutti gli effetti, insomma esula dal suo genere e porta a conoscere un tipo diverso d’azione rispetto ai cinefumetti. Invece di cose finte al digitale, di un lato tecnico monocromatico e monotono, abbiamo un film che come i serpenti cambia pelle e offre tanta fisicità: il sangue finto si vede eccome, assieme ai lividi. E per concludere, la citazione al Forest Whitaker di Ghost Dog (ottimo film di Jim Jarmusch del 2001) sostituito con Laurence Fishburne è una vera chicca per cinefili.
Hardcore! (Ilya Naishuller, 2015)
Sarò sincero, questo Hardcore!, titolo già esagitato di suo, è il guilty pleasure della lista. E’ poco più di un filmetto: è un superficiale dedicato solo al’intrattenimento, ma l’azione al cardiopalma è ben girata, ben servita dal POV. Vedremo infatti tutto il film dal reale punto di vista del suo protagonista, tant’è che lo vedremo in volta una sola volta, quando si specchia svenuto.
Henry (interpretato dallo stesso regista) è una sorta di esperimento riuscito a metà, mezzo uomo e mezzo robot, che sta cercando di riprendersi vita e moglie (Haley Bennett) dal malvagio gangster (Danila Kozlovski) di pura malvagità slava™.
I debiti dovuti al settore videoludico, all’horror e al porno sono evidenti e non vale la pena spiegare perché. Le botte abbondano, come i morti, le esplosioni, le armi, in un cocktail gustosissimo di azione, sangue, superficialità, per un film che non pensa e non fa pensare. Facile come un bicchier d’acqua fatto con sufficiente sapienza. Il POV limita fortemente la resa tecnica dei manrovesci, essendo noi costretti a vederli solo ed esclusivamente attraverso gli occhi di Henry, però il fatto che le baruffe avvengano in prima persona dà un taglio particolare al tutto. Se da una parte non vi può essere virtuosismo o un taglio di montaggio interessante, dall’altro lo spettatore è come se fosse dentro all’azione, è insomma personalmente coinvolto e quasi compartecipe di gioie e dolori di Henry.
Infine, nota tecnica: non essendo Arca Russa di Sokurov, Naishuller non è in grado e forse neppure interessato di girare il film in un unico piano sequenza, quindi per staccare di montaggio, senza interrompere il ritmo e soprattutto la coerenza tecnica fa come Iñarrìtu in Birdman (2014), cioè il montaggio digitale. Come in Nodo alla Gola (1948) di Hitchcock, Naishuller ha cura di trovare i momenti giusti per non far avvedere del taglio, oltre a naturalmente quelli in cui il nostro eroe è “offline” e vede tutto nero.
Headshot (Kimo Stamboel & Timo Tjahjanto, 2016)
Headshot è il film più splatter della lista, con una trama sufficientemente elaborata, con una morale classica, caratterizzazioni molto semplici eppure efficaci, e naturalmente un sacco di botte.
Il criminale Lee (Sunny Pang) dare la caccia al misterioso (Iko Uwais). Quest’ultimo, trovato svenuto su una spiaggia, è stato curato dalla dottoressa Ailin (Chelsea Islan). Lee lo conosce e gli scatena contro i suoi uomini, non sapendo che il malcapitato soffre ora di amnesia. Ma Iko non ha dimenticato la Pencak Silat, e gli sgherri di Lee avranno pan per focaccia.
I registi Kimo Stamboel e Timo Tjahjanto offrono delle ottime coreografie nelle scene di combattimento, con brevi piani sequenza ben inframmezzati. I combattimenti sono fatti con e senza armi, in varie ambientazioni. I due registi offrono un bel carnet di inquadrature, riuscendo a rendere i combattimenti estrosi ma chiari. Le coreografie hanno una certa realistica fantasie, i combattimenti sono abbastanza violenti e il sangue non mancherà, come neppure il pathos e certe scelte morali e sofferte. Tutto già visto, ma fatto bene. È inoltre apprezzabile la struttura narrativa: il nostro eroe avrà vari scontri lungo tutto l’arco del film, ma non saranno via via più difficili, evitando quindi la struttura a videogioco tipo The Raid.
Atomica Bionda (David Leitch, 2017)
Uno dei più grandi successi commerciali dell’anno scorso è questo film d’azione tratto, in effetti, da un fumetto: in un certo senso si tratta quindi sempre di cinefumetto ma con le spie e senza i supereroi.
La vicenda è ambientata negli anni ’80. La spia dell’MI6 inglese di Charlize Theron deve recarsi da Londra a Berlino a fare un lavoretto assieme all’agente infiltrato di James McAvoy. Come spesso succede tra spie la sfiducia regna sovrana e il finale del film lo confermerà, con il susseguirsi di un colpo di scena dietro l’altro.
Il film è a toni pulp già dai bellissimi titoli di testa, anche se i colori del film sono soprattutto freddi, al neon, e non caldi come in genere sono per i film i pulp. La fotografia è molto pulita e luminosa, anche nelle scene notturne, che non sono poche, e infatti domina il colore blu e le sue sfumature.
Atomica Bionda è perlopiù ambientato a Berlino ed esattamente com’è proprio delle metropoli, esso è una commistione, a volte felice, a volte meno, di generi, temi e sensazioni diverse. Atomica Bionda è più facile da descrivere come action spionistico, dato il tema e le numerose scene di combattimento corpo a corpo. Ha poi echi grotteschi, comici (dovuti al personaggio sopra le righe di McAvoy) e anche erotici (grazie all’innesto della naive spiona francese interpretata da Sofia Boutella). Il film infine opera anche per contrasti e cambi di scenari: al folle McAvoy vi è la fredda Theron, a Berlino fa da contraltare Londra e i rispettivi servizi segreti, e via discorrendo.
Parlando dell’azione vera e propria, la prima cosa che risalta rispetto agli altri film qui presenti è l’ambientazione urbana di Berlino, una città con la sua inconfondibile personalità, con le sue strade, le abitazioni, gli interni. A tal proposito il regista Leitch è stato molto bravo a restituire l’impressione di una città divisa, come lo era ai tempi a causa del famoso Mauer.
La vera e unica protagonista delle scene d’azione, però, è lei, la spia di Charlize Theron che dispensa calci, pugni e morte ai tanti malcapitati fuchi che le capitano a tiro, illudendosi di poterla fermare. Le coreografie sono molto belle seppur non particolarmente fantasiose, anche se risalta un notevolissimo piano sequenza molto articolato, ambientato sulle scale di un grosso edificio abbandonato, dove, senza interruzioni in sede di montaggio, la Theron affronta una decina di malcapitati. Veramente notevole, grazie anche alla montatrice islandese Elísabet Ronaldsdóttir.
La Theron come picchiatrice è molto credibile: alta e muscolosa di suo, ha veramente fatto male a qualche povero extra sottopagato, proprio come Gina Carano in Knockout. Quest’ultimo film non aveva grossi echi femministi, mentre questo Atomica Bionda forse leggermente di più. Comunque sia, Atomica Bionda è un leggero divertissment che non mancherà il suo obiettivo, nonostante qualche twist di troppo nel finale appesantisca inutilmente il prodotto.