L’amore al tempo del coronavirus — 9 Rendersi utili per r-esistere

Sergio Fadini
L’amore al tempo del coronavirus
4 min readMar 22, 2020

“Mi hanno detto che dopo la Grande Pausa entri nella protezione civile”, disse Paola a mio figlio.

“Sì, qualche mese fa sono stato 7 giorni in missione con loro assieme ai compagni di scuol e ho deciso di farne parte anche io, come tutti i miei amici d’altronde”. La protezione civile andava decisamente di moda, e ciò era un bene.

Tavola originale del maestro Andrea Canepari

“Lo sai che Diana ha scritto un libro in cui parla anche di come la protezione civile è cambiata dopo il Grande Contagio?”, dissi. Mio figlio fece di no con la testa e pregai Diana di raccontare.

“Nella prima fase di autoprigionia c’era chi cantava dai balconi, chi suonava, chi andava a far la spesa ai vicini di casa insomma in tanti si provava a reagire a questa strana situazione, facendo quel che si poteva. Ma via via che il tempo passava e i morti e i contagiati avanzavano, le bare messe ammassate nelle chiese che nessuno poteva piangere, e non si vedeva la fine del tunnel, la paura si impossessò di molti cittadini.

E la paura fa commettere atti pericolosi. Paura e morte, un cocktail pericoloso.

Da un lato avevamo i morti causati dal Grande Contagio, dall’altro iniziarono a moltiplicarsi i morti per altre cause dovute al dover stare rinchiusi in casa, che se era certo più comodo che stare al fronte, di sicuro non era un condizione cui si era abituati. Molti si spensero e morirono di paura, tanti altri a causa del non riuscire più a riconoscere il giorno dalla notte. E poi Troppo fumo, troppo cibo cucinato per combattere l’inedia, troppe droghe pesanti consumate per partire per viaggi esotici della mente. Nel giro di pochi mesi i morti collaterali, così vennero chiamati, raggiunsero cifre impressionanti in tutta Italia.

Molti altri impazzirono, con conseguenze devastanti per familiari e vicini di casa e aumento degli omicidi familiari e condominiali.

E poi c’erano gli impauriti che reagivano in modo scomposto; c’era chi impaurito dai militari in piazza andò a gettarsi contro di loro e si fece ammazzare; chi vedeva l’untore dietro ogni angolo e sparava dal balcone appena vedeva qualcuno con le scarpe da ginnastica ai piedi, manco fossero piccioni; chi aggrediva le persone che facevano la fila per comprare alimenti.

Ben presto si rischi il caos, nonostante la maggior parte degli italiani se ne stava tappato in casa, pure nei tanti paesi dove non c’era manco un contagiato.

Ma in mezzo a tutto questo delirio c’era pure chi sfidava le regole per dare una mano ai bisognosi, ma guai a incappare in un posto di blocco, nessuno era autorizzato se non la protezione civile. A quel punto qualcuno si rese conto che la politica della camicia di forza messa a un intero paese, a un intero continente non poteva durare a lungo. Perché se era vero che non si erano levate particolari voci di dissenso neanche dalle ali più antagoniste della società, poiché si combatteva contro un nemico invisibile che non guardava a ricchi o poveri, a lungo non si poteva resistere. Specie considerando che il contagio sì aumentava, ma in modo molto difforme su tutto il territorio. Purtroppo i dati non aiutavano a prendere decisioni coraggiose, in fondo anche se a ritmo diverso il contagio si propagava un po’ ovunque e non si capiva come mai, visto che erano da mesi tutti chiusi in casa.

L’idea venne guardando quanti medici avevano aderito alla proposta di partire per il fronte epidemiologico. Si chiedevano 300 persone, se ne erano presentate oltre 8000. Che chiedevano di andare a rischiare la pelle, senza dare peso a quanto erano stati derisi per anni proprio da quei territori che oggi erano in difficoltà. Un atto non eroico, ma di civiltà. L’emergenza non ammetteva risentimenti.

E allora si pensò che forse per far uscire la gente di casa si poteva fare una cosa simile, permettendo a tutti coloro che volevano dare una mano di federarsi in gruppo alla protezione civile.

Così la protezione civile divenne la valvola di sfogo per tutti coloro che in casa proprio non riuscivano a stare e preferivano partire e rischiare la pelle piuttosto che morire di inedia nell’attesa di tornare a vedere il sol dell’avvenire. C’era chi restava vicino casa a dare una mano, c’era chi partiva per zone particolarmente colpite dal Grande Contagio”.

“Certo, non fu un gesto nobile come quello dei medici”, chiosò mia moglie. “Ma comunque in tanti si diedero da fare e da allora la protezione civile è diventata obbligatoria per una settimana per tutti, e poi chi vuole può continuare a dare una mano. Qualcosa si è imparato”.

Mio figlio sorrise.

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