Abbiamo bisogno di un nemico

Brevi considerazioni filosofiche sul nemico

Giosue Balocco
Lagrangia Independent
3 min readFeb 24, 2021

--

La necessità di avere un nemico e quindi un obbiettivo, che può configurarsi come bene superiore per la propria comunità, è insita storicamente nell’uomo: la sua assenza provoca smarrimento, incertezza e porta al disordine delle cose.

Se però fino allo scorso secolo la divisione geopolitica del mondo in grandi stati-nazione garantiva che il popolo uno fosse e unanimamente, spesso, non sempre, si riconoscesse come padrone delle proprie azioni tanto da superare il concetto stesso di stato, come aveva asserito Nietzsche nel suo Così parlò Zarathustra nel quale identificava nello stato il tradimento della volontà del popolo, poichè questo è già di per sè suprema forma di espressione individuale e comunitaria, ad oggi io mi sento di affermare che il popolo sia morto, tanto quanto per Nietzsche lo era lo stato insieme col pensiero religioso occidentale che aveva garantito fino ad allora il canone universale per la moralità delle azioni.

La necessità imprescindibile per l’uomo di avere un telos dunque si cala in questo momento, più profondamente, nell’esperienza dell’individuo, il quale cerca disperatamente o si fa indicare fideisticamente un nemico, da coloro che tentano di riesumare attraverso questo elemento aggregativo del tutto umano la forza del popolo, non tuttavia nei suoi aspetti comunitari positivi, ma piuttosto nella sua forma più beceramente divisiva.

Questa dicotomia del pensiero umano, che si è venuta a creare, fondata su condizione attuale e fine ultimo, nella quale il passato è raramente considerato, in un rapporto di continue cause e continui effetti, è quindi talvolta basata anche sul concetto di un io giusto e di un tu o un loro nemici, elemento che fu ravvisato, ancor prima che dal filosofo del superuomo, da Lev Tolstoj, che, nel suo capolavoro Guerra e Pace, era stato convinto assertore dell’identificazione della storia come un moto continuo di genti, di uomini, basato sull’additare a nemico (oppure obbiettivo) questo o quel concetto, un popolo o un altro, una terra o un’altra ancora.

Questa tendenza a dividere, non basandosi sulla propria esperienza, nasce dalla natura inconciliabile tra singolo e comunità, che, pessimisticamente, sfocia nel peggiore degli individualismi egoisti, cioè quando il nemico non è più esterno alla comunità, poichè essa non esiste più, ma è la comunità stessa, il prossimo che la cultura cristiana aveva insegnato ad amare, riprendendo la tradizione filantropa ellenistica.

La morte del popolo, che a mio avviso è avvenuta con l’avvento delle grandi ideologie che hanno rotto e scardinato il precedente mito dei confini nazionali, rendendo più marcata la divisione dal punto di vista ideologico piuttosto che nazionalistico, non deve diventare il nemico moderno: non va temuta, ma, come ogni nuovo concetto, va osservata, analizzata e compresa, chiaramente con un obbiettivo, avendo già stabilito che senza di esso l’uomo stesso non può esistere (ritengo infatti che le cose abbiano già in sè stesse il proprio fine e che l’uomo tramite il suo ragionamento debba aspirare a raggiungerlo).

In una condizione di incertezza come quella in cui vive oggi l’uomo, la volontà individuale di azione diventa fondamentale per la costruzione del futuro tramite il nostro obbiettivo insito, che diviene sia fine sia mezzo sia essere primo, e ogni considerazione riguardo il libero arbitrio deve cadere: esso esiste quando agisco, poichè così decido e anche se non dimostrabile, lo stesso, seguendo il pensiero Kantiano, è un postulato che devo ritenere vero nel momento in cui agisco.

Se perciò l’uomo ha questa condizione necessaria del nemico, l’obbiettivo che bisogna porsi è quello di sfruttare vantaggiosamente ciò che la nostra stessa mente ci dà naturalmente: tentare di eliminare questa parte dell’uomo significherebbe eliminare l’uomo stesso, che è sì animale politico e sociale, ma che si è evoluto, a oggi, in animale competitivo; significherebbe essere il cane che si dimena e finisce strangolato dalla corda legata al carro della famosa parabola stoica: equivalendo ad andare contro una tendenza irreversibile con la probabilità di danneggiarsi nell’impresa. Naturale conseguenza di queste considerazioni è il ribaltamento paradossale del concetto di inimicizia contro la stessa: se è necessario avere un nemico, e così è, che esso sia il concetto stesso di nemico. L’uomo agendo diviene perciò, a quel punto, forma migliore e massima di sè stesso.

Ciò, chiaramente, non ci permette di oltrepassare il limite autoimposto e probabilmente irraggiungibile del superamento delle inimicizie, ma ci rende propriamente padroni dello stesso, capaci di indirizzarlo ovunque riteniamo, rendendolo utopisticamente un rapporto tra avversari e non nemici, dominando, forse, uno degli istinti, ossimoricamente, più razionali.

--

--