Il senso di smarrimento di una generazione senza coscienza (*)

Le parole per capire, riconoscersi e provare a tracciare (di nuovo) un percorso politico comune

Giuseppe D'Elia
Lavoro, lavori e coscienza di classe
5 min readAug 7, 2014

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Forse il problema è solo mio. Forse non ho capito nulla di quello che succede attorno a me. Forse è davvero accettabile perdere ogni prospettiva di miglioramento individuale e collettivo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Sentirsi raccontare sempre le solite storie sul posto fisso che non esiste più, sulla flessibilità, sulla competitività, sulla meritocrazia.

Forse ho fatto male a non smettere di studiare. Forse è il mio bisogno di conoscere, capire, riflettere, il vero problema. Dev’essere quello, certo!

Art. 36 Cost.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.

Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

Art. 38, co. 2, Cost.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

(dove le ho lette queste cose? Sono cose assurde! Retribuzioni in grado di garantire un’esistenza libera e dignitosa, diritto al riposo, sussidi per infortuni, malattie, vecchiaia e persino per la disoccupazione involontaria! Ma come? Ma dove? E il mercato? E i conti pubblici? E l’Europa?)

Quando mi diplomai ero ancora minorenne. Il mio approccio col mondo universitario fu traumatico: ero convinto di potermela cavare benissimo studiando un paio d’ore al giorno; facendo così mi ero diplomato con 52/60, pensavo, coi punti della tesi ce la farò sicuramente a laurearmi con più di 100/110.

Col senno di poi erano calcoli sballati (**).

Ma nel presente mi sembravano abbastanza plausibili.

Grave errore di prospettiva.

(col senno di poi, posso anche ammetterlo)

Il mercato nella sua cruda essenza l’ho conosciuto soprattutto come ‘musicista’. Con la band facemmo la gavetta, suonammo gratis un po’ ovunque “per farci conoscere”. Poi arrivarono i primi ingaggi a pagamento. Mai visto un contratto, però. Compensi che coprivano a stento le spese, qualcosa in più giusto in casi eccezionali (gara tra band con in palio un sostanzioso premio in denaro che sarebbe andato al solo vincitore): il mercato non gradiva più di tanto il prodotto. O forse è l’idea stessa di libera creazione artistica che non si concilia facilmente con quella di prodotto da vendere secondo una logica di mercato. Sia come sia, nella logica della competizione ci sono sempre vincitori e vinti. Anche quando a vincere è solo ed esclusivamente chi se lo merita. E io e la band, meritevoli o no, avevamo perso.

(la meritocrazia è quello che manca in questo Paese! Bisogna essere imprenditori di se stessi, non si può più pretendere di fare lo stesso lavoro per tutta la vita e poi, in fondo, che barba il posto fisso! Il futuro è nei lavori creativi e flessibili!)

(ci vuole più flessibilità! Le imprese non è che non vogliono assumere, ma assumere in Italia è come contrarre un matrimonio indissolubile! Il problema è l’art. 18! Date alle imprese la libertà di licenziare e quelle assumeranno…)

(la globalizzazione impone sfide che comportano sacrifici inevitabili… Ci sono tasse altissime in Italia… E il cuneo fiscale… E i sindacati… E i salari che non possono essere sempre adeguati al costo della vita, perché ci vuole una politica di moderazione salariale per competere sui mercati internazionali!)

Dopo il diploma ho continuato comunque a studiare. Certo tra la musica, l’associazionismo, le prime esperienze di scrittura, l’attività giornalistica e qualche lavoretto saltuario, finivo per studiare nei ritagli di tempo, ma ho sempre continuato a studiare. Spesso non davo esami, ma continuavo sempre a studiare. Pensavo che il percorso conoscitivo fosse molto più importante delle tappe preconfigurate da un carrierismo che non credevo mi appartenesse.

Pensavo qualcosa che, di fatto, risultava incompatibile con la logica di mercato. Pensavo e penso ancora che un mondo costruito a misura dei criteri del mercato fosse un mondo che risponde a una logica inumana e antidemocratica. Pensavo e penso ancora che ci fosse bisogno di una risposta politica a tutto ciò. Ma quanti sono, alla fine, quelli disposti a pensarla come me?

Fondamentalmente ho sempre pensato che se i lavoratori invece di competere tra loro per ottenere soddisfazioni minime, a costo di duri sacrifici, si fossero coordinati per raggiungere obiettivi politici comuni e condivisi, il livello complessivo di benessere sociale sarebbe stato decisamente superiore in raffronto alle condizioni di vita attuali, anche di quelle parti del pianeta che in teoria dovrebbero essere le più sviluppate e progredite.

Lavorare meno, lavorare tutti, per dirla con uno slogan di una stagione di lotte ormai sopite e per lo più dimenticate.

Ho sempre pensato, insomma, che fosse davvero al limite della follia il meccanismo economico-sociale nel quale ci siamo ‘democraticamente’ imprigionati.

Poi un giorno ho scoperto che qualcuno aveva descritto questa follia molto meglio di come potrei fare io. E mi sembra doveroso concludere citandolo:

«Supponiamo che in un dato momento un certo numero di persone sia impiegato nella produzione di spilli. Queste persone producono una quantità di spilli che risponde al fabbisogno di spilli del mondo intero lavorando, poniamo, otto ore al giorno. A un certo punto qualcuno fa una invenzione per cui lo stesso numero di persone produce una quantità doppia di spilli. Ma il mondo non ha bisogno di tale quantità doppia di spilli. Gli spilli sono così a buon mercato che neanche ad un prezzo più basso ne sarebbe acquistata una quantità maggiore. In un mondo sensato tutti coloro che sono coinvolti nella produzione di spilli dovrebbero lavorare quattro ore al giorno anziché otto e tutto il resto andrebbe avanti come prima. Ma nel mondo reale questo sarebbe ritenuto demoralizzante e quindi gli uomini continuano a lavorare otto ore al giorno. La quantità di spilli prodotta eccede la domanda, alcuni imprenditori falliscono e metà degli uomini che prima erano impiegati nella produzione degli spilli vengono espulsi dal lavoro. Alla fine c’è nel complesso la stessa quantità di tempo non dedicato al lavoro rispetto alla soluzione alternativa, ma metà degli uomini è completamente in ozio mentre l’altra metà è pienamente occupata nel lavoro. In questo modo è garantito che l’inevitabile incremento del tempo non dedicato al lavoro causerà una diffusa miseria anziché essere una fonte universale di felicità. Si può immaginare qualcosa di più folle?»

Bertrand Russell

(*) Senza coscienza di classe. Forse anche incoscienti in senso lato, questo non saprei dirlo… Ma di certo senza una coscienza di classe. Nemmeno allo stato di abbozzo embrionale.

(**) Sballati non per la votazione finale ma per il fatto che il percorso è stato molto più lungo del previsto e tutt’altro che semplice. Anzi.

N.B. Nel 2015, alcune storie di precarietà sono state raccolte e narrate, qui: https://medium.com/lavoro-lavori-e-coscienza-di-classe/archive/2015

Sette piccoli tasselli di un mosaico ancora tutto da ricostruire.

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Giuseppe D'Elia
Lavoro, lavori e coscienza di classe

Giornalista e avvocato. Segue da oltre vent’anni le tematiche politiche legate ai diritti dei lavoratori. Musicista nel poco tempo che resta