L’amore al tempo del coronavirus — 5 Chiusi in casa

Sergio Fadini
L’amore al tempo del coronavirus
3 min readMar 14, 2020

La figlia di Paolo e Diana aveva compiuto 18 anni da diversi mesi. Era nata proprio nei primi giorni della grande serrata, quando vigeva l’obbligo di stare chiusi in casa tranne che per andare a lavoro, chi proprio non poteva lavorare da casa, per fare la spesa o per motivi sanitari.

Suo padre non poté recarsi in ospedale a vederla nascere, per dire.

Furono settimane davvero difficili. Il nemico era invisibile , e per difendersi bisognava rinnegare secoli di acculturamento sociale. Diffidare si doveva, anche del vicino. Eppure si sperava di tornare quanto prima alla normalità, al traffico, alle code…

Al sud era una richiesta contronatura e i primi soli primvaerili rendevano il tutto più difficile. Hai voglia di fare proclami su tutte le TV, obbligare intere famiglie a stare stipate in casa non era mica facile.

C’era chi suonava dai balconi, chi si dedicava all’arte, chi cucinava, chi leggeva, chi usava i social o vedeva decine di puntate di serie tv. Più fortunati coloro che vivevano nelle campagne, che neanche se ne accorsero delle differenze, la natura aveva sempre bisogno di attenzione quotidiana.

tavola originale del maestro Andrea Canepari

Nei centri urbani, buona parte delle coppie ne approfittarono per copulare, altre litigarono tutto il tempo fino a lasciarsi, talvolta anche in modo brutale.

Nelle famiglie nel giro di una settimana vennero al pettine tutti i nodi. Laddove c’era armonia reale, trionfò. Laddove si viveva sul precario equilibrio del non vedersi quasi mai, tipico di molte famiglie, pochi giorni e i litigi esplosero in tutta la loro drammaticità.

Ma anche fuori casa ben presto fu il delirio.

Un decreto valido inizialmente solo nelle zone maggiormente colpite, poi allargato a tutto il territori nazionale vietò di uscire da casa, ma permetteva di fare passeggiate e andare in bici. Eppure nelle città fioccavano le multe.

Il problema era che per spostarsi serviva un’autodichiarazione in cui certificavi il motivo. E le due disposizioni fra loro cozzavano per cui i litigi, prima sotto forma di sclero sui social, poi fisici, non tardarono a mancare.

E d’altronde non era facile per nessuno, amministratori come cittadini, abituarsi a regole che cambiavano in continuazione. Bar aperti ma solo fino alle 18, bar chiusi; parchi aperti ma qualcuno li chiudeva; chiese chiuse, poi riaperte. Tabaccai aperti ma librerie no insomma era un casino, giustificato dall’eccezionalità della situazione e sopportato da un numero impressionante di cittadini, sebbene controvoglia. Poi ovvio c’erano i ragazzi e gli anziani che a stare a casa proprio non ce la facevano, vagli a dar torto specie al sud dove le temperature primaverili iniziavano a far venire voglia di vita all’aperto.

L’idea di poter costringere 60 milioni di italiani dentro le proprie case sembrava un’idea uscita dalla penna di qualche scrittore distopico. E invece era la realtà. Necessaria ma dolorosa.

Anche se altrove preferirono essere più darwinisti nell’approccio.

L’Italia era una pentola a pressione. Fu dura.

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