Il Dante politico e il Dante ipponatteo

linda artoni
Lagrangia Independent
3 min readMar 25, 2021

La figura di Dante non è emblematica solo per il suo valore letterario: ottima parte della Commedia è frutto anzi dello spirito politico e polemico di un uomo che, dopo essersi dedicato agli affari pubblici per anni, si sente gabbato dal paese che ha servito.

Il poeta sfrutta diversi passi dell’opera per rifarsi della ferita all’orgoglio che ha subito con l’esilio, presagitogli da Brunetto Latini (Inf. XV) attraverso il popolo fiorentino che gli si fa nemico per il suo “ben far”. Ed è proprio rivolta a Firenze l’invettiva messa in bocca a Ciacco nel canto VI dell’Inferno: «La tua città, ch’è piena d’invidia sì che già trabocca il sacco […]».

La posizione del ghibellin fuggiasco nella lotta interna a Firenze, pur non essendo mai stata esplicitata dal poeta, è deducibile dalla sua opera e dalla sua storia: Ciacco procede narrando le vicende di guelfi bianchi e neri e di come questi ultimi prevarranno grazie all’ausilio di Bonifacio VIII, che Niccolò III, tra i simoniaci della terza bolgia, prevede lo raggiungerà presto (Inf. XIX) e che viene accusato da san Pietro di usurpare il suo trono (Par. XXVII), prese di posizione tutt’altro che ambigue.

Il poeta non fu mai a favore del potere imperiale sopra quello del pontefice, ma ne promosse sempre la convivenza pacifica: egli, tramite l’imperatore Giustiniano nel canto VI del Paradiso, non risparmia nessuno dalle condanne, rivolte sia ai guelfi, che pretendono di sostituire l’insegna imperiale con i gigli francesi, sia ai ghibellini, che la usurpano.

Il fraintendimento foscoliano è dovuto alla posizione intermedia del poeta che, come ben si può dedurre dal De monarchia, ritiene necessaria l’esistenza e la collaborazione dei “due soli”, collocandosi tra i guelfi bianchi, quindi moderati.

Il poeta mal sopporta le divisioni interne, i conflitti tra concittadini, e il Dante auctor stesso non si esime dal condannare la «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!» (Pur. VI), versi celebri e tristemente attuali, che commemorano la tendenza a frammentarsi del bel paese, che è una fiera, «fatta fella» perché lasciata senza la supervisione di un’autorità unica: non è un caso che l’Alighieri, un garibaldino ante litteram, sia stato il primo intellettuale a ricercare, come espletato nel De vulgari eloquentia, un volgare illustre che potesse fungere da koiné ed unificare l’Italia dal punto di vista linguistico, questione che sarà risollevata secoli dopo da Manzoni.

Quello linguistico non è l’unico punto di contatto del poeta con Alessandro Manzoni, che nel coro dell’atto III dell’Adelchi definisce il popolo italiano «un volgo disperso che non ha nome».

Dante desidera che l’Italia si unisca, libera da dominazioni straniere, sotto una monarchia centralizzata che permetta alle fiere che la piegano di allontanarsi e alle virtù di rifiorire, esortazione condivisa dal contemporaneo Petrarca in All’Italia, il cui sentimento viene ripreso da Machiavelli due secoli più tardi.

Sarebbe un peccato, però, limitare lo spirito polemico dell’Alighieri all’alta politica, senza abbassarlo alle invettive personali, connotate da verve ipponattea, inserite in tutta la prima cantica: oltre alle citate rivalse su Bonifacio VIII, viene spontaneo nominare «colui che fece per viltade il gran rifiuto», Celestino V, posto tra gli ignavi del canto III dell’Inferno; è difficile scordarsi del “vicino di casa che nella commedia ponesti tra questi violenti”, Filippo Argenti, immortalato in una canzone di Caparezza, che affoga nel fango tra gli iracondi descritti nel canto VIII, o del sarcastico dialogo con Farinata degli Uberti, i cui familiari, a differenza di quelli di Dante, «non appreser ben quell’arte» di far ritorno in patria (Inf. X). Nel canto XVII numerose sono le famiglie fiorentine di cui si condannano le pratiche di usura e nel XXV sono puniti i Donati, famiglia a capo dei guelfi neri.

Virgilio scaccia Filippo Argenti che tenta di aggrapparsi alla barca — Gustave Doré

L’ispirazione poetica dantesca è inseparabile dalla natura politica dell’autore ed è l’intreccio di questi due elementi a costituirne l’indiscutibile genio.

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