L’amore al tempo del coronavirus — 3 il contagio

Sergio Fadini
L’amore al tempo del coronavirus
3 min readMar 12, 2020

“Coma va la salute?”, mi chiese Diana entrando.

Era da sempre la sua prima domanda quando ci incontravano.

Sì perché me l’ero vista brutta, il virus non aveva risparmiato neanche me.

“Ho un po’ di febbre, ma niente di che”, risposi. Normale influenza stagionale in forma lieve.

All’epoca del Grande Contagio me la vidi brutta.

Come dimenticarsi quei giorni confusi in cui ogni 2 giorni usciva un nuovo decreto con sempre maggiori limitazioni?

Tutto doveroso, inutile fare dietrologia, il nemico era sconosciuto e si prendevano provvedimenti basandosi sui numeri.

O meglio, i primi decreti si basavano sui numeri, poi qualcosa cambiò, tutta l’Italia fu dichiarata zona protetta, che significava dire zona a rischio. Gli altri Stati europei, pur avendo anche loro numeri in crescita esponenziale, inizialmente si limitarono a imitare alcune scelte italiane solo in alcune zone maggiormente colpite.

L’idea di limitare la propagazione del virus nella prima zona dove sembrava si fosse propagato, fu valida ma ahinoi inutile, come dimostrarono gli studi nel corso del tempo. Il virus già circolava in una zona ben più ampia e quando tale zona fu capita in tutta la sua ampiezza era troppo tardi; i turisti in viaggio da quelle zone avevano portato il virus già ovunque.

Ma ancora i numeri testimoniavano che il contagio proseguiva in quella zona, mentre altrove sembrava propagarsi solo con chi aveva avuto contatti diretti con chi era stato non tanto nella prima rozza ma con la zona allargata di contagio, che coincideva con un’ampia fetta del nord Italia.

Io invece vivevo in un luogo dove i contagi si contavano sul palmo di una mano, eppure la paura era tanta, la caccia alle streghe implacabile.

Eh sì perché mentre i personaggi famosi contagiati non facevano mistero della loro malattia, che significava che qualcuno li aveva involontariamente contagiati, non che avessero commesso qualche crimine, degli altri si manteneva il più possibile secretati i nomi e si cercava di risalire sia la catena del contagio sia di prevenire ulteriori diffusioni. Un lavoro capillare che tendeva probabilmente a non far scattare la psicosi da tampone ma che ebbe l’effetto contrario, nessuno si fidava più di nessuno.

Quando mi salì la febbre feci come ci era stato detto, mi chiusi in casa in quarantena, anche perché non era detto che fossi contagiato. Da chi poi, vattelapesca. Ma le mie condizioni peggiorarono nel giro di poco per cui chiamai il numero verde solo che, non riuscendo a dimostrare diretti contatti con altri contagiati mi dissero che non valeva la pena di fare il test.

Mi ricoverarono pochi giorni dopo, furono giorni difficili. Per fortuna avevamo già allora un ottimo sistema sanitario nazionale e me la cavai, come molti altri.

Ma in migliaia non ce la fecero.

Eravamo ancora in pieno caos quando mi dimisero dopo alcune settimane e iniziai a studiare i dati del contagio provincia per provincia, quelli che poi Paolo utilizzò per il suo libello.

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