La tragedia interiore del Dante uomo— Purgatorio, canto VIII

Giosue Balocco
Lagrangia Independent
3 min readMar 25, 2021

Era già l’ora che volge il disio

ai navicanti e ‘ntenerisce il core

lo dì c’han detto ai dolci amici addio;

e che lo novo peregrin d’amore

punge, se ode squilla di lontano

che paia il giorno pianger che si more;

quand’ io incominciai a render vano

l’udire e a mirare una de l’alme

surta, che l’ascoltar chiedea con mano.

E quasi sprofondando in una malinconica assuefazione, il lettore dei versi danteschi del canto VIII del Purgatorio si ritrova immancabilmente commosso dalla disarmante sincerità emotiva che il sommo poeta dimostra.

La lontananza e l’interiorità dell’esule assumono, dunque, una certa centralità nell’ottavo canto, quando Dante, mosso forse da un senso di nostalgia per Firenze, tenta di analizzare il proprio modo di fronteggiare le difficoltà che l’esilio implica.

Chiaramente il sentimento del “Dante autore” è pressoché totalizzante e sembra quasi non dare scampo al poeta, il quale, a sottolineare ulteriormente la propria condizione dolorosa, inserisce anche la storia dell’esilio spirituale d’Adamo, il peggiore della storia umana, quello che ha determinato l’allontanamento dell’uomo da Dio. Tuttavia, analizzando i versi, tale nostalgia pessimista appare quasi incostante, intervallata da momenti di speranza. Lo squillo di campane, simbolo, certo, di una lontananza desolante, ma anche di uno speranzoso richiamo, le tre stelle delle virtù teologali, che hanno sostituito, nella volta celeste, quelle delle virtù cardinali, e, infine, l’arrivo degli angeli (con vesti verdi) che salvano le anime dalla tentazione della serpe, non possono non rappresentare in Dante un atteggiamento di forte resilienza emotiva e speranza.

La serpe tentatrice giunge nella valle dei principi negligenti

La profezia di Currado Malaspina si configura dunque, forse, come il finale più coerente con le teorie e gli avvenimenti del canto, simbolo di un Dante che, piuttosto che arrischiarsi nella comprensione dell’imperscrutabile volontà della mente divina, ne riceve passivamente le decisioni. Per Dante, infatti, come sottolineato nel canto III del Purgatorio, il tentativo di comprensione con la sola e limitata ragione umana l’incommensurabile vastità della natura di Dio, una e trina, e le sue scelte, non può che essere inutile e, anzi, superbo, giacchè l’uomo deve accontentarsi di conoscerne l’esistenza, e non indagare oltre, poichè le successive indagini, teorizzate dalla teologia scolastica e che culminano col quesito sul “perchè” Dio esista, sono rimandate a Dio stesso.

Un Dante che di fronte al fato, quasi come un personaggio euripideo, lascia che le azioni facciano il loro corso senza tuttavia rinunciare alla propria libertà. Un Dante che aspira al modello di accettazione stoica della realtà ma non lo raggiunge e pone come proprio modello la gravitas catoniana.

Una lontananza, in definitiva, vissuta nella sua dimensione più umana e interiore, ma col costante tentativo, mosso da speranza, di giungere a un sostanziale stato di quiete.

Un sentimento, che Dante riprende da Omero e dai nòstoi degli eroi del ciclo troiano, e che modifica adattandolo non alla visione di un eroe ma a quella di un uomo.

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